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( votes)L’assegnazione delle concessioni demaniali, dalle spiagge a quelle di suolo pubblico, sarà soggetto a gara. Il Consiglio di Stato, a valle di una ricca pagina giurisprudenziale, anche comunitaria, ed in coerenza con la prassi AGCM, ribadisce il concetto dell’illegittimità della proroga. Ma è questa la corretta interpretazione del “considerando” n. 15 della Direttiva 23/2014/UE?
Premessa (semiseria)
Senza spiaggia (“S-piaggiati”) e senza piazza commerciale (“S-piazzati”) e, in qualche modo, pervasi da un senso di abbandono (“spiaggiati”) misto ad incertezza (“spiazzati”). Questo il rischio, per molti operatori, che potrebbe conseguire all’applicazione della “Direttiva Bolkestein” (2006/123/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 59/2010, in limine alla scadenza del periodo transitorio per la sua entrata in vigore). Questa Direttiva, per la verità, persegue l’auspicabile obiettivo di promuovere il “diritto di stabilimento”, la parità di professionisti e imprese, residenti nei vari Paesi, nell’accesso ai mercati dell’Unione europea; quale declinazione di questo principio, però, si prevede che anche le concessioni possano essere affidate a privati solo attraverso gare pubbliche, aperte a tutti gli operatori presenti in Europa.
Tale principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, è stato recentemente ripreso e più volte reiterato anche dalla prassi AGCM; di grande risonanza mediatica è il recente parere AS 1720 del 15 febbraio 2021 recante: “Comune di Roma – disciplina delle concessioni di posteggio per il commercio su area pubblica” ove si precisa che le “concessioni di piazza”, a Roma, devono essere messe in gara. Nel medesimo senso sono ugualmente orientati i coevi pareri AS 1714, AS 1720, AS 1721 ed AS 1723 in cui si esplora la disciplina di varie tipologie di “concessioni”, tra le quali, anche quelle balneari e quelle di derivazione idroelettrica: tutti i pareri pervengono alla comune conclusione che una norma che consenta il rinnovo tacito di concessioni già in essere – anche se motivato da ragioni di equilibrio economico e finanziario – è comunque illegittima perché viola il principio di libera concorrenza.
Da qui, l’ulteriore passaggio – comune alle diverse pronunce e pareri – di ritenere necessario l’espletamento di una gara pubblica per l’assegnazione di tali “concessioni”.
A questo punto, sorge la domanda se tale “necessità di gara” sia un logico ed ineludibile corollario del principio di libera concorrenza, oppure sia un passaggio che – pur se animato dalla legittima aspirazione pro-concorrenziale -, risulti infine “sovrabbondante”, con riguardo alle “concessioni” di che trattasi.
Pur partendo da presupposti diversi, approda alla stessa conclusione – in difesa della libera concorrenza – anche la recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2021, n. 1416, da cui prende le mosse l’attuale riflessione.
Con questa decisione, è stato ricordato che “il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, determina un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato … Tale principio si estende anche alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno come oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali. … sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione.”.
Analizziamo, quindi, più approfonditamente la decisione ora citata, sia in quanto si pone quale più recente sintesi dell’elaborazione giurisprudenziale in materia, sia perché viene in essere in un periodo del tutto particolare, in cui più in generale i principi pro-concorrenziali sono in qualche modo limitati – o, meglio – “equilibrati” da un contrapposto andamento protezionistico che si propone di fronteggiare l’emergenza economica post-pandemica.
Viene spontaneo, infatti, osservare che il periodo in cui la Direttiva Bolkestein è nata e si è sviluppata era ben diverso da quello attuale, in cui la pandemia ha di molto frustrato le legittime aspirazioni imprenditoriali, per così dire “anestetizzandole” per oltre un lungo anno, creando così un mercato del tutto “innaturale”, in cui si avverte una forte esigenza di protezione – che passa addirittura per una proposta governativa di disapplicazione temporanea del Codice Appalti -.
Beninteso, si tratta di un protezionismo “contingente”, che nasce e si promana esclusivamente dalla situazione post-pandemica, cercando di contenerne i danni sotto il profilo economico, attraverso una sorta di “(de)regolamentazione di emergenza” – dunque, un protezionismo più moderno e critico, che mira a ristabilire una situazione “a regime”, in cui poi si possa tornare ad applicare corrette regole di mercato -.
