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( votes)Analisi di pareri e pronunce su questioni attinenti all’attività contrattuale ed in genere all’azione amministrativa delle stazioni appaltanti
Insindacabilità nel merito dell’azione amministrativa e prerogative della Corte dei Conti in tema di concessione di impianti sportivi
Corte dei Conti, regione Toscana sentenza del 23 maggio 2014 n. 96
Indice
- Premessa
- La questione dell’insindacabilità del merito delle scelte discrezionali
- La decisione
1. Premessa
Il Sindaco ed un responsabile del servizio di un comune Toscano venivano convenuti in giudizio dalla procura della corte dei conti per il danno determinato “dalla gestione poco accorta che costoro avrebbero fatto dello spazio espositivo del Palazzetto dello sport di (…) per aver concesso a condizioni inique l’affitto delle relative aree”.
Nella quantificazione del danno (oltre 60 mila euro), il procuratore ha avuto riguardo alla differenza tra i costi sostenuti dal comune per i relativi allestimenti e le somme corrisposte dagli organizzatori degli eventi espositivi con riferimento agli anni 2008/2010. Il principale rilievo a supporto del rinvio è che tale gestione delle concessioni avrebbe determinato esclusivamente delle diseconomie a danno della pubblica amministrazione.
Per completare l’istruttoria, la procura avviava richiesta di atti, in particolare, per verificare i procedimenti di concessione ed eventuali richieste di utilizzare gli spazi pubblici più vantaggiose di quelle declinate nel rapporto concessorio.
I diretti interessati, è rilevante la considerazione al fine di dedurne elementi pratico/operativi, tra le varie opposizioni, evidenziano l’incompetenza giurisdizionale della sezione a sindacare scelte discrezionali dell’amministrazione che non tollererebbero una “critica” sul merito.
Soffermarsi sul percorso argomentativo esplicitato in sentenza è rilevante anche perché – soprattutto in relazione al tipo di atti in considerazione – spesso si incorre nel facile errore di ritenere una scelta di tipo politico/gestionale come avulsa da ogni tipo di riscontro. E’ evidente invece il contrario: ciò che ha rilievo in relazione ai principi giuridici che tutelano l’interesse pubblico e che hanno incidenza sull’utilizzo delle risorse dell’erario non può sfuggire ad una oculata gestione dei procedimenti amministrativi e delle scelte che ne sono alla base.
2. La questione dell’insindacabilità del merito delle scelte discrezionali
La prima censura (difetto di giurisdizione) opposta dagli interessati viene facilmente superata dalla procura con una ricostruzione attenta della posizione – consolidata – espressa dalla Corte di Cassazione.
La Suprema Corte ha avuto modo di affermare che l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione pubblica (ex art. 1, comma 1, legge 20/1994) non esclude in nessun modo la prerogativa della Corte dei conti di valutare se l’attività amministrativa sia stata svolta in violazione del fine pubblico che l’Amministrazione deve perseguire e che ad essa viene specificatamente assegnato dalla legge.
Tra le prerogative del giudice dell’erario, inoltre, insiste l’obbligo di verificare la congruenza, l’adeguatezza, la razionalità e la logicità dell’azione amministrativa ([1]).
Tale orientamento costante, come si legge nella sentenza, ha puntualizzato come non vi sia dubbio “che l’insindacabilità nel merito sancita dall’art. 1, primo comma, della citata legge 20/94, non priva, la Corte dei Conti della possibilità di controllare, la conformità alla legge dell’attività amministrativa. E che tale conformità debba essere verificata anche sotto l’aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore (…) il giudice, rispetto agli atti discrezionali, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’ente”.
L’orientamento in parola ha trovato recente conferma anche nel 2013 con le Sezioni Unite che hanno ribadito come la Corte dei Conti non violi il limite giuridico della “riserva di amministrazione – da intendere come preferenza tra alternative, nell’ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell’interesse pubblico – sancito dall’art. 1, comma 1, L. 14 gennaio 1994, n. 20, e s.m.i., (…) ferma restando l’ insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (…) – nel controllare anche la giuridicità sostanziale – e cioè l’osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e adeguatezza dell’agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale – dell’esercizio del potere discrezionale” ([2]) .
Quanto espresso equivale a sostenere che l’ambito di insindacabilità riguarda esclusivamente le opzioni discrezionali che costituiscono il frutto di valutazioni di opportunità e convenienza ma, le scelte sono assolutamente sindacabili quando si appalesano in contrasto con norme giuridiche o principi giuridici; e tra questi vanno catalogati i classici riferimenti al buon andamento dell’azione amministrativa, all’economicità delle scelte, all’efficacia ed alla efficienza della stessa (cfr. Sez. III, sent. n. 24/A del 28 gennaio 2003, richiamata anche da Sez. III, sent. n. 325 del 23 ottobre 2008).
Risultano in concreto sindacabili, prosegue la procura tutte quelle “condotte solo formalmente conformi alla normativa ma con essa sostanzialmente contrastanti perché irrazionali, alla luce dei parametri desunti dalla comune esperienza amministrativa (cfr. Sez. III, sent. n. 9/A richiamata dalla già citata sentenza n. 325 del 2008) e la Corte ben può apprezzare l’adeguatezza dei mezzi impiegati per il perseguimento delle scelte di merito, verificando la coerenza dell’attività posta in essere con i fini istituzionali dell’ente e con gli obiettivi concretamente perseguiti (diffusamente, Sez. Terza Giurisd. D’Appello, sent.786 n. 11.12.2013)”.
