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Con la decisione della quinta Sezione, n. 5561 del 27 luglio 2021 il Consiglio di Stato puntualizza l’obbligo di programmazione degli acquisiti.

Introduzione

Il 27 luglio 2021 il Consiglio di Stato, con la decisione della quinta Sezione n. 5561 ha sintetizzato un importante principio: quello dell’obbligo di programmazione degli acquisiti.

Non si tratta di un principio interpretativo come quelli enunciati dall’Adunanza Plenaria, tuttavia, la decisione in esame si distingue innanzitutto per la sintesi – ed in un certo senso, anche l’esegesi dell’obbligo di programmazione degli acquisti.

Inoltre, la pronuncia presenta il principio sotto una diversa luce.

Sarebbe facile osservare che l’obbligo di programmazione costituisce una declinazione, ben percepibile, del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; tuttavia, il Consiglio di Stato pone l’accento anche sulle conseguenze derivanti dalla mancanza di programmazione e, in tal modo, sfiora i tasti della tutela della concorrenza e del divieto di frammentazione delle gare pubbliche. Così, l’obbligo di programmare gli acquisiti assume una connotazione di vero e proprio onere per le amministrazioni – e non solo di indicatore di una buona capacità gestionale dell’ente pubblico -.

La decisione in commento – per la verità, tanto breve quanto incisiva -, quindi, si presta ad un fluire di commenti che si innestano proprio su questo “switch” del concetto di “programmazione”, da “indice di buona amministrazione” a vero e proprio “obbligo”.

Viene, a questo punto, da chiedersi anche quale sia la ricaduta pratica di questo principio e – nel fare ciò – si deve necessariamente partire dalla qualificazione dell’obbligo di programmazione: cioè, ad esempio, se si tratti di un obbligo di natura pre-contrattuale (quindi, risarcibile nei termini di questa tipologia di responsabilità), oppure se si verta in tema di responsabilità amministrativa (con le conseguenti ricadute in tema di responsabilità erariale).

Nelle riflessioni che seguiranno, si cercherà di dare conto dell’evoluzione motivazionale dei giudici di primo e di secondo grado, che si sono confrontati su questo tema e – senza pretesa di esaustività –, si anticipa che sembra potersi ricondurre l’obbligo di programmazione ad un principio immanente nel sistema dei contratti pubblici – cui seguirebbe presumibilmente una responsabilità pre-contrattuale in caso di inosservanza -.

A conforto di questa tesi si aggiunge la (successiva) Delibera ANAC n. 628 dell’8 settembre 2021 con la quale – pur in una fattispecie diversa di affidamento in prorogatio -, l’Autorità ha affermato la contrarietà alle norme in materia di appalti pubblici dell’affidamento di un servizio, reiterato senza procedura competitiva, frazionato artificiosamente al fine di rimanere al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria e “viziato” da assenza di programmazione.

  1. La sentenza del TAR Toscana n. 1495/2020 …

Per meglio comprendere la portata della decisione in esame, è opportuno partire dalla sentenza impugnata che vi ha dato origine.

Si tratta, nello specifico della sentenza del TAR Toscana 23 novembre 2020, n. 1495. Con tale pronuncia, il Tribunale di prime cure aveva stabilito che era legittimo il comportamento di una stazione appaltante (il Ministero della Giustizia) che aveva deciso di non invitare ad una gara l’impresa uscente (poi ricorrente ed appellante), alla gara indetta per l’affidamento, sostanzialmente, del medesimo servizio sinora svolto dall’impresa stessa.

La stazione appaltante aveva – in tal modo – dato applicazione al principio di rotazione, ma la ricorrente aveva obiettato che la nuova gara così indetta – tramite procedura negoziata – era frutto di una mera erroneità nella programmazione delle esigenze della stazione appaltante e, quindi, illegittima.