Ciò non nondimeno, l’applicazione di un principio così risoluto come quello della Direttiva Bolkestein in un panorama di mercato reso così diverso dagli eventi, rispetto a quello in cui la Direttiva era stata emanata, impone alcune riflessioni: in primis sull’opportunità di provvedere ad una regolamentazione espressa (e ormai indifferibile) del “mercato dell’emergenza” – magari, partendo proprio dal sistema delle concessioni, in cui è forse più evidente il beneficio del soggetto pubblico, giacché per definizione il rischio di mercato grava sul soggetto privato -.
La decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2021, n. 1416
Oggetto della disamina del Consiglio di Stato è una situazione abbastanza ricorrente: una persona chiede il rilascio di una concessione (nello specifico, una concessione demaniale marittima), che ha ad oggetto “l’occupazione di un’area demaniale marittima … di cui mq 4.831,40 di specchio acqueo, mq 519,00 per pontili galleggianti di facile rimozione per ormeggio imbarcazioni e mq 16 per la installazione di una piccola struttura precaria in legno per la guardiania e circa un metro quadro per appoggio basolato delle passerelle di accesso.”.
Di fronte al silenzio sull’istanza, serbato dal Comune, la richiedente ottiene dal TAR Puglia, Sezione di Lecce, una sentenza che obbliga il Comune stesso ad emettere un provvedimento espresso – e così, il Comune nega la concessione, sul presupposto della “necessità dell’espletamento di una procedura di evidenza pubblica per il rilascio della concessione (procedimento previsto dalla legge regionale della Puglia n. 177/2016 e dai principi affermati in materia di concessioni demaniali marittime dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 luglio 2016).”.
L’istante impugna il diniego innanzi al medesimo TAR Puglia, che respinge il ricorso per inammissibilità poiché: “il provvedimento impugnato, fra le ragioni del diniego, ha richiamato quanto rilevato dal Tar lecce nell’ordinanza 34/2017 del 27.1.2017 con cui, in caso analogo, ha ribadito il necessario ricorso al procedimento ex art. 8 della L.R. 1772016, procedimento a maggior ragione applicabile anche a ipotesi di cui all’art. 9 richiamato dal ricorrente, tenuto conto dei principi affermati in materia di concessioni demaniali marittime dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 luglio 2016. Per quanto sopra, confermate tutte le ragioni ostative così come preannunciate nel preavviso di diniego, si comunica il diniego definitivo delle istanze di che trattasi. In ordine a tale ragione, sufficiente a reggere la legittimità del provvedimento impugnato, parte ricorrente non ha espresso alcuna censura, sicché la stessa non potrebbe trarre alcuna utilità dall’eventuale accoglimento del ricorso”.
Pertanto, la richiedente si rivolge al Consiglio di Stato, obiettando che: “il rilascio e l’uso dei beni demaniali marittimi non può essere attratto nell’ambito della circolazione dei servizi, non avendo nessuna attinenza con tale concetto. Invero, da un lato la concessione demaniale non è un bene che può “circolare”, non avendo le caratteristiche tipiche di una merce; dall’altro non può essere qualificata come un servizio poiché non ha simile attitudine. Analogamente, per quanto attiene la libertà di stabilimento (ovvero la possibilità di costituire e gestire un’impresa o intraprendere una qualsiasi attività economica in un paese della Comunità Europea), si tratta di un concetto che, con specifico riferimento alla materia di cui si tratta, è del tutto inconferente non essendo vietata da nessuna norma di legge la possibilità per una impresa europea di richiedere il rilascio di un titolo concessorio di un bene demaniale appartenente allo Stato Italiano. Il sistema normativo attualmente esistente (in attesa della emanazione del decreto legislativo di riordino della materia) sarebbe dunque già tale da garantire il rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e adeguata pubblicità, principi che la Corte di Giustizia Europea ha ritenuto necessari per il rilascio di nuovi titoli concessori laddove prevede un’articolata e trasparente procedura per il rilascio delle concessioni (es. art. 3 del regolamento recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto – artt. 5, 6, 18 e 19 del reg. nav. mar.).“.
