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( vote)Il rilancio degli investimenti
Il decreto legge 16 luglio 2020, n. 76[1], noto anche come decreto “semplificazioni”, interviene in vario modo per favorire la realizzazione di opere pubbliche e rilanciare gli investimenti infrastrutturali al fine di superare l’impasse economico in cui, non da oggi, si dibatte il Paese, fortemente aggravato dall’emergenza Covid-19, in una logica che, peraltro, dovrebbe essere quella dello sviluppo legato all’innovazione, specie sul fronte dell’efficientamento dei servizi pubblici.
La necessità di una recovery non fine a se stessa ma orientata a garantire innovazione e sviluppo sostenibile
A tali fini, oltre a riconfigurare il regime di responsabilità per danno erariale e ad innovare la fattispecie del reato di abuso d’ufficio, numerosi sono gli adeguamenti che il provvedimento apporta alla disciplina dei contratti pubblici, sia con modifiche destinate ad operare a regime che con previsioni extra ordinem finalizzate ad imprimere, per un definito arco di tempo, in specie fino a tutto il 2021, una spinta agli investimenti di natura eccezionale, anche a costo di sacrificare alcune modalità che tradizionalmente ne disciplinano l’affidamento e l’esecuzione.
In tal senso significativi sono gli inviti che, in questi giorni[2], il Ministero delle Infrastrutture ha indirizzato agli enti locali ed alle proprie strutture di Provveditorato, oltre che ad Anas ed RFI, per sfruttare in pieno quanto disposto dal decreto, al fine di rendere concreto quel balzo in avanti per la nostra economia divenuto oramai indispensabile, obiettivo questo che, per poter essere conseguito, necessita che le stazioni appaltanti applichino la legge in tutte le sue potenzialità.
L’importanza del partenariato pubblico privato per la ripresa
Tra gli interventi a regime rientrano le modifiche al codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n.50 del 2016, destinate ad applicarsi anche oltre il 31 dicembre 2021, termine fin qui previsto per l’operatività dei regimi “in deroga”; in tale contesto rilevano in questa sede quelli riguardanti l’istituto del partenariato pubblico privato, ambito rispetto al quale già il decreto “sbloccacantieri” del 2019[3] aveva apportato adeguamenti, a dimostrazione del fatto che non ai soli tradizionali appalti Governo ed istituzioni rivolgono l’attenzione per favorire la ripresa.
Ad opera del decreto legge semplificazioni si assiste, infatti, ad un ulteriore ampliamento del ruolo del finanziatore privato per la realizzazione di opere pubbliche o di utilità pubblica: in tal senso, l’articolo 8, comma 5, lett. d), consente di presentare proposte in regime di PPP anche relativamente ad interventi già inclusi negli atti di programmazione approvati; tale facoltà riguarda, ovviamente, anche gli investitori istituzionali, tra i quali, a titolo di esempio, la Cassa Depositi e Prestiti, i fondi comuni di investimento immobiliare, le assicurazioni, le casse di previdenza, i fondi pensione, ecc., in base all’apertura ad essi già disposta nel 2019.
L’insieme delle richiamate modifiche rende dunque decisivo il ruolo della finanza privata per l’attivazione di progetti pubblici che, specie nell’immediato, rischiano di rimanere bloccati, vuoi per l’inerzia dell’amministrazione, vuoi per l’indisponibilità attuale di molte delle risorse pubbliche annunciate, destinate semmai a giungere in un secondo momento.
Ne consegue, peraltro, la necessità degli investitori istituzionali di conoscere, e valutare adeguatamente, il contesto delle imprese che operano sul mercato dei lavori, ovvero delle forniture e dei servizi, onde considerare le singole operazioni come meritevoli (eligible) di finanziamento. In tal senso rileva non solo la redditività dell’investimento, ma anche la sua natura, l’oggetto, ad esempio legato ad interventi destinati ad abbattere le emissioni di CO2, ad assicurare forme di mobilità innovative, a valorizzare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, gli operatori economici prescelti per eseguirlo, l’adozione da parte di questi dei bilanci sociali certificati a norma SA8000 ecc.…
Le modifiche al regime del c.d. promotore
Venendo più direttamente a quanto innovato dal decreto semplificazioni, è utile analizzare più in dettaglio alcuni degli effetti legati alla possibilità, data al privato, di sollecitare l’avvio del procedimento cosiddetto di finanza di progetto, ai sensi dell’articolo 183, commi 15 e seguenti del codice dei contratti pubblici, anche relativamente ad interventi già inclusi negli atti di programmazione approvati.
Fino all’introduzione di tali modifiche, infatti, la regola prevedeva che gli operatori economici potessero presentare alle amministrazioni aggiudicatrici proposte per la realizzazione di lavori pubblici o di pubblica utilità basate sull’utilizzo di tutte le tipologie di contratti di partenariato, ma solo relativamente a progetti non presenti negli strumenti di programmazione.
