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Non trova tregua l’evoluzione giurisprudenziale dell’in house providing.

La Corte di Giustizia Europea, Sez III, con la sentenza 29/11/2012, ritorna sulla definizione dei presupposti necessari per ritenere legittimo l’affidamento diretto, da parte di due o più Amministrazioni, di un appalto di servizi ad una Società mista, aprendosi a nuove forme di controllo analogo. Ma prima di entrare nel merito, si ritiene opportuno, considerata l’ampiezza e la complessità dell’argomento, iniziare l’esposizione con un breve excursus dell’istituto giuridico in esame.

L’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione: Ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato. Il modello si contrappone a quello dell‘outsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e/o fornire i beni e servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa.

Si tratta di un istituto di origine pretoria, delineato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, la quale, investita di numerose questioni pregiudiziali, ha progressivamente specificato i criteri in base ai quali può considerarsi legittimo l’affidamento diretto di appalti e servizi pubblici, in deroga al generale principio di concorrenza (implicante l’obbligo di indire ed espletare gare), come desumibile dagli artt. 43, 49 e 86 del Trattato CE, i quali impongono il divieto di restrizioni alla libertà di stabilimento, alla libera prestazione di servizi, e il divieto di emanare e mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e di quelle titolari di diritti speciali o esclusivi, misure contrarie alle norme del Trattato.

Giova considerare che si tratta di istituto elaborato proprio con l’intento di coniugare il fondamentale principio di concorrenza, con il principio di c.d. autorganizzazione, pure riconosciuto in ambito europeo in capo alla P.A.

Per effetto dell’ultimo degli indicati principi, l’amministrazione, anziché esternalizzare la realizzazione di ciò di cui ha bisogno, può attendervi in proprio, per esempio preponendo a tale scopo un ufficio, un servizio tecnico, una struttura organicamente inserita all’interno dell’ente stesso.

Il vero problema dell’in house nasce là dove questo principio di autorganizzazione è stato esteso ai casi in cui l’amministrazione intende affidare la produzione dei beni o dei servizi di cui ha bisogno non ad un ufficio, ad una direzione, ad un dipartimento, ad un servizio interni all’ente, ma ad un soggetto societario formalmente distinto dall’ente, e ciò nonostante controllato dall’ente in maniera così penetrante da potersi dire, sulla base di un approccio non attento alla diversità formale quanto alla sussistenza o meno di autonomia decisionale da parte del soggetto societario, che si tratta di un tutt’uno, una parte integrante, una proiezione organizzativa dell’ente.

Il problema dell’in house è quindi fondamentalmente quello dell’affidabilità diretta e senza gara di prestazioni a soggetti societari diversi dall’ente pubblico affidante, in apparente violazione alla normativa vigente in materia di concorrenza.

La tutela della concorrenza, infatti, si concretizza in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore, in ossequio ai princìpi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.

È nella sentenza Teckal del 18.11.1999, pronunciata nella causa C-107/98, che la Corte delinea l’istituto dell’in house. In tale arresto si giunge ad escludere l’obbligatorietà dell’affidamento tramite procedura ad evidenza pubblica quando:

  • l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato nei confronti delle proprie strutture interne (direzioni, uffici, servizi);
  • l’aggiudicatario svolga la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico controllante.

Ricorrendo entrambi i presupposti, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ritiene che sussista non un rapporto di terzietà tra Amministrazione ed aggiudicatario, ma un rapporto di delegazione interorganica in forza del quale non trovano applicazione le norme comunitarie sull’affidamento degli appalti e delle concessioni di pubblico servizio.

L’affidamento in house rappresenta una modalità, alternativa all’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici, per effetto della quale una pubblica amministrazione si avvale, al fine di reperire determinati beni e servizi ovvero per erogare alla collettività prestazioni di pubblico servizio, di soggetti sottoposti al suo penetrante controllo.

