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( votes)1. Il potere di autotutela delle stazioni appaltanti
Un aspetto particolarmente critico e dibattuto della disciplina dei contratti pubblici, e in particolare delle procedure ad evidenza pubblica, è sicuramente rappresentato dalla facoltà attribuita alla pubblica amministrazione di esercitare il potere di autotutela decisoria, in qualità di stazione appaltante, e quindi di incidere su un assetto di interessi già delineatosi con il provvedimento di aggiudicazione della gara attraverso i provvedimenti di annullamento e revoca di quest’ultima.
In generale, l’autotutela è una particolare forma di azione della pubblica amministrazione che si estrinseca nella rivalutazione di un atto dalla stessa precedentemente emanato, al fine di prevenire o comunque evitare l’instaurazione di eventuali controversie aventi ad oggetto il proprio operato.
Come noto, il potere di autotutela della Pubblica Amministrazione rientra tra i poteri discrezionali attribuiti a quest’ultima dall’ordinamento, disciplinato dagli articoli 21 ter, 21 quinquies e 21 nonies della legge 241/1990 (legge sul procedimento amministrativo), e consiste nella facoltà riconosciuta in favore dell’amministrazione di sospendere l’efficacia dei suoi atti o di ritirare un atto da essa stessa emanato (atto valido ed efficace) sia su iniziativa propria che su richiesta del privato interessato che abbia adeguatamente motivato la propria richiesta. Ciò al fine di eliminare da elidere e prevenire, in maniera rapida ed efficace, i danni che un atto viziato e pregiudizievole degli interessi, pubblici e privati, sicuramente provocherebbe, senza che il singolo debba per forza ricorrere alla tutela giurisdizionale.
Accanto a quella appena descritta, qualificata in dottrina quale autotutela “decisoria”, si affianca la cosiddetta autotutela esecutiva, posta in essere al fine di mantenere in vita atti amministrativi ormai scaduti o confermare altri atti altrimenti inefficaci (c.d. “conservazione” e “convalescenza” degli atti amministrativi).
Pertanto, ci si trova dinanzi all’esercizio di un potere discrezionale della pubblica amministrazione chiamata a valutare il requisito dell’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione degli effetti del provvedimento originario.
Più nello specifico per quanto qui è di nostro interesse, in caso di annullamento d’ufficio (art. 21 nonies della legge 241/90) il presupposto deve ravvisarsi nell’illegittimità originaria dell’atto in relazione al decorso del tempo; mentre nel caso della revoca (art. 21 quinquies), viene in rilievo la possibilità per la pubblica amministrazione di procedere ad una modificazione di un rapporto precedentemente creato attraverso l’emanazione di un provvedimento amministrativo. Inoltre, mentre l’annullamento guarda al passato, nel senso che costituisce un rimedio volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio della funzione di primo grado e, quindi, opera in una logica essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la costante dinamica evolutiva.
Il fatto che la legge qualifichi tale potere come una facoltà implica di conseguenza che, in caso di silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione a seguito di proposta di ritiro di un atto amministrativo inoltrata dal privato, quest’ultimo non possa promuovere azione avverso il silenzio ex art. 2 legge sopra citata, mentre potrà al contrario essere impugnato dagli interessati il provvedimento che disponga il ritiro dell’atto in via di autotutela.
Soggetto attivo titolare di tale potere è la stessa pubblica amministrazione che ha provveduto ad emanare l’atto. I provvedimenti adottati in via di autotutela sono recettizi, ossia è necessario portare gli stessi a conoscenza dei privati interessati affinché possano espletare piena efficacia.
La giurisprudenza consolidatasi negli anni (cfr., tra le tante, Cds, n. 6507 del 18 Dicembre 2012) ha tuttavia stabilito che il potere di autotutela debba essere esercitato in presenza di determinati presupposti, ed in particolare i Giudici del Consiglio di Stato hanno stabilito che, al fine della sua attivazione, debbano sussistere <<gravi ragioni, cioè circostanze tali da rendere quanto meno inopportuno che un provvedimento emanato, non inficiato da vizi macroscopici o facilmente riconoscibili, continui a svolgere i propri effetti per evitare che questi possano definitivamente alterare e compromettere il substrato fattuale sul quale incide>>.
L’impiego dell’espressione “gravi ragioni” implica inoltre il riferimento ad altri fondamentali principi del nostro ordinamento regolanti l’azione amministrativa, ed in particolare quelli di adeguatezza e proporzionalità. Un atto è adeguato se idoneo al perseguimento del pubblico interesse; è proporzionale se, raggiungendo lo scopo, imponga il minor sacrificio possibile nei confronti del privato.
