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( votes)1. Premesse
Una delle domande cui ogni studente del corso di laurea in giurisprudenza nella Repubblica italiana deve sapere rispondere con sufficiente sicurezza, sin dai primi anni del proprio cursus studiorum, è quella relativa alla differenza tra diritto soggettivo e interesse legittimo.
Tale distinzione tra situazioni giuridiche soggettive, tutt’altro che accademica, lungi dall’essere una oziosa classificazione dottrinaria, costituisce le fondamenta di differenziazione delle situazioni soggettive che si instaurano quando il cittadino si interfaccia con soggetti privati ovvero con soggetti pubblici, oppure, ancorché privati, dotati di un munus publicum.
Il diritto soggettivo è posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento attribuisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in ordine ad un bene, nonché tutela degli interessi afferenti al bene stesso in modo pieno ed immediato. La tutela del diritto soggettivo è affidata al giudice ordinario (art. 24, Cost.) e solo in alcune materie al giudice amministrativo, in base all’art.103 della Costituzione che prevede, per alcune fattispecie, la cd. giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
L’interesse legittimo, invece, è una situazione giuridica soggettiva di vantaggio conferente la pretesa alla legittimità (legalità) dell’attività amministrativa, riconosciuta a quel soggetto che, rispetto ad un dato potere della P.A., si trovi in una particolare posizione differenziata rispetto agli altri soggetti (cd. posizione legittimante).
E’ lecito chiedersi in che modo la macro classificazione sopra ricordata possa trovare pertinenza col tema indicato nel titolo del presente contributo che mira a sviscerare, senza pretesa di esaustività, i limiti del ricorso alla transazione disciplinata dall’art. 1965 cod. civ. e richiamata dall’art. 239 del Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 163/2006 e s.m.i.) nel ramo degli appalti e concessioni pubblici.
In effetti, il nesso esiste e si coglie allorquando ci si interroga sull’ampiezza del potere dispositivo delle parti in ordine alla situazione soggettiva oggetto di transazione.
E’ l’art. 239 del Codice dei Contratti che al primo comma chiarisce inequivocabilmente che “le controversie relative a diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, possono sempre essere risolte mediante transazione nel rispetto del codice civile”.
Attraverso questa brevissima disamina circa le caratteristiche delle due macro situazioni soggettive apprezzabili nel nostro ordinamento giuridico, appare possibile cogliere come la transazione disciplinata dall’art. 1965 cod. civ. e dall’art. 239 del Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 163/2006 e s.m.i.) per la sua intrinseca funzione compositiva di interessi preminentemente paritari, possa incidere esclusivamente su posizioni soggettive effettivamente disponibili e pertanto di diritto soggettivo, atteso che la pretesa al rispetto del principio di legalità dell’agere amministrativo, come corollario dell’art. 97 Cost., si consacra in una pretesa per il cittadino, su cui però quest’ultimo non ha potere dispositivo.
Già da queste brevi premesse possono quindi rintracciarsi quali siano i limiti oggettivi del ricorso a tale istituto per la composizione delle controversie nascenti nel terreno della contrattualistica pubblica.
2. Le caratteristiche principali della transazione e le recenti considerazioni generali della Corte dei Conti (Del. 123/2015, Sez. reg. Umbria)
Al fine di procedere all’analisi dell’istituto della transazione, occorre muovere dall’esegesi delle norme stabilite dal codice civile, in quanto, come ormai sancito espressamente dall’art. 2 dello stesso Codice dei Contratti Pubblici, il diritto comune riespande la propria vis applicativa laddove la norma speciale pubblicistica non disponga diversamente.
E’ evidente che, in presenza di un dettato normativo assai scarno come quello stabilito all’art. 239 del Codice dei Contratti, l’impatto del codice civile sul diritto vivente in tema di transazioni nel ramo dei contratti pubblici si rivela assai importante.
L’art. 1965 cod. civ. prevede che “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro”. Il comma successivo precisa poi che “Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti”.
La transazione, pertanto, è un contratto consensuale a prestazioni corrispettive, atteso che entrambi gli stipulanti rinunciano a parte delle proprie pretese attraverso le reciproche concessioni. Pertanto, affinché si configuri transazione è essenziale il sacrificio reciproco delle parti che non si ha se, ad esempio, una di esse rinunci completamente alla propria pretesa ed accetta le condizioni della controparte.
