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1. Premesse: il codice di civile nei contratti pubblici

La disciplina dettata dal Codice Civile – occorre rammentare in via preliminare – possiede la capacità di riespandere la propria portata applicativa in tema di contratti pubblici laddove il D.Lgs. 163/06 e s.m.i.  (in seguito “Codice dei Contratti Pubblici”) non disponga diversamente. Tale rapporto di specialità è previsto chiaramente all’art. 2 comma 4 dello stesso Codice dei Contratti secondo cui “Per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l’attività contrattuale dei soggetti di cui all’articolo 1 si svolge nel rispetto, altresì, delle disposizioni stabilite dal codice civile”.

Il codice civile pertanto si comporta come una cornice, si atteggia a disciplina di “risulta” e sempre utile e fruibile alla bisogna allorquando nessuna disposizione speciale sia stata dettata dal legislatore in relazione all’attività contrattuale della pubblica amministrazione per l’aggiudicazione ed esecuzione di appalti di lavori, servizi e forniture.

Tale capacità surrogatoria del diritto comune, peraltro, ancora prima che individuato nel tessuto codicistico dei contratti pubblici, risulta essere stato apertis verbis stabilito dalla legge cardine del procedimento amministrativo (L. 241/90 e s.m.i) – di cui le procedure di aggiudicazione di contratti pubblici sono in rapporto di species e genus – il cui articolo 1 comma 1-bis prevede che “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.

A ben vedere, i principi di diritto anzi ricordati, in forza dei quali laddove la legge speciale non disponga una particolare disposizione, ogni sostegno normativo deve rintracciarsi nel codice civile, risponde ad una basilare logica di certezza del diritto che deve governare ogni rappresentazione giuridica stratificata come è quella della disciplina dell’agere della p.a.

Ciononostante, alcuni istituti civilistici hanno fatto assai fatica ad essere introitati nel sentire giuridico comune come concreta disciplina per l’esecuzione dei contratti pubblici, dimenticando la radice commune dell’attività negoziale tout court considerata, anche se posta in essere da un soggetto dotato di munus publicum.

Il presente contributo mira, seppur brevemente, a sviscerare l’annosa questione dell’applicabilità dell’art. 1460 cc in tema di eccezione di inadempimento anche alla disciplina dettata per l’esecuzione degli appalti di lavoro pubblici.

2. Gli appalti pubblici di lavori

Gli appalti di lavori pubblici non sfuggono al principio di specialità sopra ricordati. Essi sono da considerarsi un appalto civilcodicistico a tutti gli effetti disciplinato dall’art. 1655 c.c.[1], integrato da una quantità non irrilevante di norme speciali presenti nel Codice dei Contatti e nel suo regolamento applicativo che hanno lo scopo di tutelare la parte pubblica del rapporto negoziale (attraverso specifiche cautele ed accortezze nella disciplina dei controlli in fase selettiva del contrante privato ed esecutiva della commessa) a cagione della natura pubblica dell’opera.

Nonostante quanto sopra sia considerato principio cardinale ed acquisito, l’applicabilità dell’istituto civilistico dell’eccezione di inadempimento previsto dall’art. 1460 cc all’esecuzione dei lavori pubblici, è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza con argomenti a volte ondivaghi ed in ogni caso particolarmente cauti e aderenti ad un approccio più conservativo (proclive a dare un maggior peso alla parte pubblica del rapporto contrattuale) che hanno condotto ad una esclusione dell’applicabilità del citato articolo di legge agli appalti di lavori pubblici, secondo una logica lontana da quella enucleata dal legislatore del 2005 che ha sentito di codificare, in un mutato rapporto tra pubblico e privato, il principio sopra ricordato per cui “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.

Quanto di seguito sarà ripercorso rappresenta, senza mire di esaustività, uno spaccato dell’attuale quadro interpretativo sul punto.

3. L’eccezione di inadempimento nei lavori pubblici

L’articolo 1460 del codice civile prescrive che “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.

Lo ratio della norma risponde ad una logica di buon senso. L’istituto rappresenta una forma di autotutela per la parte che il legislatore prevede in considerazione della natura sinallagmatica del contratto, in base alla quale ciascuna prestazione trova giustificazione nella prestazione della controparte.

In tema di appalti pubblici di lavori l’applicabilità di tale istituto è apparso per lungo tempo impraticabile in ragione di un tessuto normativo che, a dire il vero, lasciava spazio a legittimi dubbi a tal riguardo.