In altre parole, la ricorrente contestava che il nuovo affidamento costituiva ipso facto una parcellizzazione artificiosa – e vietata – della realistica esigenza di acquisto del servizio; la stazione appaltante, infatti, voleva in tal modo acquisire le prestazioni di vigilanza armata per gli uffici giudiziari di Prato per un periodo di venti mesi e, tale durata, sarebbe stata indicata al solo fine di poter fruire della procedura di acquisito semplificata.

A ben vedere, infatti, non vi sarebbe stato alcun altro motivo per scegliere una durata di venti mesi, giacché il servizio richiesto è per sua natura continuativo e non subisce effetti limitativi nel tempo (ad esempio, per chiusure estive, ecc.) giacché il Tribunale era aperto tutto l’anno. Secondo la ricorrente, sarebbero bastati venti giorni in più per far scattare la soglia – limite di importo, oltre la quale non è più ammissibile l’utilizzo della procedura negoziata.

Di conseguenza, in luogo della procedura negoziata – cui accede il principio di rotazione – si sarebbe dovuto provvedere alle esigenze di acquisto della stazione appaltante mediante una gara aperta, alla quale – dunque – ben avrebbe potuto partecipare anche la società ricorrente. Da qui, l’interesse di quest’ultima ad impugnare la gara.

Il TAR Toscana, però, respinge il ricorso, così obbligando l’impresa ad interporre appello.

La motivazione del TAR Toscana, espressa nella sentenza n. 1495/2020, è interessante perché – a suo tempo – aveva dato ai commentatori il destro di immaginare orizzonti sconfinati alla libertà di programmazione della stazione appaltante, valorizzando al massimo la discrezionalità attribuita a quest’ultima nella programmazione dei propri acquisiti.

Il Tribunale Amministrativo, in realtà, non si era limitato ad attestarsi sul “principio di ampia discrezionalità”, ma aveva dedotto che la durata temporale scelta dalla stazione appaltante fosse coerente – quanto meno – con le scelte sinora operate dalla stessa, giacché anche le gare precedenti erano state indette per durate di tempo analoghe o addirittura inferiori.

La scelta dei “venti mesi”, quindi, appariva coerente – se non sotto l’aspetto “logico” –, quanto meno in senso “storico”.

E così, il TAR Toscana argomenta: “… se ne deve dunque inferire che la stazione appaltante abbia ritenuto, nell’esercizio della propria insindacabile discrezionalità, il periodo mediamente annuale di durata del servizio, quello meglio rispondente alle proprie esigenze; viceversa, nella fattispecie non ricorrono elementi dai quali desumere che la durata temporale dell’appalto sia stata ristretta in modo disfunzionale o irragionevole e con il solo scopo di sottrarlo all’ambito di applicazione delle disposizioni del codice dei contratti relative alle soglie europee;”.

Ma il passaggio cruciale della sentenza è quello immediatamente successivo, dove sembra enunciarsi un principio forse troppo generale (o generico) per poter resistere alla verifica di logicità e buon andamento dell’azione amministrativa: “… d’altro canto, non è previsto dalla legge, con riguardo a tale specifica determinazione, un particolare onere motivazionale, la cui imposizione a carico delle stazioni appaltanti sarebbe in contrasto con il principio di semplificazione;”.

Dunque, secondo il Tribunale di merito, la semplificazione delle procedure di acquisito – auspicata e sancita dal Codice dei Contratti pubblici – è lo snodo amministrativo che consente alle stazioni appaltanti di poter gestire le proprie esigenze “liberamente”, cioè di fatto senza esprimere particolari motivazioni.

Il TAR Toscana, quindi, distilla il principio secondo il quale le esigenze di acquisto dell’Amministrazione rientrano anch’esse nell’alveo – assai ampio – della discrezionalità amministrativa.

Le stazioni appaltanti, quindi, non trovano nel Codice dei Contratti pubblici uno strumentario per dare attuazione alle loro esigenze, ma – al contrario – hanno (astrattamente) la libertà (rectius, la “discrezionalità”) di poter decidere di adeguare le loro esigenze a questo o a quello strumento/tipologia di gara, senza particolare necessità di motivazione.