2. In particolare: la revoca dell’aggiudicazione della gara
Applicando i principi sopra delineati e riassunti alle gare d’appalto, è evidente come la revoca dell’aggiudicazione della gara si configuri quale strumento di autotutela decisoria preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc – quindi non retroattiva – di un atto ad efficacia durevole, in esito a una nuova (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico alla conservazione della sua efficacia.
I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art. 21 quinquies (per come modificato dall’art. 25, comma 1, lett. b-ter, d.l. n. 133 del 2014) e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto (imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento) e in una rinnovata (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico originario (tranne che per i provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici).
Ora, nonostante con le modifiche normative introdotte nel 2014 con il DL 133/2014 il legislatore abbia voluto circoscrivere e parzialmente limitare l’utilizzo di tale strumento accrescendo la tutela del privato da un arbitrario e sproporzionato esercizio del potere di autotutela in questione (per mezzo dell’esclusione dei titoli abilitativi o attributivi di vantaggi economici dal catalogo di quelli revocabili in esito a una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario), il potere di revoca resta tuttavia connotato da un’ampia discrezionalità (cfr., tra le tante, Cds, sez. III, 6 maggio 2014, n.2311)
A differenza del potere di annullamento d’ufficio, infatti, che presuppone l’illegittimità dell’atto annullato, quello di revoca presuppone unicamente una valutazione di opportunità, seppur limitata alle condizioni legittimanti declinate all’art. 21 quinquies della legge 241/90.
L’aspetto critico dell’esercizio del potere di revoca, dunque, risiede nel rischio che vengano lesi il principio del legittimo affidamento ingenerato nel privato danneggiato dalla revoca, l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall’atto originario, nonché, più in generale, alla stabilità dei provvedimenti amministrativi.
Per quanto concerne gli appalti pubblici, va ricordato che l’istituto della revoca non è utilizzabile dopo la stipula del contratto d’appalto, dovendo utilizzarsi, in quella fase, il diverso strumento del recesso (v. Adunanza Plenaria del Cds, decisione del 29 giugno 2014, n.14), mentre prima del perfezionamento del contratto, al contrario, l’aggiudicazione è pacificamente revocabile (cfr. Cds, sez. III, 13 aprile 2011, n.2291). L’Adunanza Plenaria citata ha costituito un momento “spartiacque” nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, avendo chiarito che nel procedimento di affidamento di lavori pubblici, le pubbliche amministrazioni, se, stipulato un contratto di appalto, rinvengono sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato (all’epoca) dall’art. 134 del D. Lgs. n. 163 del 2006, ossia il recesso.
Il principio di diritto appena riportato, espresso dal Supremo Consesso amministrativo a margine della sentenza in commento, ha dunque spento – sembrerebbe in via definitiva – il dibattito relativo alla possibilità dell’amministrazione di travalicare i confini pubblicistici delle procedure ad evidenza pubblica, scongiurando l’utilizzo di un tipico strumento di autotutela, quale la revoca dell’atto amministrativo, nella fase privatistica delle stesse, che incomincia con la stipula del contratto di appalto.
Così riconosciuta, in astratto, la revocabilità dell’aggiudicazione – ovviamente prima della stipulazione del contratto – bisogna considerare che l’ambito degli appalti pubblici è del tutto peculiare rispetto ad altri settori del nostro ordinamento, e necessita senza dubbio di definire le condizioni del valido esercizio della potestà di autotutela in questione secondo parametri ancora più stringenti.
A fronte, infatti, della nota strutturazione procedimentale della scelta del contraente, la definizione regolare della procedura mediante la selezione di un’offerta giudicata migliore conforme alle esigenze della stazione appaltante, per come cristallizzate nella lex specialis, consolida in capo all’impresa aggiudicataria una posizione particolarmente qualificata ed impone, quindi, alla Stazione appaltante, nell’esercizio del potere di revoca, l’onere di una ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti.
Il ritiro di un’aggiudicazione legittima dovrebbe, infatti, essere giustificato dalla sussistenza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente salienti e preminenti sulle esigenze di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha regolarmente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da risultarne vincitrice, e richiede, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi (cfr. Cds, sez. V, 19 maggio 2016, n. 2095).
