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( votes)Articolo 105 del Codice condanna l’Italia su la norma che andrà al più presto adeguata (e ripensata ?)
Premessa
Il primo definitivo verdetto[1] della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla disciplina nazionale del subappalto nei contratti pubblici è, infine, giunto: la decisione dello scorso 26 settembre sul caso Vitali (C-63/18) afferma che vietarne l’utilizzo al di sopra di una percentuale fissa in modo generale ed astratto senza, cioè, lasciar spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore (punto 40), osta all’applicazione del diritto comunitario, circostanza questa da cui deriva l’illegittimità di norme che così dispongano, in specie dell’articolo 105, comma 2, terza frase del Codice dei contratti di cui al d.lgs. n.50 del 2016, nel testo oggi peraltro superato dal decreto legge 32/19 (cosiddetto sbloccacantieri), ma anche del successivo comma 5 della stessa norma.
Se tali conclusioni possono ritenersi in larga parte annunciate alla luce delle precedenti e più recenti pronunce della stessa Corte sui casi Borta e Wroclaw, rispettivamente riferiti a fatti riguardanti la Lituania e la Polonia[2], nonché della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione nei confronti dell’Italia su ambiti addirittura più ampi di detta disciplina[3], alcuni non del tutto scontati passaggi che accompagnano l’evocata decisione meritano di essere qui evidenziati.
La decisione: Corte di giustizia, sez.V, 26 settembre 2019, in causa C-63/18, sul c.d. Caso Vitali; a breve ulteriori seguiti?
1. Le considerazioni della Corte
Vi si legge, anzitutto, che anche supponendo che una restrizione quantitativa del subappalto possa essere considerata idonea a contrastare l’infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici,obiettivo questo legittimo e ben in grado di giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’UE),l’articolo 105 del Codice eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo (punti 38 e 37).
L’affermazione si spiega in quanto il Governo italiano nel difendere la disciplina nazionale – che per affermazione dello stesso giudice di rinvio[4] può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in specie quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici ostacolando, così, l’esercizio della libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi – aveva evidenziato che la limitazione del subappalto si giustifica alla luce dell’art.36 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) per le particolari circostanze presenti in Italia, dove l’istituto costituisce strumento di attuazione di intenti criminosi, rendendo il coinvolgimento nelle commesse pubbliche meno appetibile per le associazioni criminali ciò che previene l’infiltrazione mafiosa e tutela l’ordine pubblico.
Sul punto la Corte replica che il contrasto dell’infiltrazione criminale può ben essere attuato agendo in modo diverso, in specie verificando i requisiti generali di idoneità morale – quelli di cui all’art.80 del codice – all’atto dell’autorizzazione del subaffidamento, e finanche limitandone l’utilizzo, ma in tal caso con provvedimenti da assumersi comunque caso per caso, in funzione di valutazioni specifiche.
Si legge ancora (punto 44), che il Governo italiano non ha dimostrato, che le diverse disposizioni previste all’articolo 71 della direttiva 2014/24, con le quali gli Stati membri possono limitare il ricorso al subappalto, nonché i possibili motivi di esclusione dei subappaltanti ai sensi dell’articolo 57 di tale direttiva, e ai quali fa riferimento l’articolo 71, paragrafo 6, lettera b), di quest’ultima, non possano essere attuate in modo tale da raggiungere l’obiettivo del contrasto dell’infiltrazione criminale.
Quanto riportato rafforza, dunque, l’osservazione tutta interna al nostro sistema normativo, secondo la quale essendo nella legislazione nazionale i parametri di idoneità, morale oltre che tecnica, richiesti al subappaltatore per l’autorizzazione del relativo rapporto del tutto uguali a quelli richiesti all’appaltatore per l’attribuzione della commessa principale, la scelta di limitare il subappalto non può essere argomentata assumendo, in via aprioristica, che tale istituto sia la porta di accesso dell’infiltrazione criminale; l’assunto poteva valere in passato, quando la qualificazione del subappaltatore operava su parametri diversi da quelli previsti per l’impresa principale[5], non oggi dove l’equiparazione è totale, ivi incluso quel che riguarda l’osservanza delle regole in materia di sicurezza e tutela dei lavoratori.
Limitare il subappalto ostacola la crescita delle PMI e non combatte efficacemente il fenomeno dell’infiltrazione
2. Il rapporto tra normativa nazionale e comunitaria
Le conclusioni alle quali giunge la decisione sul caso Vitali, quindi, non sorprendono, e rilevano anche per il fatto, non meno importante nella prospettiva di un ulteriore intervento del legislatore sul Codice, che la ragione di fondo del contrasto tra disciplina nazionale dei contratti pubblici in genere e corrispondenti previsioni comunitarie è, da decenni, sempre la medesima: la presenza, in Italia, di norme che precludono alle stazioni appaltanti ogni spazio di analisi e libera valutazione sul l’effettiva esistenza, caso per caso, dei presupposti per l’adozione del singolo provvedimento.