Ebbene, la ricorrente dissente da questa rappresentazione e obietta che, se portata ad estreme conseguenze, frustrerebbe proprio i principi di buon andamento dell’azione amministrativa che pervadono l’intero codice dei Contratti pubblici. Ma non solo: il criterio di “massima discrezionalità” si scontrerebbe sia con il principio di trasparenza (immanente nell’attività amministrativa e, comunque, sancito sin dalla Legge n. 241del 1990), sia con un altro baluardo del sistema degli acquisiti pubblici: il principio di concorrenza – che si declina, fra l’altro, anche come divieto di frammentazione degli appalti -.

E che le scelte di acquisto dell’Amministrazione debbano soggiacere ad una rigorosa programmazione, infatti, è ben evidente nel settore dei lavori pubblici; qui, infatti, il Decreto Legislativo n. 50 del 2016, anche alla luce delle recenti riforme in termini di semplificazione, si connota proprio per la centralità della progettazione e per l’utilizzo (sempre più esteso) del sistema BIM con il quale è possibile valutare anticipatamente possibili criticità e così prevenire ex ante il ricorso alle (dispendiose e complesse) varianti.

Di fronte a tale scelta del legislatore per i lavori pubblici, avrebbe una strana dissonanza una scelta diametralmente opposta per i servizi e le forniture, lasciate alla “discrezionalità programmatoria” delle diverse stazioni appaltanti.

Se, infatti, è certamente più intuitivo abbinare un progetto ed un quadro economico all’esigenza di un’Amministrazione di dotarsi di un’opera pubblica, altrettanto si dovrebbe ipotizzare per l’acquisizione di servizi (e, auspicabilmente, anche di forniture) – soprattutto se si tratta di servizi caratterizzati da esigenze di continuità (come quelli in esame) -.

Per tali servizi, infatti, è facile ipotizzare una durata pressocché “senza limite” e, quindi, appare poco giustificabile un acquisto del servizio limitato ad un periodo di tempo particolarmente breve: ciò, soprattutto, se nella Determinazione di acquisto non viene esplicitato il motivo di tale scelta (ad esempio, giustificandola con l’eventuale soppressione della  sede giudiziaria cui il servizio di vigilanza è dedicato).

  • … e la decisione in appello del Consiglio di Stato, n. 5561/2021

Come è stato anticipato, la ricorrente – non soddisfatta della pronuncia in prime cure – ha interposto appello e, in tale sede si premette subito che il Consiglio di Stato ha ribaltato completamente la sentenza impugnata.

Il Collegio, infatti, ha affermato che “…è illegittima la determinazione a contrarre che non contiene alcuna esternazione delle ragioni idonee a giustificare il frazionamento dell’appalto su base temporale, limitandosi a rappresentare la necessità del rispetto del principio di rotazione e di garantire la continuità del servizio”.

Dunque, il Consiglio di Stato ha valorizzato le fasi prodromiche della gara, quelle in cui si decide quali sono le realistiche esigenze della stazione appaltante e, di conseguenza, si procede all’indizione della procedura concorrenziale.

La scelta della tipologia di gara, quindi, è quella che garantisce l’approvvigionamento più consono – oggettivamente – alle esigenze della stazione appaltante, al di là di contingenze (ad esempio, temporali) che potrebbero indurre a scegliere procedure semplificate al fine di concludere prima le operazioni di gara.

Secondo il Collegio, dunque, si torna ad una riflessione “a monte”, in termini di buona organizzazione della gestione pubblica e di trasparenza nella fase decisionale che – inevitabilmente – si riflette sulla legittimità delle procedure “a valle”.

E questo è lo snodo peculiare della decisione in commento: l’illegittimità della procedura di gara prescelta è un precipitato dell’obbligo, per l’Amministrazione, di scegliere correttamente tra gli strumenti procedurali a sua disposizione, dopo aver esplicitato – con valutazione oggettiva e trasparente – le proprie esigenze.