Se, da un lato, è vero che nessuna norma in materia di contratti pubblici autorizza espressamente l’appaltatore alla sospensione dei lavori, anzi, in più disposizioni pubblicistiche (cfr., ad esempio, articolo 166 e articolo 191, D.P.R. n. 207/2010 in tema di sospensione dei lavori) è precisato che l’esecutore non ha titolo per sospendere autonomamente le opere in corso di svolgimento, d’altro canto, da tale assetto positivo non deve dedursi che all’appaltatore, anche nel caso in cui l’opera appaltata abbia natura pubblica, non spetti alcun tipo di tutela nei riguardi della committenza inadempiente all’obbligazione di corrispondere i pagamenti previsti dal contratto di appalto, se non il solo riconoscimento degli interessi da ritardato pagamento nella misura prevista dalla normativa (cfr. articolo 133 Codice dei contratti pubblici, articoli 142 e 144 D.P.R. n. 207/2010 e direttive comunitarie).

Art. 166. Danni cagionati da forza maggiore del Dpr. 207/2010  – (art. 139, d.P.R. n. 554/1999; art. 348, legge n. 2248/1865; allegato F; art. 20, d.m. ll.pp. n. 145/2000): L’esecutore non può sospendere o rallentare l’esecuzione dei lavori, tranne in quelle parti per le quali lo stato delle cose debba rimanere inalterato sino a che non sia eseguito l’accertamento dei fatti. Art. 191 del Dpr. 207/2010 – Forma e contenuto delle riserve (art. 31, d.m. ll.pp. n. 145/2000): L’esecutore, è sempre tenuto ad uniformarsi alle disposizioni del direttore dei lavori, senza poter sospendere o ritardare il regolare sviluppo dei lavori, quale che sia la contestazione o la riserva che egli iscriva negli atti contabili.    

In realtà, così non è alla luce del dato normativo previsto dall’art. 133 del Codice dei Contratti (come prima di lui l’art. 26 della legge quadro in materia di lavori pubblici, l. 109/94) che consente all’appaltatore di azionare due rimedi a tutela del ritardo nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione.

In tema di quantificazione degli interessi moratori si è stabilito che: “L’amministrazione pubblica … non ha il potere di stabilire unilateralmente le conseguenze del proprio stesso inadempimento contrattuale (come gli interessi moratori o le conseguenze del ritardato pagamento) né potrebbe subordinare la possibilità di partecipare alle gare alla accettazione di clausole aventi simili contenuti, se non a costo di ricadere sotto le sanzioni di invalidità, per iniquità, vessatorietà, mancanza di specifica approvazione a seguito di trattative, sanzioni sopra descritte” (Consiglio Stato, sez. V, 30 agosto 2005, n. 3892). Non può sostenersi la prevalenza di tali clausole rispetto a quanto previsto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva comunitaria: a parte il valore di supremazia della disciplina di derivazione comunitaria, oltre che della normativa nazionale imperativa, vale il principio per cui il contratto obbliga le parti non solo alle regole previste dal medesimo, ma anche al rispetto delle regole imperative e a tutto ciò che deriva dalla legge, dagli usi o dalla equità (articoli 1339, 1419, 1418 e 1374 del codice civile)”.

Difatti, fermo restando il diritto alla percezione degli interessi legali e moratori – questi ultimi, lo si ricorda, comprensivi del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2 solo in forza di specifica previsione in tal senso nel capitolato speciale d’appalto ai sensi del l’art. 144, comma 4, D.P.R. n. 207/2010 -, decorsi infruttuosamente i termini di cui agli artt. 143 e 144 del D.P.R. n. 207/2010 (cui l’art. 133 del Codice dei contratti pubblici espressamente rimanda) senza che la stazione appaltante abbia provveduto ad adempiere al proprio obbligo negoziale ed ove l’ammontare delle rate dell’acconto dovuto e non corrisposto raggiunga il quarto dell’importo netto contrattuale, l’appaltatore potrà contestualmente sollevare eccezione d’inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., ovvero, previa costituzione in mora dell’amministrazione aggiudicatrice e trascorsi sessanta giorni dalla data della costituzione stessa, promuovere un giudizio arbitrale per la risoluzione del contratto.