Secondo il Consiglio di Stato, tuttavia, il ricorso è da respingersi perché infondato. Infatti, “In tema di concessioni di aree demaniali marittime, il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, tale da determinare un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, ove previsto dalla legislazione regionale comporta non solo l’invasione della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ma anche il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia; tali principi si estendono anche alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno come oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali; la spiaggia è infatti un bene pubblico demaniale (art. 822 c.c.) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritti a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione (in tal senso si è espressa la Corte di Giustizia Europea che ha affermato che “l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE(38) osta a una misura nazionale che preveda l’automatica proroga del titolo concessorio, in assenza di qualsiasi procedura selettiva di valutazione degli operatori economici offerenti” – cfr. sentenza 14 luglio 2016). Di conseguenza, qualsivoglia normativa nazionale o regionale deve in materia ispirarsi alle regole della Unione Europea sulla indizione delle gare, stante l’efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri delle pronunce della Corte.“.
Il Collegio sottolinea il ristretto “spazio di manovra” lasciato dalla sentenza della Consulta n. 40 del 24 febbraio 2017 (e da quella, ancor più incisiva, n. 1 del 9 gennaio 2019), con la quale è stato ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 14 della medesima L.R. Puglia n. 17/2015 che (invero, similmente ad altre norme regionali di analogo contenuto) consentiva di confermare a favore degli originari concessionari la titolarità di almeno il 50 per cento delle aree demaniali già attribuite in concessione; pertanto “è del tutto evidente che non può aversi dubbio circa la correttezza dell’art. 8, l. reg. Puglia n. 17 del 2015 che invece prescrive il ricorso alle procedure di evidenza pubblica e non l’assegnazione diretta delle aree demaniali.”, che appare rispettoso dei “principi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento, previsti dalla normativa comunitaria e nazionale” (cfr. sentenza n. 213 del 2011), principi nello specifico salvaguardati dalle procedure indicate dal citato art. 8.”.
Il “nodo” del riferimento alla “concessione”: la Direttiva Concessioni
E’ interessante ripercorrere le tesi dell’appellante, raffrontandole con quelle del Collegio, in particolare al fine di poter valutare l’intrinseco riferimento alla fattispecie delle “concessioni”, con riguardo al caso di specie – ed altri, numerosi, consimili -.
Vi è da precisare che, per ragioni di coordinamento temporale, molte delle Leggi regionali in materia di concessioni demaniali – dalla cui applicazione discende l’ampia pagina giurisprudenziale – non sono perfettamente allineate alla Direttiva n. 23/2014/UE (“Direttiva Concessioni”); per le stesse ragioni, non sembrano perfettamente coordinate fra loro la Direttiva Bolkestein e la Direttiva Concessioni.
In particolare, la prima di esse dispone (“considerando” nn. 8 e 9 Direttiva 2006/123/CE): “È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione. La presente direttiva si applica unicamente ai requisiti che influenzano l’accesso all’attività di servizi o il suo esercizio. Pertanto essa non si applica a requisiti come le norme del codice stradale, le norme riguardanti lo sviluppo e l’uso delle terre, la pianificazione urbana e rurale, le regolamentazioni edilizie nonché le sanzioni amministrative comminate per inosservanza di tali norme che non disciplinano o non influenzano specificatamente l’attività di servizi, ma devono essere rispettate dai prestatori nello svolgimento della loro attività economica, alla stessa stregua dei singoli che agiscono a titolo privato.”.
L’altra esclude espressamente dal novero delle “concessioni” talune tipologie di contratti (indipendentemente – è ovvio – dal nomen juris) – nei quali non si riscontra l’usuale schema dell’allocazione dei rischi e dell’obiettivo del beneficio per la proprietà pubblica: questi contratti, in cui sostanzialmente la proprietà pubblica viene “ceduta in temporaneo possesso” (come nelle concessioni di reti), ovvero “in locazione” (come nelle concessioni demaniali marittime o “di piazza”), secondo la Direttiva non sono “concessioni” e, dunque, sfuggono agli obblighi indicati dalla Direttiva stessa (anche, si desume, quelli in materia di assegnazione tramite gara).
