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Anna percorre la strada fiancheggiando la fila di auto parcheggiate. Non utilizza il marciapiede. “Cammina”, procedendo sull’asfalto. Rallenta quando incrocia un auto in movimento. Si accosta il più possibile alle vetture ferme. Poi riprende. Il suo incedere lento e a volte incerto segue le imprecisioni del manto stradale che scivola sotto le ruote della sua Leon Versus.

Anna è rimasta coinvolta in un incidente stradale. Le lesioni che ha subito alla colonna vertebrale hanno compromesso in maniera irreversibile l’utilizzo degli arti inferiori. Da due anni percorre il tratto che collega il suo civico al supermercato, alla scuola di sua figlia, al parco, passando per la strada. La scena si ripete quotidianamente. Non solo in questa porzione di città. Non solo in questa città.

Le barriere architettoniche sono una realtà diffusa. Un’eredità del vecchio modo di urbanizzare che ancora non si riesce a smaltire. L’articolo 4 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 503 del 1996 afferma che “i progetti relativi agli spazi pubblici e alle opere di urbanizzazione a prevalente fruizione
pedonale devono prevedere almeno un percorso accessibile in grado di consentire con l’utilizzo
di impianti di sollevamento ove necessario, l’uso dei servizi, le relazioni sociali e la fruizione
ambientale anche alle persone con ridotta o impedita capacita motoria o sensoriale”. Dopo ventisei anni dall’entrata in vigore, il “Regolamento recante norme per l’eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici” non sembra aver trovato grande attuazione.

Anna non può spostarsi utilizzando il marciapiede perché mancano le rampe, dove ci sono non sono realizzate con le pendenze adeguate, il percorso è spesso reso impervio dalla presenza di pali per l’illuminazione o per la segnaletica stradale che ostacolano il passaggio di una carrozzina. A volte le amministrazioni pubbliche non solo non si attivano per rimuovere le barriere architettoniche ma sono esse stesse a installarne di nuove.

Le prime norme riguardanti l’eliminazione delle barriere architettoniche risalgono al 1986. La Legge n. 41 introduceva l’obbligo dei Comuni e delle Province di redigere i Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche. Non tutte le Amministrazioni Comunali se ne sono dotate o li hanno messo in pratica.

Per individuare i comuni virtuosi in tale ambito, dal 2012, vengono assegnate le Bandiere Lilla. In tutta Italia sono appena quarantatré. Attestano che un Comune abbia “infrastrutture, servizi e iniziative che rendano i luoghi facilmente accessibili e fruibili alle persone diversamente abili”. Quarantatré è un numero ridicolo al cospetto dei 7904 Comuni censiti in Italia al 20 febbraio 2021. Nell’elenco delle Bandiere Lilla si leggono nomi di Comuni di piccole dimensioni. Nessuna grande o media città. Nessun capoluogo di provincia o di regione. 

Gli investimenti in appalti pubblici destinati all’adozione dei PEBA non sono mai decollati. Sono esigui gli interventi cantierizzati per sanare tutte le situazioni storiche. Precedenti il 1986. Ma il quartiere in cui vive Anna, edificato dopo quella data, presenta gli stessi deficit delle zone più vecchie. In tutti questi anni, all’attenzione del legislatore non è seguita un’azione sistematica degli enti locali. E’ sporadica e frammentaria. “Vi è una situazione da parte di tutti i Sindaci di inadempimento dell’obbligo di adottare i PEBA, che provoca un grave vulnus ad un primario diritto soggettivo, quella alla mobilità, che genera intollerabili comportamenti dei Comuni discriminatori nei confronti delle persone con disabilità, censurabili anche giurisdizionalmente” scriveva nel 2014 l’Associazione Luca Coscioni in una lettera indirizzata all’allora Presidente ANCI Piero Fassino.

L’inclusività delle città, trascurata per decenni, è diventata un’emergenza. E’ tra gli obiettivi dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. E sembra non esser un problema esclusivamente italiano. L’obiettivo numero 11 prevede che si rendano le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili. Saremo capaci di raggiungere questi traguardi in sette anni?

Nel cassetto ci sono 12milioni di euro. Sono le risorse residue del Fondo per l’inclusione del 2021. E ci sono i nuovi stanziamenti previsti dalla Legge di Bilancio 2022 che, come si apprende dalla pagina web della Camera “ha attribuito al Fondo la nuova denominazione di ‘Fondo per le politiche in favore delle persone affette da disabilità’ e ne ha incrementato la dotazione di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2026”.

Il 03 dicembre si celebra la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. Anche quest’anno Anna dovrà raggiungere il parco, nel quale le associazioni cittadine organizzano manifestazioni e iniziative di sensibilizzazione, senza poter percorrere il tragitto in piena sicurezza, su un marciapiede. Ogni giorno spera che sia l’ultimo. Che al mattino seguente una ditta appaltatrice si metta all’opera per rimuovere gli ostacoli di cui sono disseminati quei marciapiedi. “Un giorno all’anno tutto l’anno” è lo slogan dell’edizione 2022 della giornata celebrativa dei disabili. Se ogni giorno per tutto l’anno, per sette anni, 3 comuni avviassero appalti pubblici adottando i PEBA, fino al 2030, potremmo aver annullato il deficit di inclusione che caratterizza le nostre città. Non servono leggi, regolamenti e fondi. Ci sono. Servono amministratori sensibili. Capaci di comprendere, come affermato dal Consigliere Comunale Ignazio Iucci del Comune di Avezzano, che gli interventi per l’applicazione dei PEBA “non sono solo lavori pubblici ma passi di civiltà”.

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Dott. Enzo de Gennaro
Direttore Responsabile
mediagraphic assistenza tecnico legale e soluzioni per l'innovazione p.a.