Di regola la forma scritta è prevista solo ad probationem (v. 1967 c.c.), ma se la lite ha ad oggetto i diritti di cui all’art. 1350 c.c. la forma scritta è necessaria per la validità del contratto (1350, n. 12 c.c.). Nel caso dei contratti pubblici, è il quarto comma dell’art. 239 del Codice dei Contratti che prevede la sanzione della nullità della transazione in assenza della forma ad substantiam.
Con la Deliberazione della Sez. regionale di controllo per l’Umbria 24/9/2015 n. 123, la Corte dei Conti ha avuto modo di sviscerare l’istituto della transazione sotto il profilo della legittimità del ricorso a tale negozio giuridico per un ente pubblico.
Nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici, l’attività degli Enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’Ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
Appare, infatti, utile rammentare le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, in quanto, sul piano generale, la rassegna condotta sull’istituto dalla Magistratura contabile ci consente di comprendere da dove tragga origine la disposizione di cui all’art. 239 del Codice dei Contratti anzi ricordata e l’applicabilità della transazione alla contrattualistica pubblica in generale.
La Corte dei Conti ha quindi avuto modo di spiegare che:
Quanto all’applicabilità della transazione agli Enti pubblici, altre Sezioni regionali di controllo che si sono occupate della questione (v. ex multis, Sez. Lombardia, del. 26/2008 e 1116/2009; Sez. Piemonte, del. 15/2007 e 20/2012) hanno affermato i seguenti principi, che questo Collegio condivide:
- anche gli Enti pubblici possono di norma transigere le controversie delle quali siano parte ex art 1965 c.c.;
- i limiti del ricorso alla transazione da parte degli Enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica Amministrazione. Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che, nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici, l’attività degli Enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’Ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa. Uno degli elementi che l’Ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art. 1966, co. 2 c.c.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge;
- requisito essenziale dell’accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss. c.c.) è, in forza dell’art 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico;
- inoltre, come affermato dalla giurisprudenza civile (cfr., ex multis, Cass. 6 maggio 2003 n. 6861), costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un rapporto che, oltre a presentare, almeno nell’opinione delle parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione, quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni.
Per gli Enti territoriali non è previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le Amministrazioni dello Stato l’art. 14 del R.D. n. 2440/1923 (legge di contabilità generale)”.
La spendita del potere pubblico e perciò oggetto di negoziazione e di formalizzazione nel successivo provvedimento non può essere una illimitata gamma di scelte discrezionali da parte dell’amministrazione, ma solo l’individuazione di una fra più soluzioni comunque idonee ad azionare il soddisfacimento dell’interesse pubblico
Sul piano quindi della disciplina generale – è brillantemente spiegato dalla Corte dei Conti – sono rintracciabili alcuni aspetti propri della transazione “pubblica” che ne connotano il carattere generale del fine cui essa deve in ogni caso “guardare”, dovendo motivare l’ente pubblico che vi ricorrere sulla base di una valutazione di convenienza non solo economica per l’ente che la pone in essere, ma concretamente tesa alla miglior cura dell’interesse pubblico sotteso alla stipula del negozio giuridico compositivo.
Sul punto la stessa Magistratura contabile, in un recente passato, ha sottolineato con fermezza che “la soluzione concordata (ndr. nell’accordo transattivo) si inserisce “nell’esercizio di un potere pubblicistico che non può sottrarsi al quadro delle regole proprie della spendita di detto potere e perciò oggetto di negoziazione e di formalizzazione nel successivo provvedimento non può essere una illimitata gamma di scelte discrezionali da parte dell’amministrazione, ma solo l’individuazione di una fra più soluzioni comunque idonee ad azionare il soddisfacimento dell’interesse pubblico”” (deliberazione Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia 26/2008/PAR).
3. La transazione ai sensi dell’art. 239 del Codice dei Contratti
L’art. 239 del Codice dei Contratti Pubblici, come si diceva in premessa, è norma assai asciutta.
Essa si compone di 4 commi che così recitano:
“1. Anche al di fuori dei casi in cui è previsto il procedimento di accordo bonario ai sensi dell’articolo 240, le controversie relative a diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, possono sempre essere risolte mediante transazione nel rispetto del codice civile.