Infatti (“considerando” nn. 15 e 16 Direttiva n. 23/2014/UE): “taluni accordi aventi per oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico, in regime di diritto privato o pubblico, quali terreni o qualsiasi proprietà pubblica, in particolare nel settore dei porti marittimi o interni o degli aeroporti, mediante i quali lo Stato oppure l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore fissa unicamente le condizioni generali d’uso senza acquisire lavori o servizi specifici, non dovrebbero configurarsi come concessioni ai sensi della presente direttiva. Ciò vale di norma per i contratti di locazione di beni o terreni di natura pubblica che generalmente contengono i termini che regolano la presa di possesso da parte del conduttore, la destinazione d’uso del bene immobile, gli obblighi del locatore e del conduttore per quanto riguarda la manutenzione del bene immobile, la durata della locazione e la restituzione del possesso del bene immobile al locatore, il canone e le spese accessorie a carico del conduttore. … Inoltre, non dovrebbero configurarsi come concessioni ai sensi della presente direttiva neppure gli accordi che attribuiscono diritti di passaggio relativi all’utilizzo di beni immobili pubblici per la fornitura o la gestione di linee o reti fisse destinate a fornire un servizio al pubblico, sempre che tali accordi non impongano un obbligo di fornitura né implichino l’acquisizione di servizi da parte di un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore per sé o per gli utenti finali.”
Tale concetto, poi, è ribadito dall’art. 10, comma 8, lett. a) della stessa Direttiva n. 23/2014/UE: “La presente direttiva non si applica alle concessioni per: … a) l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni; …”.
Ebbene, a fronte di tale chiara esclusione, ci si domanda se possa risultare coerente – fors’anche con il quadro macro-economico contingente – l’interpretazione che impone di applicare alle “concessioni” demaniali la disciplina di assegnazione propria delle “concessioni”, in ossequio ai principi della direttiva Bolkestein – che, invero, “limita” il proprio campo di applicazione alla “rimozione” dei soli “requisiti che influenzano l’accesso all’attività di servizi o il suo esercizio.”.
Ovvero, più semplicemente, si tratta di stabilire quale sia la procedura corretta per garantire concretamente il “diritto di stabilimento”, senza perciò sviluppare “barriere” meramente “burocratiche” per chi voglia utilizzare i beni e risorse del demanio pubblico, sfruttandoli economicamente.
In altre parole, se – come effettivamente appare e come è stato sottolineato dall’appellante nel caso, appena esaminato, scrutinato dal Consiglio di Stato – la “concessione” implica solo la “cessione temporanea del possesso”, ovvero la “locazione” di spazi pubblici, con i connessi diritti ed obblighi gestorii, senza che a ciò segua l’espletamento di un “servizio” di interesse pubblico o generale, è corretto applicare il quadro normativo delle “concessioni” – a partire dalla parte afferente l’assegnazione mediante gara -?
E forse, proprio dal “contratto” occorrerebbe partire, per valutare se nei casi di che trattasi si possa e debba parlare di “concessioni”, ovvero di “accordi aventi per oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico, in regime di diritto privato o pubblico … mediante i quali lo Stato oppure l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore fissa unicamente le condizioni generali d’uso senza acquisire lavori o servizi specifici”, che “concessioni” non sono.
Nell’ipotesi della concessione demaniale marittima ad uso ricreativo, prospettata al Consiglio di Stato – così come in quella delle “concessioni di piazza” – l’”uso” del demanio consiste nell’installarvi un’attività economica che non richiede l’approntamento di “lavori o servizi specifici” a favore del concedente, ma solo la facoltà di “sfruttare” l’area in sé: per le spiagge come in una sorta di “sub-locazione” (magari, con servizi ancillari) a favore dei bagnanti, per i “posteggi di piazza” per posizionarvi manufatti transitori (“banchi”) per esporvi la merce.
La “rimozione dei requisiti che influenzano l’accesso all’attività di servizi o il suo esercizio”, in tal caso, potrebbe legittimamente essere interpretata come un’indicazione normativa che va nel senso di un diniego alla proroga automatica (e sempre nel rispetto di quanto stabilito dal “contratto”, in ossequio al principio del legittimo affidamento), ma può spingersi – altrettanto legittimamente – sino a negare la “concessione” sul presupposto di un obbligo di gara?