E, così, la scelta della stazione appaltante, che nasce dal “prudente” apprezzamento del proprio programma di acquisito, fa’ diventare un obbligo la programmazione stessa: secondo il Collegio, questa è la corretta interpretazione dell’art. 21 del Codice dei Contratti pubblici.

“Programmare”, quindi, si legge non come antitesi della “discrezionalità” indicata dal TAR Toscana, ma come “obbligo di esplicitare la motivazione” per la quale tale discrezionalità è stata spesa.

Dunque, un invito ad una sorta di endiadi che potrebbe essere riassunta con l’espressione “discrezionalità funzionale” o “discrezionalità programmata”, il che – a ben vedere – non è un concetto nuovo, solo che si pensi alla programmazione (ad esempio) degli acquisiti di forniture in ambito sanitario.

Ciò non significa – si badi – che l’obbligo di programmazione non possa essere disatteso (ad esempio, ove sia necessario acquistare servizi di natura eccezionale, o in quantità diverse da quelle programmate/programmabili), ma certamente, nei casi come quello attenzionato dal Collegio, la motivazione deve essere esplicitata.

Del resto, sempre mutuando l’esempio della disciplina degli acquisti sanitari, si comprende che la programmazione è la formula migliore per garantire – da un lato – economie di scala e – dall’altro lato – la fruizione dei servizi acquistati con una giusta periodicità/costanza, per consentire serenamente la predisposizione della successiva gara di affidamento. Oltre a ciò, soprattutto nei servizi in cui non si ravvede la prospettiva di particolari innovazioni (come nel caso esaminato), la programmazione a lungo termine garantisce anche una migliore conoscenza delle esigenze specifiche del servizio (ad esempio, nel caso di specie, per la modulazione degli orari della vigilanza), con un conseguente miglioramento della qualità dello stesso.

Diverso, ad esempio, sarebbe il caso di taluni peculiari servizi – anche quelli “ad alta intensità di manodopera”, nei quali (per definizione) l’aspetto “tecnico” è apprezzato meno di quello riferito al “personale” – in cui – nel corso del tempo – sorgono esigenze legate ad innovazioni tecnologiche non ipotizzabili nel breve termine. E’ questo il caso, di taluni servizi di pulizia in cui – per dare seguito ad apprezzabili esigenze ecologiche – sono state richieste novazioni afferenti l’uso di prodotti, o macchinari connotati da una impronta più “green”.

Tanto a dire che anche la programmazione – intesa come obbligo legato alla specificità dei vari servizi – può essere oggetto di una più che legittima “revisione”, ma – come ricorda il Consiglio di Stato con la decisione in commento – tale evenienza deve trovare una trasparente e logica motivazione all’interno della Determinazione di indizione della gara.

Il Collegio, nell’esaminare l’appello, nota che: “Il primo motivo di appello si articola in due punti; anzitutto viene dedotta l’assenza della programmazione biennale ai fini degli acquisti di beni e servizi (di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 ed agli artt. 6 e 7 del d.m. 16 gennaio 2018, n. 14) criticandosi la sentenza per omessa pronuncia al riguardo, tanto più rilevante in ragione dell’interrelazione tra assenza di programmazione e frazionamento della durata dell’appalto. La censura è fondata.”

Forse, ritenendo secondario esaminare l’eccezione relativa alla violazione del D.M. 16 gennaio 2018, n. 14 recante “Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali.” – ove, infatti, l’art. 6 parla di “programma biennale degli acquisti di forniture e servizi” e nel successivo art. 7 si tratta il tema delle “varianti” nei casi di eccezionale necessità -, il Consiglio di Stato si concentra in primis sull’interpretazione dell’art. 21 (e dell’art. 35, comma 6!) del vigente Codice dei Contratti pubblici.

