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( votes)1. Brevi cenni storici sull’evoluzione degli istituti
Il Legislatore ha stabilito quale principio generale, attraverso la redazione dell’art. 240 del codice penale, che il giudice con la sentenza di condanna può ordinare la confisca di tutto ciò che è stato utilizzato per commettere il reato oppure ne costituisce il prodotto o il profitto.
Ancora, la stessa norma prevede che il giudice abbia, invece, l’obbligo di ordinare la confisca di ciò che è intrinsecamente illecito, a prescindere dal legame con il reato per il quale si è proceduto.
È questa una norma che fa parte del capo secondo del codice sostanziale, laddove sono regolate le misure di sicurezza patrimoniali.
Una misura ablatoria è in ogni caso prevista in via anticipata rispetto alla sentenza di condanna ed è rappresentata dal sequestro preventivo, ai sensi dell’art. 321 codice di procedura penale.
Con tale ultimo strumento è possibile sottrarre all’indagato o all’imputato, come si è detto in via preventiva, tutto ciò che sia pertinente al reato e tutto ciò che sia confiscabile.
Per rispondere efficacemente alla evoluzione di una criminalità sempre più raffinata, qualificata e orientata al conseguimento di ampi risultati di natura squisitamente economica e patrimoniale nell’ambito della pubblica amministrazione (peculato, corruzione, concussione, ecc.), il Legislatore, attraverso l’art. 322 ter c.p., oltre a ribadire i criteri necessari per la confisca del profitto o del prezzo del reato di cui agli articoli da 314 a 321 c.p., introduce la nuova figura della cosiddetta confisca per equivalente.
È pacifico, così come si legge nella norma citata, che anche quest’ultima forma di confisca consegua unicamente ad una sentenza di condanna.
Successivamente all’introduzione dell’art. 322 ter c.p., il Legislatore si è anche preoccupato di ritrovare un mezzo particolarmente efficace ai fini della sottrazione all’indagato o all’imputato, prima della sentenza di condanna, delle utilità conseguite per mezzo della commissione di delitti contro la pubblica amministrazione (ricompresi questa volta tutti i reati contro la pubblica amministrazione) attraverso il cosiddetto sequestro per equivalente, introdotto con il comma 2 bis dell’art. 321 c.p.p. con la Legge n. 97 del 27.3.2001.
Tutto ciò si è reso necessario in quanto la normativa precedente, cioè il combinato disposto di cui agli articoli 240 c.p. e 321 c.p.p., stabiliva che la confisca, e prima di essa il sequestro, potesse intervenire solo nei confronti di quei beni che avessero una relazione diretta, attuale e strumentale con il reato, di cui costituissero un’utilità illecita (Cass. pen., Sez. V, 14.1.10, n. 11949, ove si precisa che la confisca implica l’esistenza di uno specifico, non occasionale e strutturale nesso strumentale tra res e reato).
In questo contesto il sequestro preventivo era possibile solo quando il bene si identificasse proprio in quello che l’autore del reato apprendeva alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato del reato, oppure in quello che egli realizzava come conseguenza, anche indiretta o mediata, della sua attività criminosa (Cass. pen., Sez.II, 28.04.2011, n.19105; Cass., pen., Sez.II, 6.11.2008, n.45389). Principi questi che determinano un’importante difficoltà in relazione ai reati in cui l’obiettivo è di natura prettamente economica dal momento che, soprattutto laddove l’utilità venga conseguita in denaro, per aversi la confisca non è possibile sequestrare qualunque somma di denaro ma è necessario, come appena indicato, individuare quella di diretta derivazione causale dall’attività del reo.
Si aggiunga, poi, che una vera e propria impossibilità di adottare tale misura si verifica nei casi in cui il profitto del reato non derivi dal conseguimento di un bene economico ma da un risparmio di spesa, come avviene nei reati tributari in cui il reo a seguito della condotta illecita ottiene di non versare un’imposta dovuta.
Tale risparmio non può essere oggetto di confisca “diretta” poiché non si traduce nel conseguimento immediato di un bene individuabile ma nel mancato sostenimento di costi che, in assenza della condotta illecita, si sarebbero dovuti sopportare.