È in sostanza un modello organizzatorio per mezzo del quale la P.A. reperisce prestazioni a contenuto negoziale al proprio interno, servendosi di un ente strumentale, distinto sul piano formale, non anche alla stregua di una valutazione sostanziale, attenta all’effettiva capacità decisionale; l’“assenza di terzietà” del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, nonché, quindi, la possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo, valgono ad escludere in radice l’applicazione della normativa comunitaria in tema di procedure ad evidenza pubblica.

Esaminiamo ora il primo dei requisiti definiti nella sentenza Teckal, oggetto di continue rivisitazioni da parte della giurisprudenza comunitaria e nazionale: il controllo analogo.

Il controllo analogo viene, in un primo orientamento, inteso quale controllo di tipo strutturale operato dall’ente pubblico sul soggetto aggiudicatario: è necessario, pertanto, un assoluto controllo di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, che non possiede alcuna autonomia decisoria in relazione agli atti di gestione e che, in concreto, costituisce parte della stessa Amministrazione, con la quale deve trovarsi in una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa.

Ma quali sono i casi sintomatici dell’esistenza del controllo di tipo strutturale?

Con un primo e dirompente intervento (sentenza 11 gennaio 2005, in causa C-26/03), la Corte di Giustizia ha sostenuto la necessità della partecipazione totalitaria dell’ente pubblico di riferimento perché possa dirsi sussistente il c.d. “controllo analogo” ed ammessa, quindi, l’eccezionale deroga alle norme che impongono il ricorso alla pubblica gara.

Secondo la Corte, quindi, la presenza di una partecipazione di minoranza del socio privato fa venir meno la possibilità di configurare l’esercizio di un controllo analogo. In tal modo quest’ultimo viene a legarsi all’elemento teleologico degli obiettivi di interesse pubblico che devono essere perseguiti.

Sempre nel tentativo di definire la nozione di “controllo analogo”, la Corte di giustizia è intervenuta con una ulteriore, e non meno importante, decisione, resa nel caso Parking Brixen.

Con sentenza del 13 ottobre 2005, in particolare, la giurisprudenza comunitaria fa un ulteriore passo in avanti nel delimitare la nozione di controllo analogo, sostenendo che perché lo stesso possa dirsi sussistente oltre alla partecipazione pubblica totalitaria, è anche necessario che il soggetto pubblico, socio al 100%, abbia la possibilità di influire sulle decisioni più importanti, in specie quelle strategiche della società, abbia un potere di ingerenza nell’organizzazione della produzione del bene o del servizio. In questo caso per verificarne la sussistenza, si impone, una valutazione caso per caso, che esamini le previsioni statutarie e verifichi concretamente la presenza dei penetranti strumenti di controllo, individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.

Nel dettaglio:

– il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

– l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria);

– le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);

– il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).

Effettuato, per completezza espositiva, questo sintetico excursus sull’in house, si evidenzia come la Corte di Giustizia Europea con la citata sentenza 29/11/2012 C-182/11 abbia ritenuto legittimo anche l’ipotesi di un controllo analogo congiunto, ovvero esercitato tra più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, nei confronti di una istituita entità, incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti.

Ha preso terreno, nel tempo (vedi sentenza del 13/11/2008 C-324/07 – sentenza 10/09/2009 C-573-07), la definizione di controllo analogo di tipo funzionale accanto a quello di tipo strutturale.

Nel caso in cui più Amministrazioni abbiano costituito un Ente al quale affidare in house un servizio pubblico, il controllo di queste ultime sull’Ente può essere da loro esercitato in maniera effettiva e congiuntamente, secondo il modus operandi tipico degli organi collegiali.

Il requisito del controllo analogo, secondo questa interpretazione, non sottende più soltanto ad una logica “dominicale”, rivelando piuttosto una dimensione “funzionale”: affinché tale tipo di controllo sussista anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici partecipanti al capitale della società affidataria non è, dunque, indispensabile che ad esso corrisponda simmetricamente un “controllo” della governance societaria.