Ciò detto, i canoni di condotta appena precisati restano validi anche per le procedure di aggiudicazione soggette alla nuova disciplina del d.lgs. n. 36/2023, nella misura in cui il paradigma legale di riferimento resta, anche per queste ultime, l’art. 21 quinquies della legge n. 241/1990, e non anche la disciplina speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli appalti.
Così precisate le coordinate valutative alla cui stregua deve essere formulato il giudizio di legittimità della revoca controversa, occorre, ancora, chiarire che, quando riguardi le caratteristiche dell’oggetto dell’appalto, il ripensamento dell’amministrazione, per legittimare il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione, deve fondarsi sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura.
Le Stazioni appaltanti, infatti, dovrebbero preliminarmente verificare le proprie esigenze per poi definire, coerentemente con gli esiti dell’anzidetta analisi, gli elementi essenziali del contratto e, solo successivamente, indire una procedura di affidamento avente ad oggetto la prestazione già individuata come necessaria (cfr. Cds, sez V, 11 maggio 2009, n.2882).
3. La casistica giurisprudenziale
Secondo la giurisprudenza, in materia di appalti pubblici le ragioni in grado di supportare la revoca legittima dell’aggiudicazione sono state variamente individuate e risultano tre, in particolar modo, le fattispecie ricorrenti: a) revoca per sopravvenuta non corrispondenza dell’appalto alle esigenze dell’amministrazione; b) revoca per sopravvenuta indisponibilità di risorse finanziarie ovvero per sopravvenuta non convenienza economica dell’appalto (fra le tante, Cds, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599, Sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748); c) revoca per inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura (Cds, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026).
La giurisprudenza annovera tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (cfr. Cds n. 120/2018; ibidem Cds, sez. V, 12 giugno 2017, n. 2804; Cds, sez. V, 11 luglio 2016, n. 3054; Cds, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, e TAR Liguria, sez. II, 27 gennaio 2017, n. 55).
In detti casi la revoca assume una particolare connotazione di pseudo-sanzionatoria, poiché la caducazione degli effetti del provvedimento è giustificata da condotte scorrette del privato beneficiario di precedente provvedimento favorevole dell’amministrazione; tuttavia, si tratta pur sempre di “motivi di pubblico interesse”, successivi al provvedimento favorevole (o successivamente conosciuti dalla stazione appaltante, e per questo “sopravvenuti”) che giustificano la revoca.
La particolarità di tale revoca consiste nel fatto che l’amministrazione non è tenuta a soppesare l’affidamento maturato dal privato sul provvedimento a sé favorevole e, d’altra parte, non ricorrono pregiudizi imputabili all’amministrazione e ristorabili mediante indennizzo poiché ogni conseguenza, ivi comprese eventuali perdite economiche, è imputabile esclusivamente alla condotta del privato, non dando luogo a responsabilità dell’amministrazione, neppure da atto lecito (v. Cds, Sez. V, n. 120/2018).
Del resto, in materia di gare di appalto, deve ritenersi che ogni determinazione susseguente alla adozione del provvedimento di aggiudicazione sia di competenza della stazione appaltante, unico soggetto a cui è rimessa d’altra parte la valutazione discrezionale in merito all’opportunità di sottoscrivere il contratto ovvero di revocare l’aggiudicazione.
Significativa, in tale senso, è una recente pronuncia del TAR Lazio (Sez. V, 19 gennaio 2024 n. 928), secondo la quale deve ritenersi legittimo, in quanto fondato su evidenti ragioni di pubblico interesse, il provvedimento con il quale la pubblica amministrazione ha disposto la revoca in autotutela dell’aggiudicazione di una gara di appalto, che sia motivato con riferimento al fatto che, nonostante il formale invito rivolto dall’Amministrazione al concorrente vittorioso, questi ha chiaramente e ripetutamente manifestato la volontà di stipulare l’accordo negoziale a condizioni diverse da quelle originariamente previste nella lex specialis, ovvero di procedere a consistenti modifiche, nella specie, della proposta di accordo quadro e di addivenire alla stipula con condizioni contrattuali frutto di rinegoziazione tra le parti.
Ha osservato, in particolare, la sentenza in commento che, quanto all’esercizio del potere di revoca, deve essere osservato che nelle gare pubbliche <<è legittima la revoca dell’aggiudicazione dell’appalto disposta dalla stazione appaltante a seguito del rifiuto, da parte dell’aggiudicatario, di stipulare il relativo contratto d’appalto, e ciò anche quando il termine per la stipula del contratto sia scaduto>>.
