Questo articolo è valutato
( vote)Premesse
Con ordinanza di remissione n. 1152 emessa il 13 marzo del 2017 all’Adunanza Plenaria proveniente dalla III Sezione, il Consiglio di Stato ha deferito al più alto Consesso della giurisprudenza amministrativa la composizione di una annosa querelle ermeneutica circa la corretta interpretazione degli effetti di una cessione di ramo d’azienda in capo al cedente in relazione al quantum di requisiti che lo stesso possa ancora vantare come propri a seguito della sottoscrizione dell’accordo traslativo.
In particolare, il Consiglio di Stato, con riferimento al sistema di qualificazione legale SOA per l’esecuzione dei lavori pubblici, rimetteva al vaglio della propria più alta composizione giurisdizionale alcune specifiche questioni: a) se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza dell’attivazione del procedimento ivi contemplato (nuova richiesta di attestazione SOA), la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, contemplate dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto suscettibili di dare vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato, ed invece esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente di ottenere la qualificazione.
Il quesito: se debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza dell’attivazione del procedimento di nuova richiesta di attestazione SOA, la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione solo a quelle che presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato.
Dalla lettura del quesito del giudice remittente, emerge come fosse presente in giurisprudenza un contrasto in merito alla scelta di quale approccio interpretativo potesse essere il più coerente, da un lato, con il tessuto civilistico che disciplina la fattispecie di un accordo tra privati teso alla cessione di una costola funzionalmente autonoma di una azienda (quale è l’operazione straordinaria di cessione del ramo d’azienda) e, dall’altro, con il sistema di qualificazione legale SOA che presuppone una verifica periodica dell’attestazione del possesso e permanenza dei requisiti di qualificazione per l’esecuzione dei lavori pubblici.
In altri termini, il rigore formalistico civilistico proprio dell’accordo paritetico dei cessione di ramo di natura derivativa – costitutiva, si scontra con quello, di medesima natura, del regime legale di attestazione delle qualificazioni proprio del settore dei lavori pubblici.
Il giudizio di bilanciamento condotto dall’Adunanza Plenaria ha presupposto l’analisi degli orientamenti contrapposti che d’appresso si rammentano.
1. Il contenuto dell’ordinanza di remissione ed il contrasto giurisprudenziale
Una parte della giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, nn. 811, 812 e 813, sez. III, 7 maggio 2015, n. 2296; id. 12 novembre 2014, n. 5573) ha affermato che, in mancanza dell’attivazione del procedimento previsto dall’art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010 che disciplina la verifica dei requisiti permanenti in capo al cedente, la cessione del ramo d’azienda comporta, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione.
Afferma il precedente richiamato che è seppur vero che possono esistere situazioni di fatto in cui, ceduto un ramo d’azienda, la cedente mantenga comunque requisiti sostanziali tali da sorreggere ancora la qualificazione inerente al compendio ceduto, indipendentemente da ulteriori acquisizioni. E in questo senso può essere corretto il dubbio se, occorrendo, non sia possibile dare dell’art. 76 un’interpretazione non strettamente letterale, tale da consentire la nuova attestazione anche allo stato dei requisiti, cioè a prescindere da acquisizioni successive alla cessione.
Quella che è invece insostenibile è l’interpretazione inversa, e cioè che si possano dare cessioni di rami d’azienda senza perdita di diritto dell’attestazione relativa. E ciò perché un’interpretazione di questo segno sarebbe in contrasto con l’impianto di fondo della normativa vigente, alla stregua del quale la qualificazione non è autocertificata dalla parte interessata, ma “viene rilasciata al termine di un procedimento istruttorio diretto ad accertare il possesso dei requisiti previsti dalla legge in capo al solo soggetto giuridico che l’ha richiesta” (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 70/2015, cit.).
In altri termini: la circostanza che, ceduto un ramo d’azienda, il soggetto cedente resti per avventura in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione non lo esonera dal chiedere a una Società Organismo di Attestazione quell’“attestazione di qualificazione” che – a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207/2010 – “costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici”.
Quanto sopra sarebbe conforme con quanto stabilito dal codice civile con riferimento ai contratti di natura traslativa, secondo il cui art. 1376 c.c. (genus dei contratti traslativi): “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”.
D’altro canto, come recita il vecchio adagio, l’unione integrata di più parti sortisce un risultato maggiore della mera sommatoria della componenti.