In proposito, subito enuncia che “Non sussiste una giurisprudenza consolidata sull’efficacia della programmazione degli acquisiti e, dunque, sulle conseguenze dell’assenza della medesima; è però indubbio che l’art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 ne enuclea una portata obbligatoria, con un’evidente finalità di pianificazione e di trasparenza.”.

E spiega – qui entrando in dissenso rispetto al giudice di primo grado -: “Anche a postularne un’efficacia di mera programmazione, di strumento di pianificazione della spesa, con carattere cogente nei soli confronti dell’amministrazione (in termini Cons. Stato, IV, 18 febbraio 2016, n. 651), non può negarsi l’incidenza della stessa sotto il profilo dell’impiego razionale delle risorse, e dunque, per coerenza, ammettersi che la carenza di programmazione possa riflettersi sulla frammentazione degli affidamenti. Almeno in questi termini il motivo appare dunque fondato, come pure in ragione della mancata indicazione delle ragioni che consentivano (a termini dell’art. 7 del d.m. n. 14 del 2018) di effettuare servizi e forniture non inserite nell’elenco.”.

Quindi, pur riconoscendo che non esiste una norma cogente che imponga una programmazione “a lungo termine”, ovvero una norma che disponga l’obbligo di programmare l’acquisto dei servizi sulla base di una “valutazione circa il fabbisogno complessivo ed oggettivo degli stessi”, tuttavia, proprio nelle pieghe dell’art. 21 il Consiglio di Stato legge la “codificazione” di un principio immanente – di portata tanto generale che non può essere realisticamente positivizzato in una norma, ma che ugualmente deve essere utilizzato in chiave interpretativa dell’intero Codice dei Contratti -.

Tale interpretazione, in realtà, era già stata formalizzata dallo stesso Consiglio di Stato – in sede consultiva – quando si era pronunciato in relazione (appunto) al D.M. n. 14/2018 (vds. parere n. 1806/2017) e, in tale sede, aveva evidenziato la necessità di una accurata programmazione per evitare i ben noti effetti di lievitazione di tempi e costi (e necessità di varianti) dei contratti pubblici – propugnando la tesi che l’accuratezza della programmazione avrebbe evitato le criticità della fase esecutiva -.

Nella stessa linea, inoltre, la L. n. 11/2016 (contenente la delega per la emanazione del vigente Codice dei contratti pubblici), delineava un apparato di centralizzazione degli acquisti e di professionalizzazione dei relativi organi deputati all’approvvigionamento delle stazioni appaltanti, immaginando una programmazione iniziale che si sarebbe dovuta tradurre in una migliore funzione (interna ed esterna) di controllo.

Si tratta di una declinazione “pragmatica” dei principi di trasparenza e buon andamento dell’Amministrazione che – sebbene solo con particolare riguardo ai lavori pubblici ed ai servizi e forniture con “orizzonte biennale” – sono stati positivizzati proprio nel D.M. 16 gennaio 2018, n. 14.

Ma non appare corretto – in una lettura costituzionalmente orientata – ridurne la portata alle sole fattispecie indicate nel medesimo Decreto Ministeriale: si tratta, infatti, di principi dotati di evidente vocazione generale, quindi “espansiva”.

La riprova di ciò sta nel fatto che – dissentendo da tale principio – si è, nei fatti, verificato il caso di un frazionamento sine causa dell’appalto: fattispecie non solo vietata, ma soprattutto non rispondente ad apprezzabili esigenze pratiche della stazione appaltante.