L’art. 133 comma 1 del Codice dei Contratti così infatti stabilisce: “In caso di ritardo nella emissione dei certificati di pagamento o dei titoli di spesa relativi agli acconti e alla rata di saldo rispetto alle condizioni e ai termini stabiliti dal contratto, che non devono comunque superare quelli fissati dal regolamento di cui all’articolo 5, spettano all’esecutore dei lavori gli interessi, legali e moratori, questi ultimi nella misura accertata annualmente con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ferma restando la sua facoltà, trascorsi i termini di cui sopra o, nel caso in cui l’ammontare delle rate di acconto, per le quali non sia stato tempestivamente emesso il certificato o il titolo di spesa, raggiunga il quarto dell’importo netto contrattuale, di agire ai sensi dell’articolo 1460 del codice civile, ovvero, previa costituzione in mora dell’amministrazione aggiudicatrice e trascorsi sessanta giorni dalla data della costituzione stessa, di promuovere il giudizio arbitrale per la dichiarazione di risoluzione del contratto.”

Deve infatti sottolinearsi che i rimedi offerti dall’art. 133 del Codice dei contratti sono in linea con i canoni ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui la preminenza della posizione riservata alla P.A. committente, derivante dall’essere l’opera appaltata rivolta a fini pubblici, non incide sulla natura privatistica del contratto di appalto di opere pubbliche (cfr. Cass. SS.UU., 27 novembre 1996, n. 10525; Cass. Civ., sez. I, 24 ottobre 1985, n. 5232; Cass. Civ., sez. I, 18 novembre 1994, n. 9794; Cass. Civ., sez. I, 12 agosto 2010, n. 18644), né priva l’appaltatore della possibilità di agire per ottenere la risoluzione del contratto stipulato con l’ente committente in base alle regole generali dettate per l’inadempimento contrattuale dagli articoli 1453, 1454 e 1455 del codice civile (Cass. Civ., sez. I, 7 luglio 2004, n. 12416).

Peraltro con il D.L. n. 35/2013, conv. con modif. in L. 64/2013, recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali” è stata stabilita all’art. 6-bis (introdotto in sede di conversione), rubricato “Sospensione dei lavori per mancato pagamento del corrispettivo” una modifica all’art. 253 del Codice dei Contratti Pubblici che consente all’esecutore dei lavori, in via transitoria fino al 31 dicembre 2015, di agire ai sensi dell’art. 1460 c.c. (dunque promuovendo un’eccezione di inadempimento della sua obbligazione) nel caso in cui l’ammontare delle rate di acconto, per le quali non sia stato tempestivamente emesso il certificato o il titolo di spesa, raggiunga il 15% dell’importo netto contrattuale.

L’esercizio di tale azione consente la sospensione dei lavori nel caso di inadempimento delle obbligazioni da parte dell’amministrazione. Si ricorda che l’art. 133 comma 1 del Codice dei Contratti regola l’ipotesi di ritardata emissione dei certificati di pagamento o dei titoli di spesa, prescrivendo l’obbligo per la p.a. di corrispondere all’appaltatore interessi legali e moratori, facendo salva la facoltà dell’appaltatore medesimo – ove l’ammontare delle rate di acconto oggetto di ritardo riguardi il 25% (15% sino al 31/12/2015) dell’importo netto contrattuale – di agire ai sensi dell’art. 1460 c.c. ovvero di promuovere giudizio arbitrale per la dichiarazione di risoluzione del contratto. La norma transitoria introdotta dall’emendamento, pertanto, riduce dal 25 al 15% del totale dell’importo netto contrattuale l’ammontare delle rate di acconto, per le quali si registra un ritardo dell’emissione del certificato o del titolo di spesa ed è consentito, in relazione all’art. 133 comma 1 del Codice dei Contratti, all’esecutore dei lavori di agire ex art. 1460 c.c., rifiutandosi di adempiere alla sua obbligazione ovvero sospendendo detto adempimento.

A prescindere dalla soglia transitoriamente decrementata dal legislatore d’urgenza del 2013 sino a tutto l’anno in corso 2015, ciò che maggiormente qui interessa è che l’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., espressamente richiamata dall’art. 133 del Codice dei Contratti, consente, dunque, all’appaltatore di sospendere i lavori, in deroga a quanto previsto dalle specifiche norme di rango peraltro secondario sopra citate in tema di divieto di sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore, ove l’amministrazione non adempia alle proprie obbligazioni, costituendo per l’appunto l’esecuzione dell’opera la principale obbligazione al cui adempimento l’appaltatore è contrattualmente tenuto.

A ben vedere, per quanto attiene alla sospensione dei lavori, intesa come rimedio cautelativo dell’appaltatore esperibile nei confronti dell’amministrazione committente, la Cassazione ha da tempo riconosciuto (Cass. Civ., sez. I, 24 ottobre 1985, n. 5232) al primo la facoltà di avvalersi dell’eccezione di inadempimento ai sensi dell’articolo 1460 del codice civile, ove lo stesso deduca e dimostri che detto inadempimento sia ascrivibile a dolo o colpa grave del committente e sempreché l’inadempimento stesso presenti gravità idonea a compromettere l’equilibrio fra le contrapposte prestazioni.

