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Tra le misure di sicurezza previste dall’ordinamento penale è contemplata la confisca, la quale è disciplinata dall’articolo 240 c.p. e si sostanzia nell’espropriazione delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, o ne rappresentano il prodotto, il profitto o il prezzo. Per profitto si intende l’utile economico conseguito con la commissione del reato e per prezzo, invece, il corrispettivo per eseguire il reato.

Considerata a pieno titolo tra le misure di sicurezza, che sono quei mezzi di prevenzione individuali della delinquenza finalizzati a riadattare il delinquente alla libera vita sociale, la confisca, prescindendo dal requisito della pericolosità sociale dell’autore e incentrandosi sulla pericolosità intrinseca della res, potrebbe apparire una pena accessoria o una sanzione sui generis.

Sul punto, però, è intervenuta la Suprema Corte chiarendo che “la confisca, pur differendo dalle altre misure di sicurezza, perché prescinde dalla pericolosità sociale del reo ed è diretta solo ad evitare che restino nella disponibilità di questi cose che per loro natura o per la loro attinenza al reato, possano costituire stimolo a commettere ulteriori illeciti, deve ritenersi  compresa tra le misure di sicurezza patrimoniali, tal che ad essa va applicata la disciplina dettata dalla legge per le misure di sicurezza, se non esistono precise disposizioni di deroga” (sez. VI 70/115132).

L’attuale regolamentazione dell’istituto in esame contempla ipotesi di confisca facoltativa, come regola generale, e casi di previsione obbligatoria, aventi per lo più natura sussidiaria.

La previsione della confisca facoltativa è riferita alle cose servite o destinate a commettere il reato, o alle cose che ne sono il prodotto o il profitto e in tal caso la confisca è applicabile solo con la sentenza di condanna.

E’ invece obbligatoria quando si tratti di cose che costituiscono il prezzo del reato, ovvero le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna.

Con la Legge n. 300 del 2000, il Legislatore ha introdotto un nuovo tipo di confisca, detta per equivalente, trattata dall’articolo 322 ter del codice penale, il quale fa ingresso nel nostro ordinamento proprio con il citato provvedimento normativo.

La confisca disciplinata dall’articolo 322 ter, senza dubbio, è quella che maggiormente interessa gli operatori della Pubblica Amministrazione e trova il proprio fondamento nel mancato rinvenimento, nel patrimonio del reo, del prezzo o del profitto e, quindi, nell’impossibilità di disporre la confisca di proprietà.

Il giudice ordina che la misura venga applicata su beni nella disponibilità del reo di valore equivalente a quelli sui quali sarebbe dovuta ricadere originariamente.

E’ evidente che, nel caso di specie, venga meno il nesso di pertinenzialità con il bene e che, di conseguenza, vengano estesi i confini della misura, proprio a conferma della tendenza sanzionatoria di cui si è detto prima.

Ma vediamo, nello specifico, cosa prescrive l’articolo 322 ter c.p..

Nel primo comma della norma si legge che nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale (il cosiddetto patteggiamento), per uno dei delitti di peculato, malversazione a danno dello Stato, indebita percezione di erogazione a danno dello Stato, concussione e delle varie fattispecie di corruzione è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.

Prosegue la legge, al comma secondo, statuendo che nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’articolo 321 (Pene per il corruttore), anche se commesso ai sensi dell’articolo 322 bis, secondo comma (Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri), è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’articolo 322 bis, secondo comma.

Il terzo comma, che conclude l’articolo, infine, afferma che nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.

La lettura dell’articolo in argomento evidenzia come questo equipari prezzo e profitto del reato quali oggetto di confisca e sottoponga entrambi al regime obbligatorio.

La ratio della confisca per equivalente risiede nell’impossibilità, molto spesso, di individuare il bene ottenuto dal reato, stante il fatto che tali beni vengono trasformati, distratti e reimpiegati nell’economia lecita.

In tema di confisca per equivalente, la Corte costituzionale, attraverso il pronunciato numero 97 del 2 aprile 2009, detta chiare indicazioni, le quali orientano a ritenere che la misura di cui si tratta abbia natura giuridica assimilabile a quella della pena.

La Corte, infatti, ha riconosciuto nella confisca per equivalente i tratti dell’afflittività, tipici della pena e così, testualmente, si è espressa: “E’ infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 200, 322-ter del codice penale e 1, comma 143, della L. n. 244/2007 sollevata con riferimento all’art. 117 della Costituzione in quanto la confisca per equivalente, avendo natura sanzionatoria, non opera retroattivamentee, ancora, “la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria””.

Quanto appena detto, inoltre, trova riscontro nell’articolo 15 della Legge 300 del 2000 che preclude l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente e nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in base al quale nessuno può essere punito con un pena più grave di quella prevista al momento in cui è stato commesso il fatto.

L’articolo 322 ter, ancora, risulta di particolare attualità proprio in virtù delle recenti modifiche introdotte dalla Legge n. 190/12, il cui titolo è “Disposizioni per le prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”; provvedimento emanato al fine di combattere con forza il fenomeno della corruzione e l’infiltrazione mafiosa.  

Con la legge n. 190/2012, sono state apportate alcune rilevanti modifiche al Libro del codice penale che si occupa del delitti contro la pubblica amministrazione, le quali hanno come oggetto la disciplina delle pene ac­cessorie ed i delitti dei pubblici ufficiali e dei privati contro la pubblica amministrazione.

Nello specifico, al comma 75 dell’articolo 1 del provvedimento si stabilisce che in caso di condanna, è possibile disporre l’ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l’acquisto dell’utilità) ma anche del suo profitto, estendendo, quindi, la ritenzione a beni il cui valo­re corrisponde all’utilità economica immediatamente derivante dall’avvenuto compimento del fatto illecito.