In ultimo, sul punto, si deve osservare che nel caso di attività illecita da cui derivi un profitto o un prodotto, l’art. 240 c.p. prevede la confisca facoltativa dei beni così ottenuti, essendo prevista come obbligatoria solo la confisca del prezzo del reato.
La disposizione quindi lascia al giudice un margine di discrezionalità che lo obbliga poi a motivare sulle ragioni che rendono necessaria l’applicazione di questa misura di sicurezza.
La circostanza appena illustrata, per cui il dettato dell’art. 240 c.p. non conduce sempre ad una sottrazione al reo dell’utilità economica conseguita attraverso il reato, ha portato il Legislatore ad intervenire in più occasioni per rendere obbligatoria la confisca anche del profitto e del prodotto del reato, cioè di quelle utilità economiche illecite valutate come in sé pericolose in quanto la loro definitiva acquisizione al patrimonio del reo incoraggerebbe la commissione di analoghi comportamenti illeciti.
Inoltre, ed è sicuramente l’aspetto più innovativo e maggiormente punitivo per il reo, con queste norme si è introdotta per i reati indicati la confisca per equivalente.
2. Sequestro e confisca per equivalente
La confisca per equivalente, proprio per ovviare agli inconvenienti derivanti dall’applicazione della disciplina generale del codice penale, consente di sottrarre beni nella disponibilità del reo per un valore equivalente all’utilità economica illecitamente conseguita e opera in via residuale, laddove non sia possibile procedere all’apprensione diretta dei beni costituenti il profitto e il prezzo del reato, perché non individuabili o di fatto non rintracciabili.
L’elemento che distingue la confisca per equivalente da quella ordinaria è, dunque, il superamento del nesso di pertinenzialità della res rispetto al reato, potendo questa misura riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del soggetto, non hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato.
Il Legislatore non ha configurato questo tipo di confisca in termini generali ma ha preferito introdurre, di volta in volta ed in relazione alle emergenze del momento, singole disposizioni che hanno previsto questa misura con riferimento a determinati reati.
In particolare, nel 1996 una prima applicazione di questa forma di confisca è stata prevista in relazione al delitto di usura e, successivamente, è stata estesa anche ai reati in materia di intermediazione finanziaria, ai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, alle truffe ai danni dello Stato, alla responsabilità delle persone giuridiche, ai reati societari, ai delitti contro la libertà individuale, alle condotte di riciclaggio e contraffazione, ai reati tributari, in materia di contrabbando e associazioni di cui all’art. 416 bis c.p..
La legge del 29.9.2000 n. 300 (di ratifica della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione in cui sono coinvolti i funzionari delle Comunità Europee o degli Stati Membri e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali), che ha introdotto la confisca per equivalente per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione attraverso l’art. 322 ter c.p., ha esplicitamente escluso la retroattività di queste disposizioni, stabilendo all’art. 15 che esse non trovano applicazione per i reati commessi prima della loro entrata in vigore.
Analoga norma transitoria non è stata inserita allorché sono state introdotte le altre ipotesi di confisca per equivalente, con una omissione da parte del Legislatore che ha causato, soprattutto riguardo ai reati tributari, un dibattito sulla possibile applicazione di questa misura anche ai reati commessi prima dell’entrata in vigore delle singole disposizioni che espressamente la contemplano.
3. La confisca per equivalente quale sanzione penale. Sua irretroattività
In tale ambito ha assunto un ruolo determinante l’esatta definizione della natura giuridica di questo tipo di confisca e la sua eventuale diversità da quella regolata dall’art. 240 c.p..
La confisca prevista nella norma da ultimo citata è pacificamente una misura di sicurezza patrimoniale, priva di carattere punitivo in senso tecnico perché volta a prevenire il fenomeno delittuoso attraverso la sottrazione al reo di un bene valutato come pericoloso dal punto di vista soggettivo o oggettivo; in questo caso, diversamente da quanto stabilito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma 2 della Costituzione e come confermato altresì dall’art. 25, comma 3 della Costituzione, è consentita la disapplicazione del principio di irretroattività della legge penale.