Sul piano della disciplina generale la giurisprudenza dei diritti, in una recente pronuncia della Cassazione, a tal proposito, ha avuto modo di affermare che “la salvaguardia del nesso sinallagmatico tra prestazioni corrispettive da adempiere simultaneamente, riconosciuta a ciascun contraente dall’art. 1460 c.c. mediante la facoltà di sospendere l’adempimento della propria obbligazione fino a quando l’altra parte non adempia, o non offra di adempiere la propria, non legittima il rigetto delle domande di adempimento del contratto hic et inde proposte se entrambe le parti sollevano l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, dovendo invece il giudice valutare, secondo il principio di buona fede e correttezza, in senso oggettivo, quale tra le due condotte, in relazione non soltanto alla relativa successione temporale, ma anche avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito da ciascuna parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (Cass., sez. II, 21 giugno 2010, n. 14926).

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadem­pimento in caso di inadempienze reciproche, è necessario far luogo ad un giudizio di compa­razione in ordine al comportamento di ambo le parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle vio­lazioni maggiormente rilevanti perché l’inadem­pimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamen­to colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell’altra parte.

La Suprema Corte ha affermato poi che “nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione, in caso di inadempienze reciproche, il giudice di merito è tenuto a formulare un giudizio di comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti (tenuto conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di questa sulla funzione economico-sociale del contratto), si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale” (Cass., sez. I, 10 ottobre 2011, n. 20743).

Da tali argomentazioni si può dedurre che l’appaltatore potrà far luogo alla sospensione dei lavori ex art. 1460 c.c. ove lo stesso deduca e dimostri che l’inadempimento del committente sia di gravità idonea a compromettere l’equilibrio sinallagmatico fra le contrapposte prestazioni, sempre che il rifiuto di adempiere da parte dell’appaltatore non sia contrario alla buona fede. Inoltre, trattandosi di contratti pubblici in cui viene in considerazione, come poc’anzi accennato, la cura di un interesse pubblico (esplicantesi, ad esempio, nella costruzione di un’opera), l’appaltatore dovrà prestare particolare attenzione nel provare la fondatezza della propria invocazione dell’eccezione di inadempimento.

Da ultimo e sul punto della gravità dell’inadempimento deve osservarsi che l’art. 133 del codice dei contratti pubblici (come già l’art. 26 della l. 109/94), ancorchè con formulazione che non brilla per linearità e chiarezza, nel prevedere espressamente il quarto dell’importo netto contrattuale quale soglia significativa dell’ammontare complessivo delle rate d’acconto non pagate tempestivamente, ha il pregio di aver predefinito la misura della gravità dell’inadempimento della stazione appaltante ai fini del legittimo esercizio della facoltà di avvalersi dell’eccezione di altrui inadempimento e, quindi, di sospendere legittimamente i lavori, evitando così l’insorgenza di prevedibili ragioni di conflittualità connesse alla altrimenti inevitabile applicazione del secondo comma dell’art. 1460 c.c. che preclude il rifiuto di adempiere che, avuto riguardo alle circostanze specifiche, sia contrario a buona fede.

Né tantomeno può essere fatta valere da parte della stazione appaltante la carenza di fondi, dal momento che è stato chiarito dall’ANAC di recente in un proprio parere n. 176/2013 che “Non può pertanto ritenersi legittima una previsione implicante l’esonero della responsabilità della S.A. nei confronti dell’appaltatore per ritardato pagamento, non potendo ritenersi idonea giustificazione la circostanza che il ritardo sia imputabile a fatti ricollegabili agli enti finanziatori dell’opera”.

Il principio è condiviso dalla Corte dei Conti, sez. reg. di controllo per la Puglia, Deliberazione n. 53/PAR/2013che, sempre con riferimento alle modalità di pagamento dei lavori pubblici, interviene nella particolare questione circa la legittimità di prevedere, nei bandi di gara e nei relativi contratti d’appalto di opere pubbliche, delle clausole espresse in base alle quali i pagamenti possono essere effettuati solo dopo l’accredito delle somme da parte degli enti erogatori, in tema di lavori pubblici finanziati da altre PP.AA.. La Corte si è pronunciata in senso risolutamente negativo, ritenendo la nullità della “eventuale clausola che subordinasse la corresponsione del corrispettivo alla ditta appaltatrice al ricevimento del finanziamento, o (…) escludesse la maturazione di interessi a favore dell’appaltatore per effetto di ritardi da parte dell’ente finanziatore negli accrediti di rate di finanziamento”. La nullità trova fondamento, secondo il decisum della Corte dei Conti, sulla normativa attinente i lavori pubblici, di natura cogente e come tale non derogabile. Nello stesso modo, in caso di ritardo nei pagamenti da parte dell’ente appaltante, la mancanza di risorse per fatto dell’ente finanziatore non potrebbe mai essere invocata come ragione esimente la responsabilità nei confronti della stazione appaltatrice che abbia portato a termine il lavoro (o il singolo SAL).