Alla luce dei citati passaggi della Direttiva Concessioni, ci si chiede se non sia sufficiente garantire a tutti gli operatori comunitari – a parità di condizioni – la possibilità di aggiudicarsi una “concessione” demaniale, magari regolamentandone l’accesso con parametri oggettivi o predisponendo uno schema-quadro in cui sono dettagliate “le condizioni generali d’uso”?
Breve excursus: epigoni e seguaci della decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2021, n. 1416
Per contribuire alla comune riflessione su questi interrogativi, è d’uopo analizzare il panorama giurisprudenziale – seppur brevemente, per motivi editoriali -, citando alcuni arresti significativi.
In essi, per la verità, si nota che l’obbligo di gara viene evocato solo quale estremo bilanciamento rispetto alla normativa nazionale che si pone all’estremo opposto – consentendo la proroga automatica sino alla fine del 2033 delle concessioni demaniali marittime in essere -: non si indaga, dunque, sull’oggetto delle “concessioni” per verificarne l’assoggettamento alla Direttiva n. 23/2014/UE, ma sull’effetto delle proroghe automatiche, distorsivo della concorrenza.
La sentenza della Consulta n. 1 del 9 gennaio 2019
Con la sentenza n. 1 del 9 gennaio 2019 la Consulta ha avuto occasione di esprimersi nuovamente in tema di concessioni demaniali marittime ad uso ricreativo: in particolare, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la L.R. Liguria n. 26/2017 nella parte in cui (artt. 2 comma 2 e 4 comma 1) si prevedeva l’estensione a 30 anni della durata delle concessioni demaniali vigenti al momento dell’entrata in vigore della medesima legge.
Detta disposizione, secondo la Corte Costituzionale, violava il riparto di competenza fra Stato e Regioni in materia di tutela della concorrenza, ex art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione; secondo la Regione Liguria, invece la normativa regionale si muoveva nel solco del dibattito (ancora aperto, all’epoca) sulla corretta attuazione dell’art. 49 TFUE (all’epoca, art. 43 Trattato dell’Unione) – che doveva essere armonizzato con l’art. 37 del Codice della Navigazione, in cui si prevedeva, al momento della scadenza delle concessioni demaniali marittime, un diritto di preferenza per il concessionario uscente, a garanzia del “diritto di affidamento” dei concessionari già esistenti -.
Tale previsione del Codice nazionale, tuttavia, era stata oggetto di una procedura di infrazione (n. 2008/4908), che si era conclusa solo con l’emanazione della Legge comunitaria 2010 (L. n. 217/2011), che aveva delegato al Governo l’adozione di “una normativa improntata al rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti”.
Questa delega, però, aveva sortito in un certo senso l’effetto opposto, giacché (grazie alla L. n. 179/2012) aveva garantito una proroga automatica del termine di durata delle concessioni a uso turistico ricreativo sino al 31 dicembre 2020. Tale proroga ex lege, poi, è stata addirittura estesa sino al 31 dicembre 2033 per effetto dell’art. 1, comma 682 L. n. 145/2018 e, in seguito, grazie all’art. 182, comma 2 L. n. 77/2020 (cioè, il recentissimo “decreto Rilancio”), ove è stata prevista la sospensione dei procedimenti amministrativi volti alla nuova assegnazione delle concessioni demaniali marittime o alla riacquisizione al patrimonio pubblico delle aree demaniali, appunto sino alla fine del 2033. Anche nel caso del Decreto Rilancio, comunque, si registra la “reazione” comunitaria, che si è tradotta nella decisione della Commissione europea, assunta in data 3 dicembre 2020, che ha deciso di inviare “una lettera di costituzione in mora all’Italia in merito al rilascio di autorizzazioni relative all’uso del demanio marittimo per il turismo balneare e i servizi ricreativi (concessioni balneari).”.
Dunque, la “normativa – ponte” che, dalla L. n. 179/2012 avrebbe dovuto portare ad una “risistemazione della materia” in senso comunitariamente orientato, proprio per evitare la procedura di infrazione comunitaria, si è di fatto cristallizzata per 9 anni.
A tale produzione normativa (si intende, ovviamente, la L. n. 179/2012) ha fatto seguito l’intuibile reazione comunitaria, affidata alla decisione della Corte di Giustizia su due cause “parallele” (cause C-458/2014 e C-67/2015), in cui si dichiarava la normativa italiana incompatibile con quella eurounitaria -.