La confisca per equivalente, viceversa, si distingue da quella appena descritta proprio perché non ha una funzione di prevenzione speciale rispetto alla pericolosità del bene sottratto al reo, ma costituisce piuttosto una forma di prelievo pubblico a compensazione di guadagni illeciti e assume allora carattere preminentemente sanzionatorio (Cass. pen., SS.UU., 25.10.2005, n. 41936).
Tale statuizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione si fonda sulla circostanza per cui la confisca di valore ha funzione ripristinatoria della situazione economica modificata, in favore del reo, dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile.
Ne consegue che, secondo il ragionamento del Giudice di legittimità, la mancanza di pericolosità dei beni oggetto di quest’ultimo tipo di confisca, unitamente all’assenza di un rapporto di pertinenzialità tra il reato e detti beni, attribuisce alla predetta confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, da cui deriva una natura eminentemente sanzionatoria che impedisce l’applicabilità a tale misura del principio generale dell’art. 200 c.p., a mente del quale le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione e possono essere quindi retroattive (Corte Cost. 02.04.2009, 97).
Da quanto detto discende, quindi, l’impossibilità di estendere la confisca per equivalente ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della norma che la prevede; la sua eventuale retroattività, infatti, si porrebbe in contrasto sia con l’art. 25 della Costituzione sia con l’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Una volta stabilita la natura irretroattiva delle diverse ipotesi di confisca (e, quindi, di sequestro) per equivalente, il riferimento temporale determinante è il momento di consumazione del reato.
In questo ambito due ipotesi hanno sollevato delle incertezze interpretative: in primo luogo il caso in cui il reo abbia conseguito il profitto del reato prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva della confisca ma il reato si sia consumato successivamente ad essa.
Il principio di legalità e di irretroattività della sanzione penale comporta che per l’applicazione di questa misura ciò che rileva è che il reato si sia consumato dopo l’entrata in vigore della norma sulla confisca per equivalente, essendo indifferente invece il momento di realizzazione del profitto, in quanto quest’ultimo rappresenta solo l’oggetto della confisca che ha il suo presupposto nell’esistenza del reato.
Trattasi di ipotesi che può verificarsi soprattutto in materia di corruzione, nei casi in cui il pubblico ufficiale corrotto consegua il profitto prima di porre in essere la condotta illecita in favore del corruttore.
In tale caso è possibile la confisca per equivalente nei confronti anche del corruttore, laddove l’utilità oggetto dell’accordo corruttivo sia stata conseguita dopo l’entrata in vigore della norma che ha introdotto la predetta misura.
Analoga soluzione s’impone anche per i delitti di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche nei casi in cui il negozio giuridico alla base della truffa sia stato concluso prima dell’entrata in vigore della norma istitutiva della confisca per equivalente, ma l’erogazione illecita in favore del soggetto attivo del reato sia intervenuta successivamente.
Un’altra fattispecie fonte di dubbi è quella dei reati a consumazione prolungata in cui l’acquisizione del profitto illecito si realizza attraverso una serie di dazioni di denaro diluite nel tempo anche con cadenze periodiche.
Ipotesi frequente soprattutto nei reati di truffa ai danni dello Stato o di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, in cui l’erogazione del denaro in favore del reo sia avvenuta in parte prima ed in parte dopo l’entrata in vigore dell’art. 640 quater c.p..
Quest’ultima norma, infatti, ha esteso l’applicabilità delle disposizioni contenute nell’art. 322 ter c.p. a particolari ipotesi di truffa aggravata.
In questi casi si dovranno allora scindere i diversi pagamenti avvenuti, essendo consentita la confisca per equivalente limitatamente alle utilità conseguite dopo la vigenza della norma che ha previsto questa misura.
4. Il reo deve aver conseguito una utilità economica
Il rispetto del principio di legalità nell’istituto in esame, così come sopra illustrato, esige che la confisca per equivalente possa essere disposta solo se il reo abbia acquisito un’utilità economica riconducibile ad una delle categorie per le quali la singola norma dispositiva prevede la sanzione in esame.
Con riferimento alla nozione di utilità economica oggetto di confisca, l’unica questione rilevante è posta dall’art. 322 ter, comma 1, c.p. la cui illogica formulazione ha richiesto prima un intervento interpretativo delle Sezioni Unite e poi uno correttivo da parte del Legislatore.