Peraltro, la possibilità che il privato potesse porsi come vero e proprio attivatore dell’iniziativa pubblica era stato inserito per la prima volta nel sistema giuridico nazionale dalla legge Merloni, in specie nella sua versione risalente al 1998[4], che consentiva ai privati, definiti da quel momento promotori, di proporre formalmente alle amministrazioni iniziative di project financing inserite nel programma triennale dei lavori pubblici o in altri strumenti di programmazione.
Le modalità procedurali allo scopo a suo tempo previste (scadenze temporali a data fissa per la presentazione delle proposte, carente disciplina del diritto di prelazione e delle modalità di indennizzo di quanti formulavano la proposta o concorrevano al suo miglioramento senza esserne poi gli affidatari ecc.) avevano nel tempo evidenziato numerosi limiti; d’altro canto, spesso alcune proposte di notevole contenuto innovativo e migliorativo non venivano accolte dalle amministrazioni in quanto diversamente incluse negli strumenti di programmazione, con ciò rinunciando ad applicare un iter alternativo di natura acceleratoria di grande aiuto per le amministrazioni stesse, che altresì consentiva di far fronte, fin dall’avvio dell’iter di affidamento, alle insufficienze di finanza pubblica grazie all’apporto di risorse e mezzi di soggetti privati.
In questo senso il Codice dei contratti non aveva riproposto tale modalità, ancora presente nell’abrogato codice “De Lise”[5], prevedendo viceversa solo quella secondo la quale le proposte dei privati dovevano riguardare interventi non previsti in programmazione, onde consentire la collaborazione tra pubblico e privato oltre che nella fase realizzativa e di gestione degli investimenti, anche in quella dell’ideazione e programmazione.
Fin dall’adozione del nuovo Codice il Consiglio di Stato aveva suggerito le modifiche oggi introdotte dal decreto semplificazioni
Fin dall’inizio, peraltro, nell’ambito del parere sullo schema di decreto recante il Codice vigente, il Consiglio di Stato aveva evidenziato[6] che se la finanza di progetto è uno strumento di apporto collaborativo dei privati, occorrerebbe consentirne l’utilizzazione in entrambe le ipotesi: sia per il mancato inserimento dell’opera negli strumenti di programmazione; sia per l’inerzia dell’amministrazione nella pubblicazione dei bandi relativi a opere già inserite in tali strumenti.
Ancorché solo oggi, il decreto semplificazioni recepisce tale suggerimento, ed in proposito, nella relazione che ne illustra i contenuti, si evidenzia come al fine di assicurare la migliore fattibilità dei progetti ovvero rimediare alla potenziale inerzia dell’amministrazione, la disposizione concede al promotore la facoltà di proporre progetti anche alternativi, migliorati e affinati rispetto a quelli già inseriti negli strumenti di programmazione.
La modifica normativa riscrive, quindi, la ratio più recente dell’istituto, poiché amplia il raggio d’azione di una procedura sostanzialmente a costo zero per il fatto che i privati predispongono tutta la documentazione relativa alla realizzazione di un investimento infrastrutturale, dalla progettazione, al finanziamento, alla realizzazione e successiva gestione funzionale ed economica dell’opera, e possono altresì intervenire per migliorare ed affinare ipotesi di intervento già previste. Il tutto senza in alcun modo compromettere il ruolo dell’amministrazione pubblica, alla quale spetta la parola finale in termini di accettazione o rifiuto delle modalità, ancorché innovative, di un’operazione che peraltro lei stessa aveva già posto tra i propri obiettivi di intervento.
L’ampliamento si lega non solo alla possibilità di superare situazioni di inerzia, ma anche di favorire la realizzazione di interventi rispetto ai quali l’interesse pubblico è già acquisito, semmai migliorandoli nell’ottica perseguita dagli investitori istituzionali, ad esempio rendendoli maggiormente compatibili sul piano ambientale o tecnologicamente più avanzati nell’ottica della maggior efficacia del servizio (pubblico) che l’infrastruttura dovrà rendere.
In questo senso dovrebbero potersi superare i dubbi legati alla possibilità di presentare proposte anche relativamente ad iniziative previste in programmazione come appalti, ed in tal senso il riferimento generico che ad essa compare nella legge pare supportare tale lettura. Anche il fatto di poter riferire le proposte al campo dei servizi, oltre che dei lavori, appare meno discutibile rispetto al recente passato, dato che queste possono basarsi su qualsiasi formula di partenariato, nel cui ambito lo stesso codice riconduce anche le concessioni di servizi; ciò anche in considerazione del fatto che qualsiasi investimento infrastrutturale che si ripaghi con l’uso implica di per sé l’erogazione di un servizio.