Prosegue, quindi, il Collegio, collegandosi alle precedenti riflessioni e riconoscendo: “Maggiore pregnanza assume il sub-motivo con cui si deduce l’artificioso frazionamento temporale dell’appalto, con durata di soli venti mesi, onde rimanere al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria (per soli 11.000 euro), in violazione di quanto prescritto dall’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, mentre sarebbero bastati dieci giorni in più per superare la predetta soglia; peraltro appare incoerente una siffatta durata con la programmazione biennale, in quanto non è consentito che nello stesso ambito programmatorio possano coesistere due o più procedure per lo stesso servizio, ma “spezzettate”. Per l’appellante, se il bisogno è biennale, la durata del contratto deve essere almeno biennale; in ogni caso, ai sensi dell’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, il frazionamento deve essere correlato a “ragioni oggettive”, che non sono invece esternate nella deliberazione a contrarre.”.

A questo punto, si può affermare che “La fondatezza del motivo appare evidente proprio nella prospettiva da ultimo evidenziata. L’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che «un appalto non può essere frazionato allo scopo di evitare l’applicazione delle norme del presente codice tranne nel caso in cui ragioni oggettive lo giustifichino». Nella fattispecie controversa la determinazione a contrarre non contiene alcuna esternazione delle ragioni idonee a giustificare il frazionamento dell’appalto su base temporale, limitandosi a rappresentare la necessità del rispetto del principio di rotazione e di garantire la continuità del servizio.”.

Appurato, quindi, che non vi è una norma positiva ad imporre la programmazione, ma vi è comunque un principio immanente che pervade l’intero settore degli appalti pubblici – che non può essere pretermessa -, rimane aperto, però, il tema della “discrezionalità amministrativa”, posto alla base della decisione del TAR Toscana.

Su questo aspetto, il Consiglio di Stato sembra voler frenare (o, forse, riservare a decisioni in cui si evidenzi meglio la fattispecie) la portata innovativa della decisione in esame.

Sul punto, infatti, osserva: “In assenza di motivazione sulle ragioni del frazionamento, l’artificiosità del medesimo può essere dimostrata in via indiziaria; a tale dimostrazione concorre la prefissazione della durata del contratto a venti mesi, implicante il raggiungimento di un importo che “lambisce” la soglia comunitaria, non coerente con la programmazione biennale, e soprattutto con l’affermazione che «i servizi di vigilanza degli Uffici giudiziari sono necessari ed irrinunciabili in quanto funzionali al mantenimento di adeguati livelli di sicurezza pubblica ed all’ordinato svolgimento delle attività giudiziarie», sì da risultare illogica una durata limitata nel tempo, se non con lo scopo di non superare la soglia comunitaria, che appare dunque l’obiettivo, non dichiarato “apertis verbis”, ma evidentemente strumentale, che domina la determinazione gravata.”.

Nel caso esaminato, perciò, il vulnus riconosciuto in appello risiede nella mancanza di una esplicita motivazione che possa giustificare l’acquisizione per un periodo così breve, di un servizio potenzialmente privo di un orizzonte temporale. In casi come quello esaminato, quindi, il Collegio ritiene che la corretta interpretazione dell’art. 21 del Codice dei Contratti pubblici imponga l’espletamento di una gara aperta, per l’acquisizione di un servizio di più lunga durata – ma, soprattutto, per evitare che vi sia una immotivata limitazione della platea dei partecipanti -.

In altre parole, il Consiglio di Stato valuta che, nel caso di specie, vi sia stata una pedissequa quanto maldestra applicazione del principio di rotazione che – distorcendone il significato pro-concorrenziale – abbia, invece, comportato una preclusione alla partecipazione del ricorrente: ma senza alcuna giustificazione!

Pertanto, “In conclusione, alla stregua di quanto esposto, l’appello va accolto; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, nei limiti dell’interesse”.

  • Il “criterio indiziario” ed i precedenti nella prassi ANAC

Un interessante risvolto della decisione in esame emerge dal “criterio indiziario” che il Collegio sembra assumere nella sua argomentazione.

Secondo il Consiglio di Stato, infatti, sarebbe corretta la ricostruzione dell’appellante secondo la quale la violazione dell’obbligo di una razionale programmazione degli acquisiti da parte della stazione appaltante diventa essa stessa un vulnus dal momento in cui si riverbera in un “frazionamento della durata dell’appalto”. In questo modo, quindi, vengono uniti dallo stesso “disegno”/illegittimità due aspetti che, ab origine, sembrerebbero del tutto slegati fra loro.