Tale disposizione stabilisce che in caso di condanna per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 c.p., è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, utilizzando quindi una nozione di incremento patrimoniale passibile di confisca diretta idonea a comprendere tutte le forme di utilità illecita che si conseguono con questo tipo di reati.
L’art. 322 ter, comma I ultima parte, c.p. nel suo testo originario prevedeva, nei casi di impossibilità di procedere all’ablazione diretta delle utilità illecite, la confisca di beni per un valore corrispondente al solo prezzo del reato senza alcun riferimento al profitto.
Tale limitazione ha, di fatto, reso inapplicabile questa forma di confisca a gran parte dei reati richiamati dalla norma in questione poiché in essi l’utilità ottenuta dal reo non consiste nella percezione di un compenso da parte di terzi come corrispettivo per l’esecuzione del reato (dunque di un prezzo), ma nel profitto non assoggettabile a questa misura.
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del peculato in cui il reo, avendone la disponibilità, si impossessa e dispone di beni appartenenti alla pubblica amministrazione.
Invero, l’unico delitto nel quale è sempre presente un prezzo il cui valore deve essere sottoposto a confisca per equivalente è la corruzione, in cui il corrotto riceve per lo svolgimento della sua condotta illecita un compenso che deve essere qualificato come prezzo del reato.
La limitazione al solo prezzo del reato, prevista in origine dalla predetta disposizione, ha comportato il sostanziale svuotamento della valenza operativa della confisca per equivalente.
Tale effetto, oltre ad essere difficilmente spiegabile, era anche in contraddizione con il successivo D.Lgs. n. 231/2001 che, invece, consentiva e consente la confisca di valore nei confronti delle persone giuridiche sia del prezzo sia del profitto di questi delitti (Cass. pen. , Sez. II, 9.7.2010, n. 28683).
La situazione appena descritta ed evidenziata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 38691/2009, ha indotto il Legislatore ad intervenire con la Legge 6.11.2012, n. 190, che ha esteso la confisca per equivalente anche al profitto del reato, modificando in parte qua la disposizione dell’art. 322 ter c.p..
5. La nozione di prezzo e di profitto del reato
In sede di applicazione di questa misura, quindi, è innanzitutto necessario individuare in maniera esatta l’effettiva entità del profitto o prezzo del reato, potendo il provvedimento ablatorio intervenire solo in relazione e nei limiti del valore così accertato.
Al riguardo non sorgono particolari difficoltà con riferimento alla nozione di prezzo, direttamente riconducibile a quanto ricevuto dal reo come compenso per commettere un determinato reato.
Quanto al profitto, il problema sorge nelle fattispecie in cui l’attività illecita si inserisce nell’ambito di un rapporto negoziale di natura sinallagmatica tra il soggetto attivo e quello passivo del reato, fattispecie in cui può accadere che anche il danneggiato riceva un vantaggio, sebbene in misura ridotta rispetto a quello che avrebbe conseguito in assenza di una condotta illecita ai suoi danni.
In questi casi la giurisprudenza distingue tra il cosiddetto “reato contratto” ed il “reato in contratto”.
La nozione di “reato contratto” comprende quelle attività negoziali totalmente illecite in cui la Legge qualifica come reato la stipulazione di un contratto, a prescindere dalla sua esecuzione.
In queste fattispecie, la nozione di profitto del reato comprende qualsiasi cosa proveniente dal fatto delittuoso senza che si possa distinguere tra profitto e utile netto, cioè l’effettivo guadagno percepito, con la conseguenza che tutta la prestazione ricevuta è geneticamente illecita e pertanto il suo valore deve essere interamente confiscato.
Nei casi di “reato in contratto” il comportamento penalmente rilevante non incide sulla conclusione del contratto in sé, ma incide soltanto sulla fase di formazione della volontà contrattuale (nel senso che la persona offesa dal reato avrebbe comunque concluso il contratto, ma a condizioni diverse) o su quella di esecuzione del programma negoziale, in modo tale che il contratto è tra le parti lecito e valido, essendo al più eventualmente annullabile.
In questi negozi, quindi, il profitto tratto dall’agente e, quindi, confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante direttamente dal reato.