I promotori possono presentare proposte alle amministrazioni indipendentemente da qualsivoglia presupposto o condizione preliminare
In sintesi, così come la modifica apportata dallo sblocca cantieri ha segnato il passaggio dalla finanza di progetto tradizionale, che vedeva coinvolti principalmente grandi imprenditori e società di costruzione, ad una finanza di progetto istituzionale, che coinvolge, nella realizzazione e gestione di opere pubbliche investitori istituzionali, l’ultimo cambiamento normativo ha liberalizzato l’istituto in esame consentendo ai soggetti promotori di presentare proposte alle amministrazioni aggiudicatrici indipendentemente da qualsivoglia presupposto o condizione preliminare.
Le modifiche al Partenariato Pubblico-Privato: i contratti di EPC
L’art. 8 del decreto “semplificazioni” al comma 5, lettera c-quater, introdotta in sede di conversione, inserisce altresì un nuovo periodo nell’articolo 180, comma 2 del Codice, relativamente alle modalità di remunerazione dell’operatore economico nell’ambito dei contratti di rendimento energetico o di prestazione energetica (gli Energy Performance Contract – EPC) le cui caratteristiche di base sono di seguito illustrate.
Più precisamente la disposizione specifica che “i ricavi di gestione dell’operatore economico possono essere determinati e pagati in funzione del livello di miglioramento dell’efficienza energetica o di altri criteri di prestazione energetica stabiliti contrattualmente, purché quantificabili in relazione ai consumi; la misura di miglioramento dell’efficienza energetica, calcolata conformemente alle norme in materia di attestazione della prestazione energetica degli immobili e delle altre infrastrutture energivore, deve essere resa disponibile all’amministrazione concedente a cura dell’operatore economico e deve essere verificata e monitorata durante l’intera durata del contratto, anche avvalendosi di apposite piattaforme informatiche adibite per la raccolta, l’organizzazione, la gestione, l’elaborazione, la valutazione e il monitoraggio dei consumi energetici”.
Con la modifica proposta, si stabilisce che i ricavi di gestione possono essere determinati e pagati in funzione del livello di miglioramento dell’efficienza energetica, ovvero possono essere commisurati ad altri criteri di prestazione energetica, definiti contrattualmente, purché chiaramente quantificabili. In sostanza sembra che la norma si preoccupi di assicurare che, nell’ambito di operazioni di PPP qualificate come EPC sia assicurata la corretta allocazione dei rischi contrattuali, stabilendo che la remunerazione del partner privato debba essere dipendente dai risultati effettivamente conseguiti e dalle prestazioni rese, dovendo tale corretta allocazione essere opportunamente monitorata e verificata.
L’energy performance contract (EPC o contratto di rendimento energetico) è una fattispecie contrattuale introdotta dalla direttiva 2012/27/UE, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 102/2014, per promuovere l’efficienza energetica. In particolare l’EPC, secondo la definizione riportata all’articolo 2, comma 1, lett. n) del d.lgs. n. 102/2014 è un “accordo contrattuale tra il beneficiario e il fornitore di una misura di miglioramento dell’efficienza energetica, verificata e monitorata durante l’intera durata del contratto, laddove siano erogati investimenti (lavori, forniture o servizi) nell’ambito della misura in funzione del livello di miglioramento dell’efficienza energetica stabilito contrattualmente o di altri criteri di prestazione energetica concordati, quali i risparmi finanziari”.
Oggetto principale del contratto è, quindi, il conseguimento di una “misura di miglioramento dell’efficienza energetica” stabilita dalle parti, anche in termini di risparmi finanziari, che costituisce, al contempo, il parametro in funzione del quale saranno pagati gli investimenti effettuati dal soggetto privato (di qualsiasi natura: lavori- forniture o servizi). L’EPC è il modello contrattuale attraverso il quale operano tipicamente le ESCo, soggetti specializzati in grado di offrire ai propri clienti, beneficiari dei servizi di efficienza e risparmio energetico, le seguenti prestazioni: diagnosi energetica e audit energetico; studio di fattibilità degli interventi di miglioramento dell’efficienza energetica; progettazione degli interventi; reperimento delle risorse finanziarie; realizzazione dell’intervento; gestione dei sistemi riqualificati; finanziamenti tramite terzi[7].
Nella prassi si sono sviluppati più modelli contrattuali di EPC, sicché esso può assumere connotazioni e contenuti differenti in base allo specifico regolamento del rapporto tra le parti.[8]
I rischi nei contratti EPC e le categorie di rischio che contraddistinguono i contratti di PPP
Tale fattispecie contrattuale presenta, per natura, degli indubbi profili di assunzione del rischio, da parte del contraente privato, in quanto questi si impegna, come detto, a realizzare un dato livello di risparmio energetico e ad anticipare il capitale necessario alla realizzazione degli interventi di efficientamento energetico. I rischi connessi a tali obbligazioni contrattuali non appaiono, tuttavia in tutto coincidenti con le categorie di rischio che contraddistinguono i contratti di PPP secondo la disciplina delineata negli articoli 180 e seguenti del Codice; per tale motivo in dottrina e in giurisprudenza ha stentato ad affermare con sicurezza che questi contratti rivestano in senso proprio la natura di contratti di PPP[9].
