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( votes)Il d.lgs. 231 del 2001 – recante il titolo “ Disciplina della responsabilità amministrativa delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300” – rappresenta una vera e propria innovazione legislativa.
Per la prima volta, nel nostro ordinamento, “grazie” all’ingresso dell’anzidetto testo normativo, si configura un modello, assolutamente nuovo ed autonomo, di responsabilità –amministrativa- degli enti, delle società, delle associazioni anche prive di personalità giuridica.
Per essere ancor più chiari sulla portata rivoluzionaria della norma, si evidenzia che: gli enti menzionati risponderanno autonomamente dei reati commessi da soggetti ad essi appartenenti, tutte le volte chela condotta delittuosa venga consumata nell’interesse dell’ente medesimo o quest’ultimo ne tragga vantaggio. Conseguentemente, saranno sottoposti a ordinario procedimento penale, come se fossero essi stessi gli enti gli autori degli illeciti consumati e subiranno le conseguenze dell’accertata condotta delittuosa, rispondendo personalmente – con il proprio patrimonio o con quello dei soci ad essi appartenenti – per il reato commesso.
Trattasi, dunque, di uno strumento, introdotto dal legislatore, per fronteggiare, in maniera più proficua e decisiva, la lotta contro la commissione di reati, principalmente ai danni della Pubblica Amministrazione e bloccare il fenomeno della c.d. criminalità d’impresa. L’iniziativa, di origine internazionale, prende le mosse da una serie di accordi e convenzioni susseguitisi, al fine di contrastare la realizzazione di reati commessi ai danni della Comunità Europea, specificamente la corruzione dei funzionari pubblici stranieri.
La Convenzione OCSE del 17/12/97 obbligava all’art. 2 gli Stati aderenti ad adottare “le misure necessarie a stabilire la responsabilità delle persone giuridiche”, per i reati previstidalla suddetta Convenzione. Il secondo protocollo della Convenzione PIF (Protezione degli Interessi Finanziari delle Comunità Europee) prevedeva l’applicazione alle persone giuridiche di sanzioni effettive, lasciando al legislatore nazionale la scelta sulla natura della responsabilità. Con la legge delega n. 300/2000, il legislatore ha ratificato e dato attuazione alla suddette Convenzioni, prevedendo all’art. 11 che il Governo adottasse – entro otto mesi dalla entrata in vigore della legge – un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, secondo le modalità e le direttive in essa specificate.
Sono proprio le pesantissime sanzioni previste a danno delle società – che ne colpiscono il patrimonio, fino a prevedere la interruzione della attività esercitata – a fungere da deterrente e far si che gli organi dirigenti delle anzidette società adottino ogni comportamento opportuno e legislativamente indicato, idoneo a prevenire la commissione dei reati individuati dal decreto in esame.
Gli organi dirigenti delle società dovranno predisporre, perché queste vadano esenti da ogni forma di responsabilità, specifici, puntuali ed efficienti modelli di organizzazione e di gestione dei rischi.
Da ciò deriva che l’adozione del modello, che è facoltativa e non soggetta ad alcuna sanzione, diviene di fatto obbligatoria se si vuole beneficiare dell’esimente.
Vediamo ora quale è stato l’iter logico-giuridico seguito dal legislatore per arrivare a configurare una responsabilità in capo ad un “soggetto diverso”, rispetto a quello che materialmente ha commesso il reato.
Prima della entrata in vigore del decreto in esame, il principio ex art. 27 Cost., della personalità della responsabilità penale, non consentiva la imputabilità all’ente dei reati commessi a vantaggio o nell’interesse dello stesso, lasciandolo così immune da conseguenze di natura sanzionatoria.
L’empasse è stata superata rinnovando la tradizionale concezione psicologica della colpevolezza, che è stata sostituita da una concezione normativa e costruita come rimproverabilità di un comportamento antigiuridico.