In tale contesto, dunque, la Consulta non poteva che dare applicazione ai principi stabiliti dalla Corte di Giustizia – declinandoli sotto l’aspetto del conflitto di competenze fra Stato e Regioni in materia di concorrenza -. Del resto, alle medesime considerazioni e motivazioni si appoggia anche la recentissima sentenza della Consulta n. 10 del 29 gennaio 2021 con la quale viene dichiarata costituzionalmente illegittima la L.R. Calabria n. 46/2019 che, all’art. 1 parimenti consentiva la proroga delle concessioni demaniali marittime già in essere – ma in questo caso, vale notare come, medio tempore, sia stata ribadita la scelta del Legislatore italiano, nonostante il contrasto con le norme comunitarie, con la citata disposizione del Decreto Rilancio -. Sul punto, è altresì opportuno ricordare che, sebbene la Corte Costituzionale, in numerose sentenze, abbia affermato che il legislatore gode della più ampia discrezionalità, al tempo stesso ha anche evidenziato che “tale discrezionalità trova limite fondamentale nel rispetto del principio di ragionevolezza” (sentenza 6 luglio 2004 n. 219, ex multis) – evidentemente ritenuto ormai eluso in considerazione del lungo tempo trascorso per addivenire alla “risistemazione della materia”.
Si noti, comunque, l’interessante parallelismo per cui – in situazione di grave crisi economica o finanziaria (nel 2020/2021, così come nel 2010/2012) – viene ri-editata una norma che tende a “proteggere” gli investimenti dei “concessionari” già esistenti, quale strumento di sviluppo e sostegno rispetto ad un “aggravamento del rischio” che discende da cause del tutto inopinate.
La sentenza della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15
La sentenza della Corte di Giustizia, richiamata dalla Consulta, merita anch’essa un breve commento. Si tratta della decisione su due cause riunite, aventi ad oggetto il comune denominatore della verifica pregiudiziale di compatibilità comunitaria riferita alla proroga automatica di due concessioni demaniali ad uso ricreativo.
La V Sezione della Corte Europea, in particolare, ha stabilito che la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime e lacuali ad uso turistico e ricreativo contrasta palesemente con il divieto imposto con l’art. 12, comma 2 della Direttiva Bolkestein (che, infatti, esclude il rinnovo automatico delle “autorizzazioni”) e, in ultima analisi, con l’art. 49 TFUE (del quale la Direttiva Bolkestein si propone come attuazione) ove si sancisce la cd. “libertà di stabilimento” delle Imprese, senza restrizioni da parte dei singoli Paesi.
Tale sentenza, che è stata confermata da successive decisioni del Consiglio di Stato (fra le quali, si ricorda la decisione della VI Sezione, n.7874 del 18 novembre 2019, che è la più “fedele” ai principi comunitari enunciati dalla Corte di Giustizia, e, ovviamente, quella recentissima commentata in incipit) e dei Tribunali di merito, ha sostanzialmente affermato che la norma nazionale italiana che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime a vantaggio di chi ne è già titolare, “determina una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni e ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione.”, così imponendo la disapplicazione delle disposizioni nazionali consimili, ricordando che “è ormai principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto eurounitario, a maggior ragione se tale contrasto è stato accertato dalla Corte di giustizia UE, costituisca un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l’apparato amministrativo e per i suoi funzionari, qualora sia chiamato ad applicare la norma interna contrastante con il diritto eurounitario (cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2006 n. 3072)”.
La Corte di Giustizia dà conto anche delle difese dello Stato italiano, ricordando: “i ricorrenti nei procedimenti principali nonché il governo italiano fanno tuttavia valere che la proroga automatica delle autorizzazioni è necessaria al fine di tutelare il legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, in quanto consente di ammortizzare gli investimenti da loro effettuati.”. E ancora: “Infine, nei limiti in cui il governo italiano fa valere che le proroghe attuate dalla normativa nazionale mirano a consentire ai concessionari di ammortizzare i loro investimenti, occorre precisare che una siffatta disparità di trattamento può essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale, in particolare dalla necessità di rispettare il principio della certezza del diritto (v., in tal senso, sentenze del 17 luglio 2008, ASM Brescia C-347/06 §64, nonché del 14 novembre 2013, Belgacom C-221/12 §38) …”.