In coerenza con tale assunto, la succitata Sezione ricorda che come ha ritenuto altre volte il Consiglio di Stato, non v’è contraddizione qualora, a seguito della cessione di un ramo o di una parte di ramo d’azienda, gli originari requisiti di capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria siano perduti dal cedente senza per questo essere acquistati dal cessionario. Si può allora verificare che lo smembramento di un’articolazione dell’azienda dia luogo a due entità minori della precedente, ciascuna delle quali non possieda per intero detti requisiti o, comunque, che si abbia, come nella specie, una diminuzione del complesso aziendale, tale da far perdere una parte degli specifici requisiti originari (cfr. sez. VI, 25 maggio 2012, n. 3056; sez. III, n. 5573/2014, cit.).
A tale approccio ermeneutico propriamente formalistico, si contrappone un approccio possibilista, sostanzialistico e meno rigido nei riguardi del cedente.
Altra parte della giurisprudenza ( Cons. St., sez. III, 9 gennaio 2017, n. 30; id., sez. V, 18 ottobre 2016, n. 4347 e n. 4348; id. 17 dicembre 2015, n. 5706) ha invece sostenuto che non merita condivisione la tesi secondo la quale ogni trasferimento di ramo aziendale comporta comunque, anche se il cedente non perde la consistenza che gli ha consentito di ottenere le attestazioni SOA, l’automatica decadenza dalla loro titolarità.
Occorre escludere – affermano i precedenti anzi richiamati – in linea di principio a danno del cedente qualsiasi automatismo decadenziale conseguente alla cessione d’azienda, intendendosi con ciò affermare che occorre aver riguardo alla causa in concreto del negozio di cessione e al sottostante regolamento di interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza, complessità e particolarità, per determinare se la cessione dei beni aziendali comporti, o meno, la perdita dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente.
Solo in questo modo, esaminando, cioè «quali conseguenze derivino sul piano della perdita del possesso dei requisiti di qualificazione alla luce del contratto di cessione in concreto stipulato», come ha affermato la V Sezione nella citata sentenza n. 5573 del 12 novembre 2014 e, altresì, ha chiarito anche la Sezione V nella sentenza n. 3245 del 26 giugno 2015, si può evitare, infatti, qualsiasi fuorviante discrasia o, da diversa prospettiva, si può assicurare, quanto al possesso dei requisiti, una perfetta aderenza tra la mera forma dell’elemento documentale consistente nell’attestazione SOA e la vera e solida sostanza dell’assetto aziendale conseguente alla cessione, che nel caso di specie aveva ad oggetto il solo e limitato ramo inerente alla gestione di patrimoni immobiliari.
La Sezione – nel rimettere, a fronte di tale contrasto giurisprudenziale, la questione all’Adunanza plenaria – ha affermato di aderire all’orientamento espresso nelle sentenze della sez. V, secondo il quale non ogni trasferimento di ramo di azienda comporta, sempre e comunque, l’automatica decadenza dalla qualificazione, potendo tale conclusione essere sostenuta solo nell’ipotesi in cui il cedente abbia concretamente perso la consistenza aziendale che gli aveva consentito di ottenere le attestazioni SOA.
2. La soluzione dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza Plenaria con la decisione (Cons. St., A.P., 3 luglio 2017, n. 3 – Pres. Frattini, Est. Bellomo) ha mostrato di condividere la tesi sostanzialistica propugnata dalla V Sezione, ancorché sulla base di argomenti in parte diversi da quelli utilizzati dai precedenti richiamati.
Il supremo Consesso amministrativo parte dall’analisi della norma di riferimento che disciplina il rilascio dell’attestazione al nuovo soggetto che intenda avvalersi dei requisiti di qualificazione in caso di cessione dell’azienda o di un suo ramo, stabilendo che compete alla SOA accertare quali requisiti sono trasferiti al cessionario con l’atto di cessione, ciò significando che non vi è alcun automatismo in proposito.
Se tale è la premessa, cioè se l’automatismo è escluso per il cessionario, non può non esserlo per il cedente, poiché lo schema negoziale fondato sul principio del consenso traslativo postula la reciprocità degli effetti, per cui se chi acquista non riceve, chi cede non dà.
Non automaticamente in caso di trasferimento del ramo d’azienda sono trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1 del DPR n. 207/2010. In particolare, è ben possibile che la cessione di parti dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione.