Il dibattito, sviluppatosi per superare il principio della personalità della responsabilità e sganciarla dal soggetto quale persona fisica, ha portato ad elaborare una teoria che fa riferimento alla c.d. “colpa di organizzazione”. Teoria, questa, già elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza tedesca, relativamente agli enti collettivi e alle imprese gestite in forma collettiva, per colpire la negligenza e fronteggiare i danni provocati da organi o soggetti da questi incaricati, in esecuzione delle mansioni loro affidate.
La colpa consistenella violazione della diligenza, prescritta per salvaguardare beni giuridici.
Si legge, invero, nella Relazione Governativa al decreto legislativo 231 del 2001: “ai fini della responsabilità dell’ente occorrerà non soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo; di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione”.
I criteri di imputazione, adottati dal legislatore, per individuare la responsabilità amministrativa degli enti, “adempiono”, da una parte,ad una “logica di garanzia” e, dall’altra, ad “una insostituibile funzione preventiva”. (cfr. relazione Governativa al decreto).
Quindi, la questione di illegittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 27 della Costituzione, è stata ritenuta manifestamente infondata “poiché l’ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda”. (cfr. Cass. Pen., del 16 luglio 2012 , n. 27735).
Per concludere sul punto, l’ente risponderà di un autonomo illecito amministrativo, imputabile a carenza organizzativa, che consente la consumazione della condotta delittuosa. E il fatto commesso dalla persona fisica sarà oggetto di valutazione da parte del giudice, in quanto presupposto per la esistenza dell’illecito amministrativo, ovvero quale elemento oggettivo di quest’ultimo.
L’autonomia della responsabilità dell’ente riviene proprio dal dato normativo, che la sgancia da quella personale di chi ha materialmente commesso il reato.
L’art. 8 del decreto è esplicativo in tal senso. Afferma che l’ente è responsabile anche quando il reato sia stato commesso da persona non imputabile o che non sia stata identificata o allorché il reato si estingua per cause diverse dalla amnistia. Soltanto quando l’azione penale non possa essere iniziata o proseguita nei confronti dell’autore del reato, per mancanza di una delle condizioni di procedibilità, non si potrà procedere all’accertamento dell’illecito amministrativo (art. 37).
Al fine di dare concreta attuazione alla disposizione normativa, in ordine alla menzionata responsabilità, il legislatore:
- ha stabilito che all’ente siano applicabili le norme, in quanto compatibili, del codice di procedura penale, relative agli imputati. Così prevedendo, all’art. 36, che “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono” e che per il “procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla competenza del Tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende”. Dunque, l’autore materiale del fatto-reato e l’ente saranno sottoposti al medesimo procedimento penale (si parla, infatti, di simultaneus processus);
- ha introdotto sanzioni che mirano a coinvolgere il patrimonio degli enti e, pertanto, gli interessi economici dei soci, all’uopo prevedendo: sanzioni pecuniarie, interdittive, la confisca, la pubblicazione della sentenza (art. 9);
- ha esteso l’applicazione dei principi generali in materia penale, di legalità e di efficacia delle leggi nel tempo e nello spazio.
L’unica nota di distacco, rispetto ai procedimenti a carico delle persone fisiche, è la impossibilità per il danneggiato di costituirsi, nell’anzidetto procedimento, parte civile nei confronti dell’ente, esattamente come nei processi a carico dei minorenni.
Ovviamente, quest’ultimo tema è stato oggetto di ampi e lunghi dibattiti. Per consentire alla persona offesa da reato di costituirsi parte civile nei confronti dell’ente responsabile, parte della dottrina ha ritenuto applicabile il suddetto istituto in forza del richiamo espresso fatto proprio dall’art. 34 del decreto in esame, che testualmente recita: “Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”. E, facendo leva, sulla natura penale della responsabilità degli enti, ha ipotizzato una applicazione diretta dell’art. 74 c.p.p., che prevede l’esercizio dell’azione civile nel processo penale “..nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”, in quanto “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui” (art. 185, co. II, c.p.).
Orbene, i Giudici di Legittimità, con una pronuncia del 22/01/2011, n. 2251, hanno posto fine ad ogni incertezza, chiarendo che “nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente, non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal D. Lgs. N. 231 del 2001 e l’omissione non rappresenta una lacuna normativa, ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore”.(cfr. Cass., sez. 6 Penale, 22/01/2011, n. 2251).