Ma subito aggiunge “a tale riguardo occorre constatare che l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2006/123 prevede espressamente che gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale. Tuttavia è previsto che si tenga conto di tali considerazioni solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva. Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva in questione non può essere interpretato nel senso che consente di giustificare una proroga automatica di autorizzazioni allorché, al momento della concessione iniziale delle autorizzazioni suddette, non è stata organizzata alcuna procedura di selezione ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo. Inoltre, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 92 e 93 delle conclusioni, una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”. E ancora: “In tal senso, è stato statuito che il principio della certezza del diritto, nel caso di una concessione attribuita nel 1984, quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza, esige che la risoluzione di siffatta concessione sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare, dal punto di vista economico (v., in tal senso, sentenze del 17 luglio 2008, ASM Brescia, C-347/06 § 70 e 71, nonché del 14 novembre 2013, Belgacom C-221/12 §40) … “.
Tuttavia “le concessioni di cui ai procedimenti principali sono state attribuite quando già era stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo dovevano essere soggetti a obblighi di trasparenza, cosicché il principio della certezza del diritto non può essere invocato per giustificare una disparità di trattamento vietata in forza dell’articolo 49 TFUE”, dunque, a parere della Corte UE, “deve farsi applicazione delle regole fondamentali del Trattato FUE, in generale, e il principio di non discriminazione, in particolare (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, ASM Brescia C-347/06 § 57 e 58)”.
Alla sentenza della Corte di Giustizia, che ha fatto il punto sulla situazione normativa nazionale, tracciando le linee guida interpretative alla luce della Direttiva Bolkestein nel senso ora indicato – e senza chiamare in causa la Direttiva Concessioni -, hanno fatto seguito numerose sentenze e decisioni in senso conforme.
Tra le molte, si segnala la sentenza del TAR Abruzzo, L’Aquila, 2 luglio 2018 n. 271, con la quale – discostandosi dalla giurisprudenza sinora esaminata – si accoglie il ricorso di un operatore economico al quale era stata rifiutata la proroga della concessione; il TAR, però, perviene a tale determinazione esclusivamente per motivi cronologico-temporali.
Dopo aver ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, il TAR Abruzzo – ricordando la sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016, appena citata, osserva che la corte stessa ha precisato che “una proroga ad una concessione demaniale è giustificata solo allorquando sia finalizzata a tutelare la buona fede del concessionario, ossia quando lo stesso abbia ottenuto una determinata concessione in un’epoca in cui non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”.
Partendo da tale ragionamento e rapportandolo al caso concreto, il TAR abruzzese ha ritenuto rilevante la circostanza che gli investimenti correlati alla concessione erano stati realizzati in un momento storico in cui il quadro normativo vigente era ancora quello originario – di cui all’art. 3, comma 4 bis D.L. n. 400/1993 – precedente alla procedura di infrazione comunitaria avviata nel 2009 e, quindi, risultasse sostanzialmente immotivato ed illegittimo il diniego di proroga basato sull’impossibilità tout court di prorogare le concessioni demaniali oltre il termine del 31 dicembre 2020. Secondo il TAR, quindi, nel caso di specie sarebbe servita una motivazione che desse conto della “non necessità” di prolungare la concessione per ri-equilibrare gli investimenti effettuati ab origine dal concessionario.
Di diverso avviso, invece, la sentenza del TAR Toscana, Sez. II, 8 marzo 2021, n. 363, che riprende l’insegnamento della decisione del Consiglio di Stato n. 1416/2021 e ne rielabora i contenuti pervenendo ad una soluzione che si armonizza sia con i principi enunciati dalla Corte Costituzionale, sia con quelli enunciati dalla nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15.
Il TAR Toscana, in piena coerenza con il principio ribadito dal Consiglio di Stato, afferma che “il rilascio delle concessioni demaniali che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE è subordinato all’espletamento di una procedura di selezione tra potenziali candidati, che deve presentare garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità, con la conseguenza che è illegittima la proroga disposta dall’Amministrazione resistente e la conseguente decisione di non dar corso alla procedura comparativa perché disposte in aperta violazione del divieto, introdotto dalla normativa eurounitaria, di applicazione dell’art. 1, commi 682 e 683, l. n. 145 del 2018“.