2. Per le amministrazioni aggiudicatrici e per gli enti aggiudicatori, se l’importo di ciò che detti soggetti concedono o rinunciano in sede di transazione eccede la somma di 100.000 euro, è necessario il parere dell’avvocatura che difende il soggetto o, in mancanza, del funzionario più elevato in grado, competente per il contenzioso.
3. Il dirigente competente, sentito il responsabile del procedimento, esamina la proposta di transazione formulata dal soggetto aggiudicatario, ovvero può formulare una proposta di transazione al soggetto aggiudicatario, previa audizione del medesimo.
4. La transazione ha forma scritta a pena di nullità.”
Ad avviso di chi scrive, è il primo comma che deve destare maggiore attenzione nell’esegesi della norma pubblicistica, su cui, per motivi di brevità espositiva, si intende, in questa sede, prestare maggiore riflessione analitica.
Esso consacra apertis verbis quale sia l’ampiezza del potere dispositivo di cui gode la stazione appaltante allorquando intenda procedere alla stipula di un negozio giuridico a finalità transattiva.
Le controversie devono riguardare esclusivamente diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici. L’asserzione è chiara nella sua semantica e sembrerebbe non lasciar adito a divergenze ermeneutiche. Gli interessi legittimi non possono essere oggetto di transazione. Ciò non di meno, come nel prosieguo si dirà, il confine tra diritti soggettivi e interessi legittimi diventa sempre meno tangibile, allorquando si vadano ad intaccare in via transattiva gli elementi essenziali di quello che era l’oggetto dell’affidamento originariamente esternalizzato.
Pertanto non possono ritenersi transigibili le posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo. Ad escluderlo non è soltanto il tenore dell’art. 1966 c.c. che fa riferimento ai soli diritti (né tantomeno il richiamo ai soli diritti soggettivi come posizione giuridica soggettiva transigibile previsto dal primo comma dell’art. 239 del Codice dei Contratti Pubblici), e neppure la struttura dell’interesse legittimo, la cui disponibilità è riconosciuta dall’ordinamento (Cassazione civile 4322/1982, secondo cui può formare oggetto di transazione la rinuncia ad impugnare una concessione edilizia illegittima), ma la natura stessa del potere amministrativo che non può essere condizionato da negozi intervenuti con privati che influenzano le ulteriori scelte dell’amministrazione a discapito di eventuali interessi di terzi ed in spregio del principio di imparzialità dell’azione amministrativa.
Autorevole dottrina (Chirulli, Stella Richter, Transazione (dir. amm.), in Enc. Dir., Milano) ha affermato che l’inammissibilità di transazioni che abbiano come unico oggetto di vincolare l’amministrazione nelle sue ulteriori determinazioni discende per un verso dall’irrinunciabilità della potestà amministrativa, intesa come necessità che le scelte pubbliche avvengano mediante un’imparziale comparazione degli interessi e, per’altro verso, dall’esigenza di salvaguardare posizioni di terzi.
Date tali premesse deriva come corollario obbligato che non si può transigere l’aggiudicazione che conclude una gara pubblica.
L’art. 239 del Codice dei Contratti Pubblici è del resto chiaro in tal senso. La transazione deve riguardare la fase di esecuzione del contratto, e quindi la vicenda del rapporto sorta a seguito dell’aggiudicazione. Peraltro, anche in relazione a tale fase restano escluse le vicende che coinvolgono situazioni soggettive di interesse legittimo, quali l’esercizio del potere del recesso ex art. 134 e la risoluzione per reati accertati ai sensi dell’art. 125. Dovrebbe considerarsi altresì esclusa dall’ambito oggettivo di applicazione di una transazione, la pretesa risarcitoria conseguente ad una illegittima omessa aggiudicazione di una gara[1].
Il crinale, d’altro canto, è alquanto scosceso, specie quando l’assetto di interessi risultante dall’accordo transattivo, si estrinsechi in un portata novativa del rapporto obbligatorio originalmente stabilito a valle di un confronto concorrenziale, con evidenti ripercussioni sul piano della lesione dei principi dell’evidenza pubblica, di par condicio e trasparenza.