Non trattandosi, quindi, di una lacuna normativa non è consentita neppure una applicazione in via analogica delle suddette norme.
La S.C. ha precisato, altresì, che “il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano gli illeciti da cui deriva la responsabilità dell’ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse e del vantaggio che l’ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere…” “…solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo….” … “che risponde autonomamente dell’illecito “amministrativo””.….“Di conseguenza, se l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un’applicazione dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al “reato” in senso tecnico”.
Sicchè deve convenirsi con chi esclude che nel processo de quo “..possa avere ingresso una azione civile nei confronti dell’ente: per ritenere che il giudice competente a conoscere l’illecito dell’ente sia anche competente a conoscere i danni da esso sarebbe stata necessaria una previsione espressa”.
La scelta del legislatore ha una spiegazione di natura anche sostanziale. Non è, invero, individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato.
Se così non fosse si potrebbe incorrere nel rischio di “duplicazione del risarcimento”.
Non dimentichiamoci, comunque, di dire che il danneggiato dal reato ha sempre la possibilità di far valere i propri interessi dinanzi al giudice civile e può citare l’ente come responsabile ex art. 83 c.p.p..
Questa la portata della norma in esame.
E’ evidente che l’aver ampliato la responsabilità ha indotto “forzatamente” i soci delle società, che non possono più considerarsi estranei al procedimento penale, per i reati commessi nell’interesse e a vantaggio dell’ente, ad attivare effettivi controlli sulla regolarità e legalità dell’operato sociale, al fine, di natura meramente economica, di prevenire la commissione di quelle condotte illecite dalle quali discenderebbe una diretta responsabilità penale dell’ente medesimo.
Ed è ancor più evidente che solo con la introduzione di una norma capace di colpire direttamente il patrimonio degli enti e di riflesso anche quello dei soci, il legislatore è riuscito a “sensibilizzare” i soggetti che ricoprono una funzione di organizzazione e gestione all’interno della società, responsabilizzandoli.
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Una volta stabilito che la responsabilità dell’ente si struttura sulla colpa di organizzazione nella prevenzione e protezione dell’azienda dallo specifico rischio della commissione di un reato della specie di quello legislativamente previsto, esaminiamo, seppur schematicamente, quando l’ente è responsabile, quale è l’attività che deve porre in essere, al fine di evitare la commissione dei suddetti reati e la prova che su di esso incombe per andare esente da responsabilità.
Gli articoli di riferimentosono il 5, il 6 e il 7.
L’art. 5 prevede la responsabilità dell’ente per i reati commessi sia da soggetti che rivestono funzioni apicali della società,sia da quelli sottoposti alla direzione o alla vigilanza dei primi. L’ente andrà esente da responsabilità solo allorché, ai sensi del successivo articolo 6, venga data la prova, (VI E’ UNA INVERSIONE DELL’ONERE DELLA PROVA) da parte dell’organo dirigente, di aver adottato tutti gli strumenti idonei a prevenire il rischio della commissione del reato e non siano state volontariamente disattese le regole di diligenza o omesse determinate condotte, nella gestione e nel controllo dei soggetti sottoposti a tale organizzazione; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo a ciò preposto.
L’organo a ciò deputato dovrà, invero, preliminarmente individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati. Attività questa non dissimile da quella già disciplinata dal d.lgs. N. 626/94, in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro, che prevede che il datore di lavoro adotti ogni provvedimento per garantire la incolumità dei lavoratori, procedendo alla analisi dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro; alla predisposizione di una relazione sulla valutazione dei rischi suddetti; alla individuazione delle misure di prevenzione.
Il procedimento, per prevenire la commissione dei reati all’interno dell’ente, non si differenzia molto da quello appena descritto. In quanto, l’organo dirigente dovrà effettuare un’analisi idonea ad individuare la fonte della possibile attività criminosa e a formare un modello di organizzazione che prevenga o scopra le eventuali infrazioni.