Il comma 11, al secondo periodo, prevede che il cedente possa domandare una nuova attestazione esclusivamente sulla base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione. La tesi formalistica – secondo l’Adunanza Plenaria – omette di considerare che la richiesta di nuova attestazione si riferisca ai “requisiti oggetto di trasferimento”, quindi presuppone – e non già implica – che tali requisiti siano stati trasferiti. Effetto che non si produce automaticamente, altrimenti non sarebbe stato precisato, men che meno con la formula “oggetto di”, la quale sottintende che l’effetto è disposto dal negozio e non dalla legge. In definitiva, la disposizione non stabilisce (neppure implicitamente) la perdita delle qualificazioni come effetto della cessione aziendale, ma prevede l’ipotesi in cui tale perdita si sia verificata.
Ne discende – continua Palazzo Spada nella sua massima composizione – che non automaticamente in caso di trasferimento del ramo d’azienda sono trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1 del DPR n. 207/2010. In particolare, è ben possibile che la cessione di parti dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione.
Pertanto, conclude la Plenaria, se non sono trasferiti i requisiti di qualificazione, non possono esserlo le qualificazioni che ad essi si riferiscono.
Accanto a tale analisi testuale, l’Adunanza Plenaria accosta due diversi argomenti, uno di carattere logico sistematico, uno di carattere teleologico.
Il primo degli argomenti sottolinea come la causa concreta sottesa al contratto traslativo possa non necessariamente essere funzionale alla cessione dei beni che abbiano concorso all’ottenimento della qualificazione.
Infatti, – ricorda l’Adunanza Plenaria – i requisiti di qualificazione contemplati dall’art. 79, comma 1 del DPR n. 207/2010 dipendono dalle risorse aziendali, ma non coincidono con esse. Ciò per il semplice motivo che un conto è un bene patrimoniale (qual è, in definitiva, l’azienda: Cass. sez. un., n. 5087/14), altro sono i requisiti di qualificazione. Quand’anche si volesse ritenere che le categorie del diritto commerciale siano recepite passivamente dal diritto amministrativo che le richiami, resta che nella fattispecie in esame non vi è ad esse alcun richiamo, atteso che la citata disposizione del regolamento sui contratti pubblici individua come requisiti speciali di qualificazione i seguenti: a) adeguata capacità economica e finanziaria; b) adeguata idoneità tecnica e organizzativa; c) adeguata dotazione di attrezzature tecniche; d) adeguato organico medio annuo.
Pur trattandosi di elementi afferenti all’organizzazione produttiva dell’impresa (capitale e lavoro), essi sono dotati di autonomia concettuale, che i commi successivi dell’art. 79 articolano con riferimento a una pluralità di indici per ciascuna voce.
Ne discende che il consenso traslativo avente ad oggetto un ramo d’azienda non può automaticamente estendersi alle qualificazioni, né vi è alcuna norma che tanto disponga.
Ciò è coerente con la previsione secondo cui le SOA accertano quali requisiti di cui all’articolo 79 sono trasferiti al cessionario con l’atto di cessione. Poiché il contratto è “l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”, sicché il rapporto giuridico costituito non può che comprendere tutte le posizioni che sono oggetto del negozio (e ciò vale a maggior ragione per i negozi traslativi, in cui opera un meccanismo derivativo-costitutivo), se il cessionario può non acquistare taluni requisiti, il cedente può non perderli.
E’ fuori luogo sostenere che la cessione dei beni aziendali comporti di per sé il trasferimento delle qualificazioni, occorrendo considerare quale sia l’interesse pratico sotteso all’operazione e il suo effettivo contenuto e se l’eventuale interesse pratico possa realizzarsi senza il concorso di elementi esterni al contratto, come nel caso gli adempimenti ulteriori di competenza SOA.
Allora, – conclude il Collegio – è fuori luogo sostenere che la cessione dei beni aziendali comporti di per sé il trasferimento delle qualificazioni, occorrendo considerare quale sia l’interesse pratico sotteso all’operazione e il suo effettivo contenuto e se l’eventuale interesse pratico possa realizzarsi senza il concorso di elementi esterni al contratto, come nel caso gli adempimenti ulteriori di competenza SOA.
Milita, infine, a favore della tesi sostanzialistica – secondo il Collegio – anche l’analisi del profilo funzionale dell’istituto.
Afferma l’Adunanza Plenaria che la perdita automatica delle qualificazioni disegnerebbe, infatti, una presunzione assoluta, che, non soltanto non è esplicitata dalla legge, ma si porrebbe in conflitto con la giurisprudenza costituzionale in materia, la quale in numerose circostanze ha affermato il principio generale secondo cui «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (Corte costituzionale, sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 41 del 1999, n. 225 del 2008, n. 139 e 265 del 2010, n. 231 e 164 del 2011, n. 172 del 2012, etc.).