4. Il labile confine tra transazione e rinegoziazione del contratto con finalità novativa
E’, infatti, di basilare importanza comprendere che un mutamento di notevole rilevanza dell’assetto degli interessi risultate dall’aggiudicazione (e consacrato nella successiva stipula del contratto) a mezzo di un accordo transattivo potrebbe potenzialmente trascendere l’essenza dello scopo dell’accordo compositivo in una totale rinegoziazione dell’assetto contrattuale originariamente affidato con gara, in patente violazione di legge.
Una tale circostanza è, quindi, in maniera più assoluta da stigmatizzare come elusiva dei principi derivanti dal Trattato, in quanto violativa in primo luogo del principio della par condicio competitorum.
Spesso l’allora Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici ha avuto modo di precisare “come le procedure di affidamento siano rigorosamente soggette alla normativa comunitaria e nazionale a tutela della libera concorrenza e non possono essere oggetto di scambi transattivi in termini di “affidamento lavori/rinuncia alle liti”. L’amministrazione, in linea generale, può, pertanto, addivenire ad una transazione con l’appaltatore per dirimere controversie insorte in sede di esecuzione del contratto, fermo restando che la particolare natura giuridica del rapporto instaurato tra le parti, sorto a seguito di procedura di scelta del contraente soggetta al regime pubblicistico, impone precisi limiti alla possibilità di modificare il contenuto delle rispettive prestazioni. Così, mentre deve ritenersi praticabile in ambito pubblicistico una transazione c.d. “semplice”, ossia semplicemente modificativa della situazione giuridica dedotta in lite, deve escludersi invece l’ammissibilità di una transazione “novativa”, intesa come accordo mediante il quale si instaura con l’appaltatore un nuovo e diverso rapporto contrattuale, per soddisfare un interesse diverso da quello dedotto nel contratto originario” (AVCP ora ANAC, Deliberazione n. 56 del 03/12/2008).
E’ stato inoltre rimarcato che “Elude le norme che disciplinano l’affidamento delle concessioni di lavori pubblici prevedendo il ricorso a procedure ad evidenza pubblica l’accordo transattivo con il quale una pubblica amministrazione costituisce a vantaggio di un privato, dietro corrispettivo di un canone annuo, il diritto di superficie su di un’area pubblica, con relativa approvazione del progetto di realizzazione di un’opera di pubblico interesse e dei relativi servizi accessori” (AVCP ora ANAC, Deliberazione n. 13 del 25/02/2009).
Quest’ultime considerazioni trovano conferma nella unanime giurisprudenza dei giudice comunitario e nazionale (Corte di Giustizia CE, sez. III, 19 giugno 2008, in causa C- 454/06) allorquando ha affermato che ‘‘al fine di assicurare la trasparenza delle procedure e la parità di trattamento degli offerenti, modifiche apportate alle disposizioni di un appalto pubblico in corso di validità costituiscono una nuova aggiudicazione di appalto…, quando presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle dell’appalto iniziale e siano, di conseguenza, atte a dimostrare la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali di tale appalto”, precisando che ‘‘la modifica di un appalto pubblico in corso di validità può ritenersi sostanziale qualora introduca condizioni che, se fossero state previste nella procedura di aggiudicazione originaria, avrebbero consentito l’ammissione di offerenti diversi rispetto a quelli originariamente ammessi o avrebbero consentito di accettare un’offerta diversa rispetto a quella originariamente accettata’’ e che ‘‘una modifica può altresì considerarsi sostanziale allorché altera l’equilibrio economico contrattuale in favore dell’aggiudicatario dell’appalto in modo non previsto dai termini dell’appalto originario’’. Ad analoghe conclusioni è pervenuto il giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 25 marzo 2003, n. 1544), evidenziando la ‘‘illegittimità, anche dal punto di vista comunitario, della rinegoziazione di elementi fondamentali del contratto (quali il prezzo) con i soggetti partecipanti alla gara, dal momento che tale rinegoziazione finisce per vanificare la procedura espletata, introducendo elementi oggettivi di distorsione della concorrenza, con conseguente alterazione del risultato della gara’’[2].