La norma così recita: “all’articolo 322-ter, primo comma, dopo le parole: “a tale prezzo” sono aggiunte le seguenti: “o profitto”.

La modifica di cui si tratta si è resa necessaria al fine di eliminare la disparità di trattamento rispetto a quanto disposto nel periodo precedente del primo comma e nel comma successivo, nei quali, già nella stesura originaria dell’articolo, era contemplato come confiscabile anche il “profitto” del reato.

L’istituto della confisca trova applicazione anche nell’ambito della responsabilità degli enti nascente da reato, istituto disciplinato dal Decreto Legislativo 231 dell’ 8 giugno 2001.

Ma analizziamo, preliminarmente e sommariamente, il provvedimento appena citato.

La ragione che ha portato alla stesura del Decreto Legislativo 231 del 2001 è quella di affiancare alla tradizionale responsabilità per il reato commesso, riferibile esclusivamente alle persone fisiche, una responsabilità delle persone giuridiche.

Il provvedimento mira, sotto il profilo penale, ad un avvicinamento delle persone giuridiche a quelle fisiche, attraverso l’applicazione di due principi fondamentali: il primo riguarda le disposizioni processuali applicabili e colloca, accanto all’osservanza delle norme specificamente dettate in materia dal capo III, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto di cui si tratta in quanto compatibili; il secondo chiarisce e specifica che all’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato.
Ciò posto, la cognizione degli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono. Non si tratta solo di un principio di economia processuale ma si mira a poter applicare agli illeciti previsti dal decreto un procedimento più incisivo per il particolare tipo di violazioni che comportano, spesso, un danno diffuso.

Il Decreto Legislativo 231/01 introduce nell’ordinamento italiano la responsabilità, impropriamente chiamata “amministrativa”, e consente di colpire il patrimonio degli enti, e quindi l’interesse economico dei soci, (direttamente tramite sanzioni pecuniarie, o indirettamente tramite, ad es., l’interdizione dall’esercizio dell’attività) che hanno tratto un vantaggio dalla commissione di determinati reati da parte delle persone fisiche che rappresentano l’ente o che operano per l’ente stesso.

La persona giuridica, tuttavia, non risponde se dimostra di avere “adottato ed efficacemente attuato” un Modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa fattispecie di quello verificatosi.

Ma concentriamo nuovamente l’attenzione sulla confisca, la quale nel provvedimento in analisi è contemplata in diverse disposizioni.

Il comma 5 dell’articolo 6 detta che “é comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”, configurando la misura come una conseguenza obbligatoria di un reato commesso da uno dei soggetti apicali, anche nel caso in cui l’ente sia esente da responsabilità.

L’articolo 15, comma 4, invece, stabilisce che ove sussistano i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dell’ente e il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, disponga la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata, “il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato”.

Ancora, l’articolo 23, comma 2, dispone che “nei confronti dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale il reato e’ stato commesso, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da duecento e seicento quote e la confisca del profitto, a norma dell’articolo 19”.

A conferma che la misura di cui si tratta trova, nel Decreto Legislativo 231/01, un’applicazione sanzionatoria e non di prevenzione, è utile la lettura coordinata dell’articolo 9, comma 1, lettera c) il quale annovera la confisca tra le sanzioni previste e dell’articolo 19, il quale stabilisce che “nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede” e proseguestabilendo che “quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

Di tutta evidenza è la circostanza secondo la quale il secondo comma dell’articolo 19 preveda la cosiddetta “confisca per equivalente”.

Sentenza chiarificatrice ed esplicativa sul punto è la n. 26654 del  2 luglio 2008, emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, per la prima volta, si sono pronunciate sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e sulla natura e differenza delle varie forme di confisca disciplinate dal decreto legislativo.

La Suprema Corte ha stabilito che l’istituto della confisca previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare”.

Sostengono i Giudici di Legittimità che per quanto concerne gli articoli 9, comma 1, lettera c) e 19 chiara è la “configurazione della confisca come sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame” mentre, con riferimento all’articolo 6, comma 5, affermano che “riesce difficile cogliere la natura sanzionatoria della misura ablativa, che si differenzia strutturalmente da quella di cui all’art. 19, proprio perchè difetta una responsabilità dell’ente”.

Con riferimento all’articolo 15, comma 4, il quale, come detto,prevede che, in caso di commissariamento dell’ente, il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività debba essere confiscato “la confisca ha natura di sanzione sostitutiva e tanto emerge anche dalla Relazione allo schema del decreto legislativo, nella quale si precisa che “è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta””.

In ultimo, sempre i Giudici di Cassazione, sostengono che “la confisca, infine, si atteggia nuovamente come sanzione principale nell’art. 23, comma 2, che configura la responsabilità dell’ente per il delitto di cui al comma 1 della stessa norma, commesso nell’interesse o a vantaggio del medesimo ente”.

Poste tali argomentazioni è lecito sostenere che si possa ingenerare una sorta di confusione interpretativa sull’istituto della confisca che, evidentemente, si caratterizza di elementi propri sia della pena sia della misura di sicurezza.

Per concludere, possiamo affermare che occorrerà indagare volta per volta circa l’intenzione del Legislatore che pone la confisca ora come pena, ora come misura di sicurezza e, ancora, possiamo ritenere con certezza che dottrina e giurisprudenza daranno vita  a nuovi confronti finalizzati a dirimere la questione.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Alessandro Faggiani
Avvocato penalista
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