I principi appena illustrati sono stati applicati dalla giurisprudenza ai reati compiuti in materia di appalti pubblici di opere e/o servizi, nei casi in cui la loro aggiudicazione (o anche parte della loro esecuzione) sia stata inquinata da condotte illecite di natura truffaldina o corruttiva.
In particolare si fa riferimento a quelle fattispecie nelle quali, a fronte di un’attività corruttiva o fraudolenta determinante per l’individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, l’appaltatore – così illecitamente individuato – abbia dato (in tutto o in parte) regolare esecuzione agli obblighi contrattuali assunti, adempiendo alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito) con vantaggio anche per l’amministrazione appaltante.
In questa ipotesi, deve escludersi dalla nozione di profitto confiscabile quella parte di corrispettivo, ricevuta dal reo, corrispondente al valore della prestazione effettuata in favore dell’amministrazione, non costituendo questo una utilità illecita.
Ne deriva, allora, che il profitto del reato, il cui valore può essere oggetto di confisca, è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato.
Esso corrisponde, quindi, alla differenza tra quanto effettivamente corrisposto dalla Pubblica Amministrazione per quell’appalto e quanto la stessa avrebbe versato in assenza della condotta illecita intervenuta nella fase genetica o nel corso dell’appalto, sulla base del reale prezzo di mercato dello stesso.
In ultimo, con riguardo alla determinazione del valore dei beni confiscabili, la giurisprudenza ha precisato che nei delitti tributari il profitto è costituito:
a) dalle somme che il contribuente ha illecitamente ricevuto per un indebito rimborso;
b) dall’ammontare dell’imposta dovuta e non versata; esso consiste quindi nel risparmio economico derivante dalla sottrazione di queste somme alla loro destinazione in favore dell’Erario (Cass. pen, Sez. III, 2 122011/16.01.2012, n. 1199).
6. La nozione di beni nella disponibilità del reo
L’ultimo requisito, la cui sussistenza è necessaria perché possa accedersi alla confisca, è rappresentato dalla circostanza che il bene che il giudice intende sottoporre alla misura ablativa sia nella disponibilità del reo.
La natura sanzionatoria di questa misura, l’assenza di un collegamento tra reato e bene da confiscare e la funzione di impedire al reo di trarre comunque un profitto dal reato, escludono ogni intervento ablatorio su beni di soggetti estranei al reato, perché in caso contrario lo strumento di cui si discute si tradurrebbe in una illegittima espropriazione priva di ogni giustificazione.
La disponibilità del bene da confiscare non corrisponde alla titolarità formale di un diritto reale o obbligatorio sullo stesso, essendo necessario e sufficiente che il reo eserciti un potere di fatto sulla cosa, includendo quindi anche i beni oggetto di una interposizione fittizia.
A mero titolo di esempio, è illuminante il principio illustrato nella sentenza n. 10838 del 22.12.2006, con la quale la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che «Ai fini dell’operatività della confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter cod. pen., e, di riflesso, della possibilità di adozione di un provvedimento di sequestro preventivo dei beni che possono formarne oggetto, il requisito costituito dalla disponibilità di tali beni da parte del reo non viene meno nel caso di intervenuta cessione dei medesimi ad un terzo con patto fiduciario di retrovendita».
Non è invece richiesto che il soggetto che subisce questa misura abbia, in concreto, conseguito un effettivo arricchimento personale dalla commissione del reato.
In relazione a quest’ultima ipotesi, il caso più frequente è quello della persona fisica che ha agito con condotta penalmente rilevante in nome e per conto di una persona giuridica, la quale ultima ha poi per intero acquisito il profitto derivante dal reato.
In questa fattispecie è sempre possibile disporre la confisca per equivalente nei confronti della persona fisica in relazione ad un profitto che non sia diretto in suo favore, senza che sia richiesta la preventiva escussione del patrimonio dell’ente e senza che sia necessaria l’attivazione della concorrente responsabilità amministrativa della persona giuridica sulla base del D.Lgs. n. 231/2001.
Tale decreto, nelle ipotesi di condanna di un ente per reati commessi nel suo interesse ed a suo vantaggio da parte di un soggetto apicale, ha previsto la confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato conseguito dalla persona giuridica.