Pertanto, la conclusione di un accordo transattivo tra amministrazione aggiudicatrice ed appaltatore al fine di tacitare le pretese avanzate da quest’ultimo in sede giurisdizionale in cambio di un nuovo affidamento di lavori, determina un grave vulnus agli equilibri concorrenziali. Le procedure di affidamento sono, infatti, rigorosamente soggette alla normativa comunitaria e nazionale a tutela della libera concorrenza e non possono essere oggetto di scambi transattivi in termini di “affidamento lavori/rinuncia alle liti”. Deve ritenersi praticabile in ambito pubblicistico la sola transazione “semplice”, modificativa della situazione giuridica dedotta in lite, mentre deve escludersi l’ammissibilità di una transazione “novativa”, intesa come accordo mediante il quale si instaura con l’appaltatore un nuovo e diverso rapporto contrattuale, inteso a soddisfare un interesse diverso da quello dedotto nel contratto originario. In quest’ultimo caso, infatti, la transazione risulta in contrasto con le norme dell’evidenza pubblica, nella parte in cui prevedono la tipicità dei modi di realizzazione dei lavori pubblici, atteso che la realizzazione dell’opera conseguirebbe ad un contratto diverso dall’appalto[3].
5. Conclusioni
Alla luce delle precedenti considerazioni non risulta arduo comprendere che nell’ambito dei contratti pubblici, l’ampiezza dell’autonomia dell’ente appaltante nello stipulare un atto di natura transattiva incontri dei limiti, oltre a quelli evincibili dalla piana lettura dalle norme civilistiche e pubblicistiche, che sono percepibili solo attraverso una lente ermeneutica che consenta di cogliere i riflessi che l’accordo transattivo riverbera sul contratto originariamente stipulato quale rappresentazione di un equilibrio negoziale di un procedimento di aggiudicazione.
Se infatti l’equilibrio contrattuale, inteso come sinallagmaticità delle obbligazioni tra aggiudicatario e stazione appaltante risultante dal confronto concorrenziale avvenuto tramite gara pubblica, viene intaccato nella sua essenza a cagione di un accordo transattivo che muti radicalmente l’oggetto del contratto, è palpabile come una seppur, in ipotesi, lecita modificazione di diritti soggettivi attinenti alla fase esecutiva del contratto pubblico, possa poi sfociare in un inammissibile vulnus di interessi legittimi (di terzi) che si manifesta in un affidamento diretto alla parte privata (del negozio transattivo) di una prestazione ultronea rispetto a quella che era stata assentita originariamente a mezzo di gara.
I diritti soggettivi afferenti alla fase esecutiva di un contratto pubblico, a ben vedere, sono la rappresentazione paritetica dell’incontro delle volontà delle parti pubblica e privata avvenuta in seno ad un procedimento di formazione dei consensi secondo un iter amministrativo, le cui forme sono poste a presidio di interessi legittimi di pretesa dei concorrenti al rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e par condicio.
Se attraverso la rilevante modificazione di alcuni degli elementi essenziali del contratto pubblico, seppur identificabili in via di qualificazione giuridica come diritti soggettivi, si rinegozino i termini essenziali delle relative controprestazioni, si corre il rischio di concretizzare una distorsione della concorrenza con conseguente vanificazione degli esiti della gara espletata e quindi sugli interessi legittimi ad una gara trasparente dei concorrenti.
Appare opportuno pertanto che le stazioni appaltanti allorquando intendano porre in essere un accordo di natura transattiva che riguardi un contratto pubblico non solo si interroghino sull’ammissibilità formale di un tale atto in riferimento all’oggetto delle reciproche concessioni assentite a mezzo della transazione, sulla convenienza economica dell’operazione stessa, sull’effettivo perseguimento e soddisfacimento dell’interesse pubblico, ma soprattutto sull’ammissibilità della stessa dal punto di vista sostanziale, tenendo presente che ogni modificazione rilevante dell’assetto di interessi sotteso al contratto originario non può essere stravolto con l’atto transattivo, pena la violazione dei principi di libera concorrenzialità.
[1] Commentario al Codice degli appalti pubblici, a cura di Roberto Garofoli, sez. di Gi. Ferrari.
[2] C. Polidori, La transazione in materia di appalti pubblici, in Il Corriere del merito N. 10/2009
[3] ANAC (già AVCP) Deliberazione n. 10 del 19/03/2008