A questo riguardo, invero, si concorda con quell’orientamento a mente del quale <<l’infruttuoso decorso del termine di cui all’art. 32, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 [ora art. 18, co. 2, d.lgs. 36/2023, ndr] previsto per la sottoscrizione del contratto di appalto non preclude affatto la possibilità di stipularlo, stante la natura meramente ordinatoria dello stesso>> (Cds, Sez. V, 14 luglio 2022, n. 5991).
Quanto all’obbligo di sottoscrizione del contratto entro il termine di 60 giorni previsto dalla legge, infatti, si osserva che esso è posto a tutela dell’aggiudicatario, il quale deve poter calcolare ed attuare le scelte imprenditoriali entro tempi certi.
Da ciò deriva che, di fronte all’inerzia dell’amministrazione che si sottrae all’obbligo di stipulare il contratto, l’operatore economico ha di fronte a sé due opzioni: a) svincolarsi dalla propria offerta; b) proporre azione avverso il silenzio, di cui agli artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010 al fine di ottenere la condanna dell’amministrazione pubblica a provvedere.
A ben vedere, in entrambi i casi, il presupposto legittimante è l’inerzia dell’amministrazione, inerzia che nella sentenza in commento certamente non vi è stata in quanto la ricorrente si è aggiudicata la gara pretendendo poi di stipulare un contratto diverso rispetto a quello scaturito dalla procedura ad evidenza pubblica.
Prova di questo atteggiamento, nel caso di specie, risiede in un lungo carteggio intercorso tra la ricorrente e la stazione appaltante, rivelatore di lunghe trattative (cui peraltro l’Amministrazione non era obbligata ad aderire) volte alla stipula di un contratto conforme alle richieste dell’operatore economico, ma difformi rispetto al contenuto della legge di gara.
La norma che fissa il termine di sessanta giorni per la stipula del contratto d’appalto (ora previsto dall’art. 18, co. 2 del d.lgs. 36/2023, prima previsto dal’art. 32, co. 8, del d.lgs. 50/2016), che la ricorrente nella specie ha assunto inoltre essere stato violato è, a ben vedere, una disposizione che si applica quando il contratto che l’amministrazione rifiuta di stipulare è quello scaturito dalla procedura di gara, non quello che l’operatore economico pretende di stipulare dopo le modifiche cui aspira.
La ripetuta manifestazione di volontà di addivenire alla stipula con condizioni contrattuali frutto di rinegoziazione tra le parti è del tutto incompatibile con quella di sciogliersi dal vincolo contrattuale. A prescindere, inoltre, dall’imputazione della mancata conclusione del contratto all’una o all’altra parte contrattuale (accertamento che assume rilevanza solo quanto alle conseguenze che dalla revoca derivano, quali l’escussione della polizza fideiussoria o la segnalazione all’ANAC), la giurisprudenza è consolidata nel senso di ritenere che negli appalti pubblici non è precluso all’amministrazione di revocare l’aggiudicazione in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, del quale si è dato atto nella motivazione del provvedimento di autotutela, alla stregua dei principi generali dell’ordinamento giuridico, i quali, oltre che espressamente codificati dall’art. 21 quinquies della L. n. 241/1990, trovano fondamento negli stessi principi costituzionali predicati dall’art. 97 Cost., ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa.
L’esercizio di tale potere non è subordinato al ricorrere di ipotesi tipiche, tassativamente predeterminate dal legislatore, ma è rimesso alla valutazione ampiamente discrezionale dell’amministrazione (Cds, Sez. V, 7 febbraio 2022, n. 833).
In definitiva, il rifiuto di stipulare il contratto a seguito di aggiudicazione di gara pubblica costituisce un fatto che, all’evidenza, può giustificare, come è avvenuto nel caso della sentenza in commento, la revoca dell’aggiudicazione.
Alla casistica giurisprudenziale appena illustrata si unisce il consolidato orientamento giurisprudenziale concludente per la legittimità di una revoca/decadenza dell’aggiudicazione in ragione dell’inadempimento da parte dell’aggiudicatario dell’obbligo, previsto negli atti di gara, di procedere d’urgenza all’inizio dei lavori, su richiesta dell’amministrazione, nelle more della stipula del contratto (v. tra le tante Cds, Sez. V, 14 dicembre 2021, n. 8321)
Del pari, deve ritenersi legittima la revoca dell’aggiudicazione a fronte della mancata produzione della documentazione attinente alla fase esecutiva e di apertura del cantiere (come la idoneità tecnico-professionale di cui agli articoli 17 ed 89 del D. Lgs. n. 81/2008 o il Piano Operativo di Sicurezza) la cui conformità a legge deve essere necessariamente verificata al momento dell’inizio dei lavori anche in caso di consegna anticipata rispetto alla stipulazione del contratto, come anche la pretesa della stazione appaltante di ottenere a tal scopo il programma esecutivo dei lavori che, ai sensi del DM 49/2018, l’impresa aggiudicataria deve presentare prima dell’inizio dei lavori (TAR Toscana, sez. I, 19 aprile 2022, n. 527).