La possibilità appena illustrata, di procedere a confisca nei confronti del soggetto che di fatto non ha tratto alcun vantaggio dal reato, rileva soprattutto nelle ipotesi in cui il fatto illecito sia stato commesso in concorso tra più persone.
Sul punto la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che si possa disporre la confisca per equivalente nei confronti di uno solo dei concorrenti fino a coprire l’intero valore del profitto o prezzo derivante dalla complessiva condotta illecita, essendo la misura collegata non all’arricchimento personale di ciascuno dei correi ma alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito.
Questa conclusione si giustifica con la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, unitamente al carattere unitario dell’illecito plurisoggettivo che impone l’applicazione del principio solidaristico.
L’unico limite all’applicazione di questo principio è dato dalla circostanza che la confisca non può mai essere duplicata o eccedere, in relazione alla globalità dei soggetti ai quali è imposta, l’ammontare complessivo dell’utilità illecita conseguita.
7. L’estensione della confisca per equivalente ai reati tributari
La materia dei reati tributari è stata la sede di una questione controversa concernente la confisca per equivalente del profitto di tali reati commessi a vantaggio dell’ente da un soggetto apicale.
Qualora il reato tributario sia commesso da una persona fisica ma i vantaggi economici maturino in capo ad una persona giuridica nel nome e per conto della quale il singolo, come suo organo, ha commesso l’illecito, si verifica un divario tra autore del fatto criminoso e beneficiario del profitto dello stesso, al quale ultimo non sarà possibile applicare quella sanzione, in assenza di una disposizione che espressamente la contempli, atteso che il D.Lgs. n. 231/2001 non prevede i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento ablativo.
Sul punto, cioè sulla confiscabilità del tantundem da acquisirsi nel patrimonio societario, in ambito giudiziario sono sorte due diverse correnti di pensiero.
Secondo un primo orientamento, nel caso di violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante nell’interesse della società, il sequestro preventivo e la successiva confisca per equivalente possono avere ad oggetto i beni della persona giuridica.
Si osserva che, sebbene la responsabilità per il reato tributario sia riferibile alla sola persona fisica, le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società a favore della quale il legale rappresentante ha agito. Nel caso in cui il reato sia stato commesso dall’amministratore della società e il profitto sia rimasto nelle casse della stessa, quest’ultima non potrebbe considerarsi terzo estraneo al reato perché partecipa all’utilizzazione degli incrementi economici che ne sono derivati, a prescindere dalla previsione o meno della responsabilità amministrativa dell’ente.
Secondo un altro e contrastante indirizzo giurisprudenziale, invece, non sarebbe ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni appartenenti alla persona giuridica quando si procede per violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, salvo il caso in cui la struttura societaria costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo all’esclusivo scopo di farvi confluire i profitti illeciti derivanti dai reati tributari.
Il contrasto è stato risolto di recente dalle Sezioni Unite della Cassazione che, oltre a ritenere preferibile il secondo orientamento ermeneutico, hanno chiarito che il profitto confiscabile può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di un tributo.
A ciò si aggiunga che il massimo organo giurisdizionale ha stabilito che qualora il profitto sia costituito da una somma di denaro o altro bene fungibile, se la misura ablativa ha per oggetto un bene acquistato con il denaro proveniente dall’attività criminosa, non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto.
Alla luce di queste precisazioni, le Sezioni Unite hanno concluso nel senso che la confisca diretta del profitto del reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per le violazioni fiscali commesse dal legale rappresentante nell’interesse della società, qualora il profitto o i beni direttamente riconducibili ad esso, cioè che ne costituiscano il reinvestimento, siano nella disponibilità della stessa persona giuridica (Cass. Pen. Sez. Un. 5.3.2014 n. 10561).
In conclusione, la ricca casistica giurisprudenziale e le numerose ipotesi normative della confisca per equivalente delineano uno strumento dalla indubbia capacità dissuasiva dalla commissione o reiterazione del reato, il cui aspetto “vincente” è rappresentato dal totale superamento del collegamento tra bene e reato quale condicio sine qua non per l’esercizio del potere ablatorio e dove il riferimento al prezzo o profitto rileva unicamente quale parametro per la determinazione del valore da sottoporre al vincolo.