La complessità e i costi della procedura da seguire,per la individuazione, prima, delle attività a rischio, in cui possono essere commessi reati,e la formazione, poi, del modello suddetto, dipenderanno dalle dimensioni della organizzazione aziendale; dall’assetto societario; dalla natura della attività esercitata; dalla circostanza che i suddetti enti operino utilizzando finanziamenti pubblici.
Una volta individuate le fonti di pericolo, ovvero le aree a rischio connesse, ripetesi, all’attività svolta dall’ente, si procederà alla elaborazione di un protocollo con la diligenza richiesta, al fine di programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire.
Aggiungasi, infine: se un modello risulta essere efficiente, mentre i soggetti, al suo interno e preposti alla direzione, non lo sono, questi saranno sottoposti ad azione di responsabilità e soggetti alla applicazione di sanzioni pecuniarie, alla sospensione dalla gestione, alla revoca.
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Posto che l’adozione del modello è facoltativa, l’amministratore diligente, in ossequio al principio della corretta amministrazione, dovrà porre al riparo da conseguenze negative la società da lui gestita.
Qualunque società o ente, che tragga vantaggio dalla commissione della condotta delittuosa o abbia interesse, è esposta a rischio, finanche le imprese individuali “devono ritenersi incluse nella nozione di ente fornito di personalità giuridica utilizzata dall’art. 1, comma secondo, D. Lgs n. 231 del 2001 per identificare i destinatari delle suddette disposizioni”. (cfr. Cass. Pen., sez. 3, 20/04/2011, n. 15657).
Pertanto, ogni ente dovrebbe opportunamente adottare il modello richiesto dalla norma.
Sono esonerati dall’applicazione del decreto de quo soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici. (cfr. art. 1,d. lgs. 231/01, u.c.)
A tal proposito, al fine di eliminare ogni dubbio quanto ai soggetti cui la norma si riferisce, è bene specificare che sono imputabili anche le società costituite per la gestione di servizi pubblici attraverso società partecipate da capitale pubblico (c.d. società miste), indipendentemente dalla funzione chiamate a svolgere, ciò che conta è che la società sia costituita sotto forma di impresa per l’esercizio di un’attività economica, al fine di dividerne gli utili.
La società capogruppo risponderà ai sensi del D. Lgs. 231 del 2001 “per il reato commesso nell’ambito dell’attività controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della “holding”, perseguendo anche l’interesse di quest’ultima”. (cfr. Cass. Pen. 24583/2011)
Non è superfluo richiamare una sentenza della S.C., del 21.07.2010 n. 28699, che aveva ritenuto responsabile ex 231 un ente ospedaliero, operante in forma di s.p.a. “mista”, nonostante la natura di “rilievo costituzionale” dal medesimo ente esercitata, precisando che: “..non può confondersi il valore – pur indubbiamente di spessore costituzionale- della tutela della salute con il rilievo costituzionale dell’ente o della relativa funzione, riservato esclusivamente a soggetti (almeno) menzionati nella Carta Costituzionale (e su ciò dottrina costituzionalistica e giurisprudenza sono pacifiche); né si può qualificare come di rilievo costituzionale la funzione di una s.p.a., che è pur sempre quella di realizzare un utile economico” in quanto “supporre che basti – per l’esonero dal D.lgs. n. 231 del 2001 -la mera rilevanza costituzionale di uno dei valori più o meno coinvolti nella funzione dell’ente è opzione interpretativa che condurrebbe all’aberrante conclusione di escludere dalla portata applicativa della disciplina un numero pressocché illimitato di enti operanti non solo nel settore sanitario, ma in quello della informazione, della sicurezza antinfortunistica e dell’igiene del lavoro, della tutela ambientale e del patrimonio storico e artistico, dell’istruzione, della ricerca scientifica, del risparmio e via enumerando valori (e non funzioni) di rango costituzionale”.
Sempre ai fini della suddetta imputabilità, sarà, altresì, necessario che i soggetti autori del reato presupposto non abbiano agito per un fine esclusivamente personale o comunque estraneo a quello istituzionale dell’ente.