4. Conclusioni
Come abbiamo visto, la giurisprudenza passata in rassegna si è occupata di analizzare il comportamento assunto dall’aggiudicataria tra la fase di aggiudicazione e quella propedeutica alla stipula del contratto, nell’ambito della quale sono stati individuati comportamenti giudicati come un chiaro indice di inaffidabilità delle imprese coinvolte, con la conseguenza che <<anche i lamentati ritardi nelle attività preliminari alla stipula del contratto di appalto su cui attualmente si verte potevano in linea di principio giustificare, da sé soli, la revoca dell’aggiudicazione>> (tra le tante, Cds, sez. V, 29 luglio 2019, n. 5354), come pure <<Il reiterato atteggiamento non cooperativo dell’aggiudicatario, obiettivamente idoneo a ritardare la stipula del contratto anche a fronte di servizi dichiaratamente connotati di urgenza, in presenza di motivate ragioni di pubblico interesse>> (Cds, sez. V, 3 giugno 2021 n. 4248).
Per quanto analizzato sin qui, tuttavia, alla luce del contenuto dell’autorevole giurisprudenza citata, non v’è dubbio che il potere di autotutela – ed in particolare quello di revoca – costituisca una importante risorsa del nostro ordinamento, ma che tuttavia attribuisca alla pubblica amministrazione un notevole margine discrezionale, e che perciò stesso vada usato con la dovuta oculatezza e parsimonia, onde evitare il rischio di imporre un eccessivo sacrificio agli interessi privati ed al legittimo affidamento che questi ripongono sui provvedimenti emanati ed al loro favorevoli.
Non è un caso se, come abbiamo visto, il legislatore sia intervenuto con la novella del 2014 (d.l. 133/2014) al fine di porre dei limiti ben precisi all’esercizio del potere di revoca, proprio al fine di apprestare la massima tutela possibile agli interessi dei privati e, in ogni caso, garantirne un equo bilanciamento rispetto a quelli pubblici.
Ciò, evidentemente, non è risultato sufficiente per l’ambito delle pubbliche gare d’appalto, in cui l’ordinamento impone all’Amministrazione di effettuare tutte le valutazioni di opportunità e di convenienza economica addirittura ben prima che la gara possa essere bandita. In tal senso, dunque, è servito un corposo intervento della giurisprudenza al fine di tracciare ulteriori limiti al ricorso al potere di revoca in soggetta materia, onde evitare che gli eventuali “ripensamenti” delle Stazioni appalti possano essere basati su delle mere suggestioni legate alla convenienza o alla satisfattività della prestazione contrattuale da aggiudicare tramite la commessa pubblica, obbligando la Stazione appaltante ad una valutazione attenta e bilanciata tra interessi pubblici e privati che, sostanzialmente – secondo la giurisprudenza qui citata – vanno ad essere qualificati quali interessi di pari rango, al fine di garantire il rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento tutelati dall’art. 97 della Costituzione.
Vero è, tuttavia, che nella casistica poc’anzi analizzata abbiamo avuto modo di verificare dei “casi limite” in cui,
effettivamente, il comportamento delle imprese aggiudicatarie – successivo all’aggiudicazione e precedente alla stipula del contratto – ha costituito un notevole vulnus agli interessi pubblici, consistente nella volontà manifestata di stipulare contratti a condizioni diverse da quelle a priori individuate dalle stazioni appaltanti nella legge di gara, ma più vantaggiose (per i privati), o finanche nel manifestato rifiuto di iniziare i lavori in via d’urgenza, pur previsto nella stessa lex specialis.
In questi casi, obiettivamente, lo strumento della revoca risulta perfettamente servente al perseguimento degli interessi pubblici, consentendo alle pubbliche amministrazioni, senza necessità di garantire indennizzi alle imprese affidatarie, di sottrarre l’esecuzione dell’appalto a soggetti che, sin dalla fase immediatamente successiva all’aggiudicazione, si siano mostrati del tutto inaffidabili.