Esemplificando: non è che non si possa escludere dalla gara di lavori chi, avendo redatto il progetto, possegga per questo un vantaggio competitivo: lo si deve fare, ma se, e nella misura in cui, tale vantaggio in effetti sussista, senza poterlo desumere a priori, in modo generale ed astratto[6]; non è che l’offerta con ribassi non sostenibili non la si possa rigettare: è doveroso farlo, ma, anche qui, se e nella misura in cui, tale insostenibilità risulti effettivamente tale, senza che ciò possa essere desunto a priori, in via generale ed astratta da una media[7]; non è, nel caso che qui ci occupa, che non si possa pretendere che l’appaltatore esegua lui stesso, senza ricorso a terzi, alcune parti del contratto affidatogli, ma questo può/deve essere giustificato e riferito a specifiche esigenze da individuarsi caso per caso, senza che il ricorso a terzi possa essere escluso per legge in modo – ancora una volta – generale e astratto.
L’elenco delle situazioni affrontate allo stesso modo nel corso del tempo potrebbe continuare: dal collegamento tra imprese[8] all’accertamento definitivo delle singole fattispecie escludenti (risoluzioni contrattuali per inadempimento, condanne, ecc.)[9]. Il confronto con l’Europa sul punto ha sempre condotto alla censura della legittimità di ogni vincolo generale e astratto che sottragga a priori: alle stazioni appaltanti la possibilità di valutare il singolo caso; agli operatori economici il diritto al contraddittorio sulla rilevanza della questione che, di volta in volta, viene in evidenza.
In altri termini alcune regole esistono solo in Italia e sono frutto di scelte, consapevoli e reiterate, di azzeramento di ogni discrezionalità dell’amministrazione nel presupposto che l’esercizio della stessa possa generare distorsione, dando con ciò argomento a chi ne ha recentemente evidenziato il tramonto nell’esercizio dei pubblici poteri in genere, cosa senz’altro vera se si tratta della gestione di contratti pubblici. Tale scelta, comunque, differenzia non poco il sistema italiano dal mondo che lo circonda. Il Codice dei contratti del 2016 aveva, in verità, tentato di invertire la tendenza senza peraltro riuscirvi e la decisione lo conferma per la parte che qui rileva.
Dall’Europa no a norme che sottraggano alle stazioni appaltanti ogni valutazione del singolo caso e agli operatori economici il diritto al contraddittorio.
3. Le implicazioni pratiche della decisione sul caso Vitali
Pur nella considerazione che, in base alla gerarchia delle fonti comunitarie fissata dall’art. 286 del TFUE le decisioni della Corte di Giustizia hanno lo stesso valore delle Direttive (sono fonti attuative secondarie), in forza di un primo orientamento si potrebbe affermare l’irrilevanza, almeno in parte, della sentenza Vitali, tenuto conto del fatto che la disposizione censurata risulta nel frattempo modificata dal decreto 12 aprile 2019 n.32, convertito dalla legge del successivo 14 giugno, n.55.
Il nuovo testo dell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, infatti, introduce un principio valutativo, inesistente nella formulazione all’attenzione della Corte di Giustizia, in base al quale le stazioni appaltanti sono oggi tenute ad indicare l’ambito del ricorso al subappalto caso per caso, seppur nel limite massimo fissato, da ultimo, nel 40% dell’importo complessivo del contratto, limite che alcuni vorrebbero ritoccare al ribasso (con la prossima legge di bilancio ?).
Formalmente la tesi potrebbe risultare percorribile, ma comunque non supererebbe il fatto che la censura comunitaria resterebbe applicabile al successivo comma 5, dove è previsto un ulteriore limite, qui del 30%, specificamente riferito alla subappaltabilità delle lavorazioni riguardanti prestazioni ad elevata componente specialistica (c.d. SIOS), privo di ambito valutativo alcuno in quanto non aggiornato dalla legislazione più recente.
La conseguenza, per lo meno in quest’ultimo caso, sarebbe quindi la diretta disapplicazione, da parte delle stazioni appaltanti, della limitazione ivi prevista in favore della regola comunitaria, opzione questa che vanta un rilevante precedente del 1995, quando la norma introdotta dal decreto legge n.101 nell’articolo 21, comma 1 bis, della legge 109/94 (c.d. Merloni) impose, ancorché per un arco temporale limitato, di escludere automaticamente le offerte anomale anche nelle gare comunitarie; detta previsione fu considerata dagli operatori tam quam non esset semplicemente in forza della sua palese contrarietà alle regole comunitarie.