La ratio ispiratrice del D.Lgs. n. 231 del 2001 è quella di “evitare che l’ente venga coinvolto nelle azioni illecite degli amministratori e soggetti equiparati in qualità di responsabile di questi illeciti mentre in realtà può risultarne soltanto una vittima: circostanza che si verifica quando l’ente è utilizzato come schermo dietro al quale agiscono soggetti che utilizzano la compagine sociale come semplice strumento per fini personali”. (Cass. Pen. Sez. II, 10.04.09 n. 15641)
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Occupiamoci ora dei reati contemplati come “presupposto” dal decreto, dalla cui commissione origina la responsabilità degli enti cui la norma si riferisce, focalizzando la nostra attenzione, per esigenze di ordine pratico, solo sulle fattispecie delittuose che meritano particolare interesse.
Oltre a reati di natura colposa, quali l’omicidio e le lesioni gravi o gravissime, commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25 septies), la maggior parte dei reati “presupposto” ha natura dolosa.
Per la portata degli interessi coinvolti, analizzeremo, soprattutto quelli commessi ai danni della Pubblica amministrazione.
Le prime fattispecie delittuose sono quelle di cui all’art. 24 del decreto 231/01, ovverola indebita percezione di erogazioni, la truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e la frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico.
Con l’inserimento, tra i reati “presupposto”, di quelli appena citati, il legislatore ha conferito maggiore efficacia all’azione di contrasto al c.d. fenomeno delle “frodi nelle sovvenzioni”. Le norme del codice sostanziale (’art 316 bis, 316 ter, 640 e 640 bis e ter) mirano, da una parte, ad impedire che, una volta conseguita la sovvenzione pubblica, venga “eluso il vincolo di destinazione”e, dall’altra, a tutelare la corretta formazione della volontà della pubblica Amministrazione e della Comunità Europea, nel decidere liberamente a chi erogare le risorse economico-finanziarie appartenenti ad enti statali o sovranazionali.
Presupposto della norma di cui all’art. 316 bis c.p. è che le somme, ricevute a titolo di contributo o finanziamento, siano destinate a realizzare opere o attività di interesse pubblico. Rientrano tra queste, per esempio, le attività connesse al progresso nel campo della ricerca medica, all’aggiornamento professionale dei medici, alla applicazione delle novità scientifiche, atteso che suddette attività sono destinate a vantaggio della collettività. (Cass. 9.7.88 n. 28429)
La ratio delle successive disposizione contemplate dall’art. 24 del decreto è identica, ovvero quella di tutelare il buon andamento dello Stato e degli enti pubblici in generale, affinché le suddetta somme non vengano utilizzate per finalità diverse dallo scopo di destinazione,si pensi semplicemente ai corsi di formazione per l’avviamento al lavoro.
Considerato che ogni piccolo imprenditore, per l’esercizio della propria attività, usufruisce delle sovvenzioni statali o comunitarie, è bene che rifletta sulla opportunità di adottare il modello di cui al decreto, in quanto ciò lo metterebbero al riparo da eventuali condotte delittuose commesse nell’interesse dell’impresa o che rechino vantaggioanche a questa.
Non è, infatti, raro il caso di chi utilizzi i suddetti contributi, falsificando la documentazione necessaria per ottenerli, per risanare i debiti della società o per scopi personali.
In questa ultima ipotesi, la S.C., con pronuncia del 20/12/05, n. 3615, ha ritenuto responsabile una società ex d. lgs. 231/2001, per avere il suo amministratore unico distratto la terza rata, delle somme erogate dal Ministero delle attività produttive, sui conti personali, così consumando il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ex art. 640 bis c.p…
Nel caso in esame la ricorrente deduceva:1) “la violazione dell’art. 640 bis c.p., perché era stata applicata una norma di legge introdotta con il D.Lgs n. 231 del 2001, ad una fattispecie criminosa perfezionatasi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore….perchè la percezione della terza rata costituiva esecuzione di una condotta postfatto nell’ambito di un reato unico”; 2) la violazione dell’art. 5 del D.L.gs n. 231 del 2001, difettando il vantaggio beneficiato dalla persona giuridica, “dal momento che le somme erogate erano state distratte su conti personali dell’amministratore, senza che il suo profitto ridondasse in vantaggio anche della società”.