Una presunzione di tal foggia che porti all’affermazione della cd. discontinuità sarebbe in contrasto sia col principio di matrice ordinamentale interno, secondo cui le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell’appalto, senza soluzione di continuità (Cons. Stato, Ad. plen., 20 luglio 2015, n. 8), sia con il principio di proporzionalità derivante dal Trattato sul funzionamento UE.
La regola secondo cui ogni trasferimento aziendale, ancorché minimo, genera di per sé la perdita delle qualificazioni, con effetti anche sulle gare in corso, per importi di gran lunga superiori al valore dei beni trasferiti, sarebbe:
- una misura eccessiva, anche alla luce della presunzione di idoneità di cui all’art. 52, commi 3 e 4 della direttiva 2004/18/CE;
- tale da alterare lo svolgimento delle competizioni, implicando l’esclusione dell’impresa cedente dalla gara, ancorché i requisiti di qualificazione non siano stati effettivamente persi;
- una restrizione indiretta alla libertà di stabilimento, alla libertà di circolazione dei capitali, alla libera prestazione di servizi.
3. Conclusioni
Conclusivamente, con la decisione in commento l’Adunanza Plenaria ha stabilito che «l’art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010 deve essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento», ponendo in rilievo come sia necessario aderire ad una interpretazione coerente con il dato letterale della disposizione reggente, con l’assetto contrattuale concretamente perseguito dalla parti, e, sotto il profilo funzionale, coerente con la necessità della salvaguardia della continuità dell’esecuzione contrattuale.
Non deve poi sfuggire che gli argomenti utilizzati dal Collegio in composizione plenaria, siano essi ancorati al dato testuale, di carattere logico-sistematico ovvero funzionale, trovano le proprie fondamenta sul rapporto di specialità che permea l’assetto ordinamentale pubblicistico in materia di affidamenti pubblici.
Il principio di specialità, sancito dal previgente articolo 2 del D.Lgs. 163/06, è stato confermato dall’art. 30 c. 8 e stabilisce che “Per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”.
In altri termini, la vis applicativa del codice civile, almeno sul piano esecutivo e paritetico, trova riespansione laddove il codice non detti diversamente specifica disciplina.
Nel testo della decisione in commento, più volte il Collegio ha ribadito come da nessun dato testuale possa essere ritraibile l’affermazione per la quale il cedente sia spogliato ipso iure della propria qualificazione, attestata da un ente certificatore, per il solo fatto che sia stato sottoscritto un accordo traslativo di alcuni cespiti aziendali sotto il nomen iuris di cessione di ramo d’azienda.
Al contrario è previsto un procedimento ad hoc finalizzato alla verifica ex post della consistenza aziendale del cessionario a valle della sottoscrizione dell’operazione straordinaria, volto a valutare il contenuto del contratto, l’assetto causale sotteso all’accordo traslativo dall’analisi del quale è possibile comprendere cosa sia stato effettivamente trasferito dal cedente al cessionario, analisi che deve qualificarsi come presupposto per la successiva valutazione circa la sussistenza in capo al cessionario di nuovi requisiti ovvero la permanenza in capo al cedente degli stessi, il tutto sempre in coerenza sistematica e funzionale con la norma speciale che detta tale procedimento.
Compito della giurisprudenza amministrativa, assolto dall’Adunanza Plenaria in maniera ineccepibile, è pertanto quello di orientare l’operatore del diritto verso la corretta applicazione di norme che spesso si intersecano con i diversi piani che il diritto del contratti pubblici lambisce, con particolare riferimento ad ipotesi come quella in parola che coinvolge temi propriamente privatistici quali la libertà di autodeterminazione aziendale.
E’ la stessa Adunanza Plenaria che sul punto stigmatizza come una tesi ancora al rigido formalismo determinerebbe “effetti distorsivi della concorrenza che si avvertirebbero in particolare modo per i grandi gruppi societari (nazionali e non), i quali più frequentemente ricorrono a operazioni aziendali di minima rilevanza rispetto al fatturato globale (come nel caso in esame), ed ai quali deve essere garantita, in ciascuno Stato membro, la piena possibilità di operare sul mercato con trasformazioni ed operazioni societarie cui non si riconducano per effetto presuntivo conseguenze pregiudizievoli o disincentivanti.