Inoltre, “prima ancora della nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 (in cause riunite C-458/14, Promoimpresa S.r.l. e C-67/15, Mario Melis e altri), la giurisprudenza aveva già largamente aderito all’interpretazione dell’art. 37 cod. nav. che privilegia l’esperimento della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, sanciti dalla direttiva 123/2016, essendo pacifico che tali principi si applicano anche a materie diverse dagli appalti, in quanto riconducibili ad attività, suscettibile di apprezzamento in termini economici. In tal senso si era espresso, già da tempo risalente, il Consiglio di Stato che ha ritenuto applicabili i detti principi anche alle concessioni di beni pubblici, fungendo da parametro di interpretazione e limitazione del diritto di insistenza di cui all’ art. 37 del codice della navigazione, sottolineandosi che la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione” (Cons. Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005 n. 168 …) .”.
L’evoluzione di tale argomento porta il TAR a sottolineare che l’assegnazione della concessione è subordinata all’obbligo di gara. A tale affermazione, comunque, il TAR perviene in via interpretativa rispetto alla nota giurisprudenza comunitaria, considerando che “… La Corte di giustizia ha affermato che, per le concessioni alle quali la direttiva non può trovare applicazione, l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) osta a una normativa nazionale, come quella italiana oggetto dei rinvii pregiudiziali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo. Pertanto, in seguito alla soppressione, in ragione delle disposizioni legislative sopra richiamate, dell’istituto del “diritto di insistenza”, ossia del diritto di preferenza dei concessionari uscenti, l’amministrazione che intenda procedere a una nuova concessione del bene demaniale marittimo con finalità turistico-ricreativa, in aderenza ai principi eurounitari della libera di circolazione dei servizi, della par condicio, dell’imparzialità e della trasparenza, ai sensi del novellato art. 37 cod. nav., è tenuta ad indire una procedura selettiva e a dare prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico.”.
Da notare anche il passaggio successivo, in cui il TAR, al contempo, fà proprio anche l’insegnamento della Corte Costituzionale e, alla luce di questo, supera il ragionamento svolto a suo tempo dal TAR Abruzzo (di cui alla sentenza n. 271/2018, appena sopra citata): “tale Direttiva [la Direttiva Bolkestein – n.d.a.] è espressiva di norme immediatamente precettive – in particolare, sotto il profilo della precisa e puntuale “norma di divieto” che si rivolge, senza che occorra alcuna disciplina attuativa di sorta da parte degli Stati membri, a qualunque ipotesi (tanto più se generalizzata e incondizionata come nel caso di specie) di proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di procedura di selezione tra i potenziali candidati. E rispetto a tale “norma di divieto”, indiscutibilmente dotata di efficacia diretta, il diritto interno è necessariamente tenuto a conformarsi. Peraltro, anche la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 10 del 29 gennaio 2021, in relazione ad una norma di legge regionale che prevedeva un meccanismo di rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime già esistenti, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, affermando fra l’altro, che tale meccanismo di rinnovo sottrarrebbe le concessioni “alle procedure a evidenza pubblica conformi ai principi, comunitari e statali, di tutela della concorrenza… per consentire de facto la mera prosecuzione dei rapporti concessori già in essere, con un effetto di proroga sostanzialmente automatica – o comunque sottratta alla disciplina concorrenziale – in favore dei precedenti titolari. Un effetto, come poc’anzi rammentato, già più volte ritenuto costituzionalmente illegittimo da questa Corte. … l’applicabilità della Direttiva europea non può dipendere dall’epoca del rilascio concessioni, dovendo trovare applicazione il principio tempus regit actum … e dovendo il provvedimento amministrativo di proroga essere esaminato alla luce della disciplina anche eurounitaria vigente”.
In vista dell’avvio della stagione estiva – e, soprattutto, dell’auspicata rinascita economica post-pandemica – si attende l’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale, e della sensibilità del legislatore in ordine a questo peculiare tipo di “concessioni” che, eventualmente, potrebbero essere lette con il giusto rigore non solo attraverso la lente della Direttiva Bolkestein, ma anche alla luce dei “considerando” 15 e 16 della Direttiva Concessioni.