Sul primo motivo, ritenuto infondato, la S.C. osservava che “nella fattispecie in esame, di truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi la cui erogazione sia rateizzata periodicamente nel tempo”… si verte in tema di “reato a consumazione prolungata”…”ne discende che il momento consumativo coincide con la cessazione dei pagamenti..”. conseguentemente, riteneva legittima la misura cautelare applicata, ovvero quella di cui all’art. 13 del decreto, che prevede la esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi e sussidi, oltre alla revoca della terza rata del mutuo.
Anche il secondo motivo di doglianza veniva rigettato.
La Corte, preliminarmente, rilevava “incontestati i gravi indizi di colpevolezza e non eccepita l’inesistenza della c.d. colpa dell’organizzazione (il cui onere, per atti compiuti dai vertici aziendali, è invertito a carico dell’ente: art. 6 decreto citato), per effetto della presenza di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi. Riteneva, poi, sussistente il requisito oggettivo dell’interesse o del vantaggio dell’ente, condizione di applicabilità della sanzione,in quanto “il momento realizzativo del profitto coinciderebbe pur sempre con l’accreditamento alla società delle somme del Ministero dell’Industria, produttivo dell’oggettivo e contabilmente verificabile introito nelle casse sociali del contributo pubblico. Ciò che avviene dopo resta perciò condotta “post factum”- suscettibile eventualmente di integrare un’eventuale appropriazione indebita da parte dell’amministratore (o anche dei soci)- senza elidere il dato storico del profitto già conseguito dall’ente.”… “Se dunque il contributo pubblico sia entrato materialmente nel patrimonio sociale, confondendosi con le altre risorse pecuniarie, si è verificato il vantaggio oggettivo della società, che storicamente ha visto, per un lasso più o meno lungo di tempo, incrementata la sua ricchezza.”
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Da quanto esposto è bene ribadire che tutte le società, anche le piccole imprese, dovrebbero assumere il modello di organizzazione previsto dalla norma: sia le imprese che operano con la Pubblica Amministrazione – atteso che l’art. 38 del codice degli appalti prevede: “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti:..” lettera “m) nei cui confronti è stata applicata la sanzione interdittiva di cui all’art. 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo dell’8 giugno2001 n. 231….”– sia tutte le altre, anche perché i reati“presupposto” sono molteplici e in continuo aggiornamento.
La l. 190/212 ha introdotto, all’art. 25 del decreto, il reato di “Induzione indebita a dare o promettere utilità” e, alla nuova lettera s-bis dell’art. 25 ter, il reato di “corruzione tra privati”.
Ancora, il D.L. 14 agosto 2013 n. 93 ha inserito all’art. 24 bis, nel reato di frode informatica, l’aggravante della sostituzione dell’identità nei cataloghi digitale, aggiungendo i reati di indebito utilizzo, falsificazione, alterazione e ricettazione di carte di credito o di pagamento, i reati in materia di violazione della privacy, di falsità nelle dichiarazioni e notificazioni al Garante e di inosservanza dei provvedimenti del Garante.
Elencazione dei reati “presupposto”:
reati contro la Pubblica Amministrazione: indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico (art. 24);
delitti informatici e trattamento illecito di dati (art. 24 bis);
delitti di criminalità organizzata (art. 24 ter);
reati di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione (art. 25);
reati in materia di falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento (art. 25 bis);
delitti contro l’industria e il commercio (art. 25-bis.1);
reati societari (art. 25 ter);
delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 25 quater);
pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 25-quater.1);
delitti contro la personalità individuale (art. 25 quinquies);
abusi di mercato (art. 25 sexies);
omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25 septies);
reato di ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 25 octies);
delitti in materia di violazione del diritto d’autore (art. 25 nonies);
Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 25 decies);
reati ambientali (art. 25 undecies);
impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (art. 25 duodecies);
delitti tentati (art. 26).