A confermare la legittimità della diretta disapplicazione della norma nazionale in contrasto con le Direttive (allora l’art.30 della Direttiva 93/37/UE) erano state prima l’Avvocatura di Stato, con parere 7 novembre 1995, che altresì segnalava il rischio per le amministrazioni di dover risarcire i danni conseguenti all’applicazione di una previsione illegittima, poi lo stesso Ministero, all’epoca, dei Lavori Pubblici, con circolare 7 ottobre 1996, n.4488/UL; in aggiunta, le numerose conformi decisioni giurisdizionali nel frattempo adottate[10].
Che l’obbligo di disapplicazione riguardi non solo gli organi giurisdizionali eventualmente investiti del decidere ma, in primo luogo, le stesse stazioni appaltanti rappresenta, del resto, concetto da tempo acquisito al solo considerare che la Corte Costituzionale ebbe modo di affermarlo nel 1989[11] ed il Consiglio di Stato di ribadirlo, espressamente nel campo degli appalti pubblici, nel 1991[12].
Se questo è il quadro di riferimento, non può sottovalutarsi la validità di una lettura più ampia degli effetti prodotti dalla sentenza Vitali, estesa cioè all’intera portata della disciplina riguardante il subappalto. La Corte di Giustizia, infatti, afferma l’ostatività al diritto comunitario di qualsivoglia normativa nazionale che limiti ad una determinata percentuale – nella specie era il 30 – la parte del l’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi, limite che senz’altro resta anche nella nuova versione del terzo periodo del comma 2, se è vero che le stazioni appaltanti non potrebbero in alcun caso fissare ed autorizzare una percentuale superiore al massimo ivi indicato.
Non solo il comma 5 dell’articolo 105, dunque, ricadrebbe nel riferito ambito disapplicativo, ma anche il comma 2 terzo periodo e, ancorché non direttamente censurato dalla decisione del 26 settembre, il comma 1, nella misura in cui vi si legge che i soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice eseguono in proprio le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto.
In applicazione diretta dell’art.71 della Direttiva 2014/24[13] quindi, le stazioni appaltanti dovrebbero indicare, gara per gara, nel bando o nell’invito, per quali lavorazioni il subappalto è eventualmente escluso altresì chiarendo, in sede di capitolato, le relative motivazioni.
Essendo la disciplina in materia di subappalto finalizzata a facilitare l’accesso delle PMI agli appalti pubblici, l’applicazione conforme alla legislazione comunitaria si ritiene possa riguardare anche il cosiddetto sottosoglia (senz’altro in caso di rilevanza transfrontaliera[14]).
Diretta applicazione della disciplina UE: ci sono i precedenti.
4. Conclusioni
In base al quadro così ricostruito, potrebbero peraltro essere ancora gli organi della giurisdizione a dover decidere sulla legittimità delle scelte singolarmente adottate, ciò che in effetti non rappresenta un buon viatico rispetto all’esigenza, più volte affermata, di una celere ripresa degli investimenti in funzione anticiclica.
L’auspicio è dunque che il legislatore ponga rapidamente mano al tema del subappalto con un intervento urgente, di natura specifica, che risolva gli evidenziati problemi, e con l’occasione anche quelli pendenti[15], la cui soluzione non pare rinviabile anche per i negativi riflessi sull’utilizzo dei fondi comunitari che le riferite difformità potrebbero generare, come la stessa giurisprudenza comunitaria sul tema non ha mancato di porre in evidenza[16].
Necessario uno specifico intervento legislativo urgente per evitare a monte possibili contenziosi che ulteriormente rallentino i processi di spesa.
Stefano de Marinis,
avvocato, già vicepresidente FIEC.
[1] A breve si attende, infatti, quello relativo alla questione sollevata dal Consiglio di Stato, con ordinanza 11 giungo 2018, della VI sez., n3553 che rimesso alla Corte di Giustizia, il giudizio sulla compatibilità comunitaria della previsione di cui all’articolo 105, comma 14 del Codice (d.lgs. 50/2016), concernente il limite al ribasso di prezzo praticabile nei confronti del subappaltatore.