L’inserimento nel Codice dei contratti pubblici, all’art. 180 relativo al Partenariato Pubblico Privato, di tali contratti di rendimento energetico sembra peraltro farli entrare a pieno titolo tra i contratti di PPP, purché ovviamente presentino le caratteristiche ivi indicate.
Se nella prassi tali contratti, qualora ben redatti, venivano già considerati forme di PPP, spesso tuttavia potevano nascere criticità attuative. Tale precisazione normativa potrà rendere più semplici e soprattutto più corrette – in ossequio alla nuova disposizione – le operazioni in finanza di progetto che hanno ad oggetto tale tipologia contrattuale.
Tuttavia, come per qualsiasi contratto di partenariato, la questione della qualificazione di tale contratto quale appalto o contratto di PPP, resta delicata e, sotto l’aspetto pratico, da risolvere caso per caso, avendo riguardo alle caratteristiche connotanti in concreto ogni singola fattispecie.
I PPP nei beni culturali
Il già citato articolo 8 comma 5 alla lett. c-ter), inserita anch’essa in sede di conversione, modifica l’articolo 151 del Codice dei Contratti pubblici recante “Sponsorizzazioni e forme speciali di partenariato” nell’ambito dei beni culturali, modificandone il comma 3.
Quest’ultimo prevedeva che per assicurare la fruizione del patrimonio culturale nazionale e favorire la ricerca scientifica applicata alla tutela, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo potesse attivare “forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1.
Stato, le regioni e gli enti territoriali possono anch’esse attivare forme speciali di PPP
La modifica prevede che non più soltanto il Ministero dei beni e delle attività culturali ma “lo Stato, le regioni e gli enti territoriali possono, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”, attivare tali forme speciali di PPP.
L’intervento è di notevole rilevanza per il rilancio del settore dei beni culturali poiché amplia il novero dei soggetti pubblici abilitati a porre in essere iniziative di PPP nel settore attraverso procedure semplificate per la scelta del partner privato nonché forme innovative e sperimentali di partnership tra pubblico e privato. In altre parole non più soltanto il Ministero competente, ma anche lo Stato, le regioni e gli enti territoriali possono, in partnership con soggetti privati (ma anche pubblici), provvedere a forme di tutela del patrimonio culturale diffuso nel territorio nazionale compresi i piccoli centri ed i borghi e ampliare le forme di fruizione e valorizzazione del nostro ricchissimo patrimonio culturale inteso nel senso più ampio del termine di beni culturali immobili e mobili e beni paesaggisti.
[1]Decreto recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 (pubblicata in G.U. 14.09.2020, n. 120, S.O. n. 228)
[2] Nota n. U0045113 del 18 novembre 2020
[3]Trattasi del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito con la legge 14 giugno 2019, n. 55 (in G.U. n. 140 del 17.06.19), recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di ri-generazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici.»
[4] Legge 18 novembre 1998, n. 415 Modifiche alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e ulteriori disposizioni in materia di lavori pubblici” pubblicata in G.U. n. 284 del 4 dicembre 1998 – Suppl. Ord.
[5] D.lgs., 12 aprile 2006, n. 163 Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. In GU n. 100 del 2-5-2006- Suppl. Ordinario n. 107. Art. 153, commi 16-17.
[6] Cons. Stato, Commissione speciale, 1° aprile 2016, n. 855.
[7]Le ESCo sono definite dall’art. 2, comma 1, lett. c) del d.lgs. 115/2008 come “qualsiasi persona fisica o giuridica che fornisce servizi energetici ovvero altre misure di miglioramento dell’efficienza energetica nelle installazioni o nei locali dell’utente e, ciò facendo, accetta un certo margine di rischio finanziario. Il pagamento dei servizi forniti si basa, totalmente o parzialmente, sul miglioramento dell’efficienza energetica conseguito e sul raggiungimento degli altri criteri di rendimento stabiliti”.
[8]Si veda al proposito P.Piselli, S. Mazzantini, A. Stirpe, Il contratto di rendimento energetico (Energy performance contract), voce Treccani, 2010.
[9]In senso favorevole si veda, tuttavia, F. Scalia, L’Energy Performance Contract (EPC) quale operazione di partenariato pubblico privato per la riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare pubblico, in www.federalismi.it, 6 marzo 2019.