4. Conclusioni

Da quanto sopra in breve rammentato, si deduce che il ricorso all’art. 1460 cc come richiamato dall’art. 133 del Codice dei Contratti, si atteggia pertanto ad ipotesi del tutto eccezionale e si riferisce all’eccezione di inadempimento che – soltanto in ultima analisi e previa valutazione della gravità dell’inadempimento della stazione appaltante secondo i criteri anzi ricordati – consentirebbe la sospensione dei lavori, nel presupposto di legge che “l’ammontare delle rate di acconto, per le quali non sia stato tempestivamente emesso il certificato o il titolo di spesa, raggiunga il quarto dell’importo netto contrattuale” (vds. Cassaz., Sez. VI, Ord.za 26 novembre 2013, n. 26365).

Tali considerazioni sono ancor più condivisibili se si pone attenzione alle esigenze tecnico-finanziarie dell’appaltatore che mirano a portare a termine il prima possibile la commessa al fine di un contingentamento di costi in fase esecutiva dell’appalto.

Se è vero che il ritardo nella ultimazione dei lavori che deriverà dalla sospensione resasi necessaria per l’inadempimento dell’amministrazione appaltante non potrà certamente essere imputato all’appaltatore, al quale l’amministrazione stessa dovrà, invece, concedere una proroga per un periodo corrispondente al tempo in cui i lavori sono stati interrotti, non può sottacersi d’altro verso come la possibilità per l’appaltatore di avvalersi dell’eccezione ex art. 1460 c.c. possa rivelarsi un’arma a doppio taglio in quanto l’appaltatore dovrebbe, ad esempio, sospendere i lavori di un cantiere, ma continuare a corrispondere le retribuzioni alle proprie maestranze, e intanto far valere (e dimostrare, dunque) in giudizio l’inadempimento di controparte, facendo così lievitare vieppiù i costi dell’opera e detrimento del proprio margine di commessa.

Le osservazioni anzi scorse in tema di opportunità tecnica ed economico finanziaria sono in effetti la concreta ragione per cui, pur essendo un rimedio giuridico del tutto legittimamente azionabile da parte dell’appaltatore di opera pubblica, solo in ipotesi davvero residuali, un imprenditore prenderà in considerazione l’ipotesi di sospendere le proprie attività di cantiere in forza dell’art. 1460 cc.

A ben vedere, in epoca di vacche grasse, l’esposizione finanziaria dettata dal mancato pagamento da parte della p.a. dei SAL già certificati è stata per anni coperta dal settore creditizio attraverso la cessione dei crediti pro solvendo dei crediti degli appaltatori, confidando nella serietà ed affidabilità del debitore Stato.

L’esigenza è mutata di recente, allorquando in presenza di un credit crunch che ha indotto le banche a restringere i rubinetti del credito, interrompendo il circuito di finanziamento in via di prassi concretatosi, il legislatore si è sentito onerato di invertire il trend recependo dapprima la direttiva 20011/7/ce in tema di ritardati pagamenti da parte della p.a. e successivamente attraverso il decremento transitorio dal 25% al 15% del tetto di omesso pagamento per azionare l’eccezione di inadempimento.

Invero, sin quando il sistema pubblico dei pagamenti italiano sarà gravato dall’enorme ammontare del debito pubblico sin’oggi contratto dalla Repubblica, in un contesto di covenant di contabilità pubblica dettati dai vari Patti di Stabilità Interni, difficilmente sarà possibile ovviare a questa prassi di ritardati pagamenti che determina esclusivamente, da un lato, maggiori costi a titolo di interessi moratori per le stazioni appaltanti e, dall’altro, sempre crescenti costi aziendali a titolo di interessi passivi sulle proprie esposizione bancarie, in un circolo vizioso estremamente pernicioso per il tessuto economico nazionale.


[1] Art. 1655 – Nozione. L’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Giuseppe Totino
Esperto in contratti pubblici
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