Non che l’appellante abbia fornito una prova della correlazione fra la “erronea programmazione” e la scelta di adire una procedura negoziata. Però, secondo i giudici, la durata del servizio limitata a soli venti mesi e con un importo di poco sotto la soglia limite stabilita per le procedure negoziate non può che essere indice di un “frazionamento artificioso dell’appalto”.

A convincere il Consiglio di Stato non vi è solo il contrasto con il termine di programmazione dei servizi (biennale) stabilito dal D.M. n. 14/2018, ma soprattutto l’incoerenza tra la periodicità e la obiettiva necessità di dotazione del servizio – enfatizzata dalla mancanza di motivazione sul punto -.

Se il medesimo servizio fosse stato acquisito per una durata biennale, nonostante anche quest’ultima sia poco coerente con una esigenza continuativa di sorveglianza del Tribunale, probabilmente il Consiglio di Stato non avrebbe giudicato “immotivata” la scelta dell’Amministrazione ed avrebbe confermato la validità della gara – senza intravedere alcuna “artificiosità” nella scelta della durata del servizio e, quindi, senza volersi avvalere di tale espediente per poter declinare verso una procedura competitiva semplificata.

Il rilievo della decisione, perciò parrebbe potersi “confinare” alle ipotesi in cui il “rinnovo” dell’affidamento avviene in condizioni quanto meno “non adeguatamente motivate” e “infra biennali”, ma, se così fosse effettivamente, si finirebbe con lo sbarrare la strada solo ai casi (comunque, frequenti) di “brevi rinnovi” o “piccoli affidamenti” cui sovente le Amministrazioni ricorrono – anche e proprio perché si trovano alle soglie della scadenza contrattuale senza riuscire oggettivamente a proporre una adeguata programmazione sulla quale costruire il nuovo affidamento -.

Ciò, però, apparirebbe distonico in un periodo congiunturale come quello attuale, in cui il mercato dei contratti pubblici è una delle più elogiate leve di ripresa economica.

In tale contesto, il pericolo di restrizioni alla concorrenza è veicolato – soprattutto nei settori ad alta intensità di mano d’opera – proprio dal frazionamento degli acquisti funzionale a non superare le soglie. Per tale motivo, correttamente il Legislatore (basti pensare solo alle recentissime modifiche introdotte con il “Decreto Semplificazione bis”), dove ha inteso incentivare l’uso delle procedure semplificate, ha indicato puntualmente le soglie e contingentato la situazione emergenziale a strette tempistiche.

Tuttavia, la decisione in esame sembra potersi anche esportare in un contesto più ampio, quando sottolinea – forse non con particolare incisività, per non entrare nel merito della “discrezionalità amministrativa” – la centralità della programmazione degli acquisiti sotto l’aspetto della “razionalità e trasparenza amministrativa”.

In questo modo, infatti, questa pronuncia può essere evocata in tutti quei casi in cui si verte in materia di “dimostrazione in via indiziaria” di un illecito comportamento da parte delle stazioni appaltanti – che si palesa anche in un utilizzo “sine causa”, o illogico, o semplicemente “astratto” di uno strumento astrattamente idoneo.

A ben vedere, quindi, la decisione in esame si pone quale esempio rafforzativo di quell’onere motivatorio – e, a questo punto, anche “lungimirante” – che deve presiedere ad ogni decisione dell’Amministrazione, anche nei casi in cui essa agisce utilizzando correttamente gli strumenti a disposizione – ma dimostra così facendo, di aver sbagliato obiettivo -.