L’epilogo, in relazione alla prima “contestazione” è pertanto l’affermata sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti.
3 La decisione
La corte ritiene fondata la contestazione della procura evidenziando un danno derivante dalla scelta di destinare la struttura sportiva a finalità ricreativo/turistiche (esposizioni varie) ed il canone concessorio richiesto. Infatti, le condizioni praticate – e le spese del comune per riattare l’impianto alle finalità deliberate – hanno rivelato una scelta antieconomica considerato che “l’amministrazione ha subito forti perdite conseguenti alla spese per allestimento e condizionamento di tali spazi, che non hanno trovato neppure copertura con i canoni di affitto versati dagli aggiudicatari”. Non risponde al vero, si legge nella sentenza, che nel caso di specie non sia stato prodotto danno erariale. L’affermazione espressa dagli imputati è che la concessione consentiva importanti vantaggi economici in termini di immagine dell’ente interessato e “per il rilancio del turismo”. In realtà, rileva il collegio, la prova di tale affermazione non è mai stata concretamente fornita dagli interessati.
E’ evidente che per scongiurare una condanna non può ritenersi sufficiente una mera affermazione di principio. Secondo il giudice dell’erario, inoltre, ben avrebbe fatto l’amministrazione – visto le condizioni economiche di concessione e l’altrettanto evidente danno erariale – ad evitare le spese dell’allestimento dell’impianto e lasciare “il Palazzetto dello sport alla sua naturale destinazione ovvero di proporre agli interessati condizioni più favorevoli per la finanza locale”.
Naturalmente, è piuttosto importante l’individuazione – e attribuzione – delle responsabilità specifiche che hanno provocato il danno erariale.
In primo luogo la Corte richiama – a titolo di colpa grave – la responsabilità del funzionario che ha redatto l’istruttoria, l’atto per la deliberazione della giunta comunale (anche a titolo di responsabile del procedimento) e la stessa procedura con i potenziali concessionari e quindi con un ruolo determinante sulla determinazione delle tariffe da applicare.
Il soggetto in questione, pertanto, era perfettamente a conoscenza – secondo il giudice – delle condizioni inique proposte per stipulare il rapporto concessorio dovendosi fare carico anche della riflessione giuridica sulla legittimità della spesa e/o comunque della congruità dell’entrata rispetto ai costi sostenuti dall’ente.
Avendo chiara la procedura, per averla istruita e condotta, risulta altrettanto palese che avrebbe dovuto proporre all’amministrazione una scelta che tenesse conto della rilevata inadeguatezza (sotto il profilo economico) proponendo delle “soluzioni conformi alle regole della buona amministrazione (anche valutando di proporre la modifica delle condizioni contrattuali)”.
L’aspetto su cui si sofferma il giudice – come facilmente si può intuire – è importante sotto il profilo pratico/operativo.
Nel momento in cui si chiede all’organo politico un indirizzo sull’adozione di un intervento o sull’avvio di un certo procedimento (considerato che questo non può adottare atti gestionali) deve essere chiaro il percorso da seguire non solo sotto il profilo tecnico/amministrativo ma, oggi più che mai, in relazione alla incidenza sulla contabilità dell’ente alla luce delle precisazioni contenute nella legge 213/2012 ([3]).
Altrettanto rilievo ha la chiamata in causa del Sindaco del comune interessato. Nel caso di specie, la corte non ha espresso nessuna considerazione sulla tradizionale ripartizione tra poteri politico/esecutivi e poteri gestionali. Con la consueta considerazione che degli atti gestionali, ovviamente, risponde il solo soggetto che ne risulta depositario.
Il giudice si riferisce invece al ruolo non disponibile di controllo dell’intera azione amministrativa. Nel caso in cui, l’amministratore o qualsivoglia soggetto della pubblica amministrazione, viene a conoscenza dell’antieconomicità/antigiuridicità del comportamento amministrativo non si può di certo sottrarre alle proprie responsabilità tacendo e/o omettendo ogni intervento. Soprattutto se si riesce a dimostrare la conoscenza e la consapevolezza sugli accadimenti. E’ chiaro che ogni omissione di controllo alimenta un circuito “negativo” di impoverimento dell’erario e rende compartecipi di una azione non rituale.
In conclusione, si puntualizza nella sentenza, “l’intera gestione delle trattative si è rivelata dannosa e poca accorta poiché non ispirata a criteri di economicità, di convenienza e di buona amministrazione, permettendo che la finanza comunale subisse passività prive di alcuna reale giustificazione”. Inoltre, “le condotte gravemente colpose dei due convenuti devono ritenersi particolarmente censurabili poiché ripetute nel tempo” in quanto “pur conoscendo esattamente delle spese cui doveva farsi carico il Comune per l’allestimento, si era proceduto comunque, con leggerezza e poco acume, a concedere sconti sulle tariffe previamente fissate e deliberate, su proposta” del funzionario responsabile “che avrebbe dovuto tutelare le ragioni dell’erario e non quelle dei privati concessionari”.
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[1] In questo senso, amplius v. Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n.33;Cass., sez. un., 6 maggio 2003, n. 6851; Cass., sez. un., 29 settembre 2003, n.14448;Cass., sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19661; Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7024; Cass., sez. un., 9 luglio 2008, n. 18757 e 18758; Cass., sez. un., 13 ottobre 2009, n.21660).
[2] Così, in Cass., sez. un., sentenza del 21 febbraio 2013, n. 4283.
[3] Si allude, in particolare, al riformulato primo comma dell’articolo 49 del decreto legislativo 267/2000 secondo cui “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione”.