[2] Quanto alla Polonia (caso Wroclav), la Corte di giustizia europea, Sez. III, 14 luglio 2016, n. C-406/14, aveva affermato che la direttiva 2004/18 – precedente rispetto a quella attualmente vigente ma, per affermazione della stessa Corte nel caso Vitali (punto 26), al pari di quella attuale – andava interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie. Quanto alla Lituania (caso Borta), per un appalto che non pur non rientrando nell’ambito della direttiva 2004/17/CE comunque presentava un interesse transfrontaliero certo, la Corte, Sez. V, 5 aprile 2017, n. C-298/15, con affermazione (come sopra tuttora valida) aveva statuito che gli articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione di una normativa nazionale, come l’articolo 24, paragrafo 5, della Lietuvos Respublikos viešuju pirkimu istatymas (legge lituana relativa agli appalti pubblici), che prevede che, in caso di ricorso a subappaltatori per l’esecuzione di un appalto di lavori, l’aggiudicatario è tenuto a realizzare esso stesso l’opera principale, definita come tale dal l’ente aggiudicatore.
[3] Trattasi della nota 24 gennaio 2019, n. 2018/2273, che relativamente al (solo) tema subappalto, considera contrario alla disciplina comunitaria anche il divieto per un subappaltatore di fare a sua volta ricorso ad altro subappaltatore (c.d. “subappalto a cascata”) sancito al comma 19 dell’articolo 105, e quello di subappaltare a favore di chi abbia partecipato alla gara, di cui al comma 4, lett. a), dello stesso articolo.
[4] Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, ord. del 13 dicembre 2017.
[5] L’articolo 21 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (antimafia) prevedeva che l’autorizzazione al subappalto fosse rilasciata previo accertamento dei requisiti di idoneità tecnica del subappaltatore, nonché del possesso, da parte di quest’ultimo, dei requisiti soggettivi per l’iscrizione all’albo nazionale dei costruttori. Tale generica previsione è stata superata dalla disciplina nel frattempo sospravvenuta, specificamente in tema di subappalto (da ultimo l’articolo 105, comma 4, del Codice), che ha imposto un regime assai più stringente e definito per l’autorizzazione del rapporto, incluso l’espresso richiamo all’articolo 80 del codice (lettera d), quindi a tutti i requisiti di idoneità soggettiva ivi previsti per la generalità degli affidamenti, inclusi antimafia e DURC, e all’attestazione SOA (lettera b).
[6] Procedura di infrazione comunitaria verso Eu Pilot 4860/13/MARKT
- [7] Corte di Giustizia, sez.V, 27 novembre 2001, C-285/99, C-286/99; sez. IV, 15 maggio 2008 C-147/06 148/06
- [8] Corte di Giustizia, Sez. IV, 19 maggio 2009, C-538/07
- [9] Corte di giustizia, Sez. IV, 19 giugno 2019 n. C-41/18
[10] In tal senso si veda Tar Sicilia, Catania, 20 giugno 1996, n.1091, in Arch. Giur. OO.PP. 1997, 987; Puglia, Bari, 15 novembre 1996, n.735, ivi 1105; Tar Sardegna, ivi, 1148.
[11] Corte Costituzionale, 11 luglio 1989, n.389 che così conclude: Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento al caso di specie, che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge)-tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli artt. 52 e 59 del Trattato C.E.E.
[12] Così Consiglio di Stato, sez. V, 6 aprile 1991, n°452, in Arch. Giur. OOPP, 1991, 865.
[13] Così come delle analoghe previsioni di cui alle Direttive 2014/23 (Concessioni) art. 42, e 2014/25 (settori speciali), art. 88.
[14] Così Corte di giustizia C-298/15, cit.
[15] Vedi argomenti elencati alle note 1 e 3
[16] Secondo Corte di giustizia C-406/14, cit. l’articolo 98 del regolamento (CE) n. 1083/2006, … recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione e che abroga il regolamento (CE) n. 1260/1999, in combinato disposto con l’articolo 2, punto 7, dello stesso, deve essere interpretato nel senso che il fatto che, nell’ambito di un appalto pubblico di lavori relativi ad un progetto che beneficia di un aiuto finanziario dell’Unione, l’amministrazione aggiudicatrice abbia imposto che il futuro aggiudicatario esegua almeno il 25% di tali lavori avvalendosi di risorse proprie, in violazione della direttiva 2004/18, costituisce un’«irregolarità» ai sensi di detto articolo 2, punto 7, che giustifica la necessità di applicare una rettifica finanziaria ai sensi di detto articolo 98, nei limiti in cui non possa escludersi che tale violazione abbia avuto un effetto sul bilancio del Fondo interessato. L’importo di tale rettifica deve essere determinato tenendo conto di tutte le circostanze concrete rilevanti alla luce dei criteri citati al paragrafo 2, primo comma, dell’articolo 98 di detto regolamento, vale a dire la natura dell’irregolarità constatata, la gravità della stessa e la perdita finanziaria che ne è risultata per il Fondo interessato.