Dal canto suo, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione ha a più riprese anticipato questo sentiment, addirittura in vigenza del precedente D.Lgs. n. 163/2006 – meno attento al tema della programmazione, rispetto al vigente Codice dei contratti pubblici -; in particolare, con la Determinazione n. 5/2013 l’AVCP ha posto all’attenzione le “Linee Guida su sulla programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture”, dalle quali è stato tratto gran parte del materiale poi confluito nel citato D.M. n. 14/2018.

In tali Linee guida, l’AVCP insisteva sulla programmazione “a monte” degli acquisiti sottolineando che essa “non è solo un momento di chiarezza, fondamentale per la determinazione del quadro delle esigenze, la valutazione delle strategie di approvvigionamento, … ed il controllo delle fasi gestionali, ma costituisce concreta attuazione dei principi di buon andamento, economicità ed efficienza dell’azione amministrativa. (…)“ e, soprattutto, che la carenza di programmazione “dalle attività di vigilanza dell’Autorità … genera criticità, quali la frammentazione degli affidamenti, il frequente ricorso a proroghe contrattuali illegittime, l’avvio di procedure negoziate senza bando motivate dalla mera urgenza di provvedere, l’imprecisa definizione dell’oggetto del contratto con riguardo alle specifiche tecniche e/o alle quantità, la perdita di controllo della spesa.”.

Da ultimo – con la Delibera n. 628 dell’8 settembre 2021 –  l’Autorità (sebbene, come detto , in relazione ad una fattispecie diversa, di affidamento in proroga e senza gara), si avvicina alla tesi illustrata dalla decisione in commento, valutando il comportamento della stazione appaltante come “illegittimo”, sulla base del medesimo “criterio indiziario” utilizzato dal Consiglio di Stato.

Infatti, l’ANAC ha modo di osservare che “L’indagine avviata … in seguito all’esposto di alcuni consiglieri comunali rileva come la gestione degli impianti di depurazione comunali, affidata senza gara nel 2014, in quanto considerata inferiore alla soglia di 40.000 euro, è stata oggetto di ulteriori e sistematiche proroghe sino al 2020 attraverso il meccanismo del rinnovo tacito, arrivando al valore complessivo di oltre 250.000 euro. Questo è avvenuto sia frazionando illecitamente un’unica prestazione continuativa in contratti annuali, sia scorporando attività intimamente connesse alla gestione dei depuratori (smaltimento dei fanghi, lavori di manutenzione, eccetera), facendoli oggetto di separati affidamenti. “.

Anche nel caso esaminato dall’Autorità, la difesa della stazione appaltante è consistita nell’esporre le difficoltà di attribuire all’appalto una durata prevedibile, in ragione proprio della peculiarità delle prestazioni – come a dire, ad una “fisiologica” mancanza di programmazione, dettata proprio dalla natura del servizio -.

L’ANAC, però non ha condiviso tale ricostruzione e, anzi, ha affermato: “Tale modus operandi del Comune … presenta varie anomalie e solleva diverse criticità. Oltre ad essere vietato per legge il frazionamento dell’appalto, così come il rinnovo tacito del contratto, emerge la violazione dei principi di libera concorrenza, trasparenza, proporzionalità e pubblicità, stabiliti dal diritto comunitario. … Non risultano accoglibili le argomentazioni dedotte dal Comune per motivare, in deroga alle norme, la scelta di reiterare affidamenti di durata annuale allo stesso contraente, relativamente a una prestazione che sin dal principio prevedeva si dovesse estendere in diverse annualità in attesa del perfezionamento delle prescritte autorizzazioni. Nel caso specifico … il Comune doveva procedere con un contratto pluriennale congegnato con la previsione di adeguate penali per inadempimento e clausole rescissorie.”.

In conclusione, anche secondo l’Autorità Anti Corruzione, l’assenza di concreta ed idonea motivazione – anche sotto il profilo tecnico – costituisce “criterio indiziario” di una illegittimità che nasce da una errata (o assente) capacità programmatoria.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Emanuela Pellicciotti
Esperta in infrastrutture e contratti pubblici
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