Partendo da questa struttura, la giurisprudenza, comunitaria prima, e nazionale dopo, ha inteso per controllo analogo congiunto quello che viene espletato dai soci nella loro totalità, assicurando la coerenza della struttura societaria con l’interesse pubblico.

In questo caso, il controllo analogo postula un rapporto che lega gli organi societari della società affidataria con l’Ente pubblico affidante, in modo che quest’ultimo sia in grado di indirizzare tutta l’attività sociale. Risulta, quindi, indispensabile che le decisioni più importanti siano sempre sottoposte al vaglio preventivo dell’Ente affidante o, in caso di in house frazionato della totalità degli Enti pubblici soci.

In realtà, sulla possibilità di considerare controllo analogo anche il controllo esercitato congiuntamente da parte di più autorità socie, la Corte di Giustizia si era già pronunciata nella citata decisione della Terza Sezione del 13 novembre 2008, causa C-324/07.

In tale decisione la Corte precisa che il controllo esercitato sull’ente concessionario sia effettivo, pur non risultando indispensabile che sia individuale; così, nel caso in cui varie autorità pubbliche abbiano costituito un ente al quale affidare in concessione un servizio pubblico, il controllo di dette autorità pubbliche sull’ente in parola può essere da loro esercitato congiuntamente e, in presenza di un organo collegiale, anche deliberando a maggioranza.

Nella successiva decisione della Terza Sezione del 10 settembre 2009, causa C-573/07, la Corte ribadisce che se un’autorità pubblica diventa socia di minoranza di una società per azioni a capitale interamente pubblico, al fine di attribuirle la gestione di un servizio pubblico, il controllo che le autorità pubbliche partecipanti a detta società esercitano su quest’ultima può essere qualificato come analogo al controllo che esse praticano sui propri servizi qualora esso sia esercitato congiuntamente dalle stesse.

II controllo esercitato dagli enti azionisti sulla società affidataria può essere considerato analogo a quello esercitato sui propri servizi nel caso in cui detti enti, tramite organi statutari composti da loro rappresentanti, esercitino un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti di detta società.

L’ammissibilità del controllo analogo congiunto apre la strada ad altri aspetti da esaminare affinchè l’affidamento in house resti legittimo, per esempio individuare la legittima misura della partecipazione alla società strumentale.

Quanto a quest’ultimo aspetto, può essere utile ricordare che nella sentenza della Grande Sezione del 21 luglio 2005, causa C-231/03, la Corte ha affermato che una partecipazione dello 0,97% è talmente esigua da non consentire ad un comune di esercitare il controllo su un concessionario che gestisce un servizio pubblico, anche se – va precisato – in quella occasione la Corte non ha affrontato la questione del possibile esercizio di siffatto controllo in forma congiunta.

Del resto, in una sentenza successiva (Seconda Sezione del 19 aprile 2007, causa C-295/05), la Corte ha dichiarato che, in talune circostanze, la condizione relativa al controllo esercitato dall’autorità pubblica può essere soddisfatta anche nel caso in cui tale autorità detenga una partecipazione esigua del capitale di un’impresa pubblica.

Nella fattispecie si trattava di una società il cui capitale sociale era detenuto per il 99% dallo Stato spagnolo e per il restante 1% da quattro comunità autonome, ognuna delle quali in possesso di un’azione.
A tale riguardo, la Corte ha rigettato la tesi volta ad escludere la sussistenza del controllo analogo con riferimento agli appalti commissionati dalle comunità autonome e ciò in quanto, sulla base della normativa spagnola, la società pubblica in questione era obbligata ad eseguire gli incarichi ad essa affidati da tutte le amministrazioni pubbliche socie, comunità autonome incluse, e non aveva la possibilità di negoziare il corrispettivo per le prestazioni fornite; in queste condizioni non era ravvisabile alcun rapporto di natura contrattuale e la società non poteva quindi considerarsi come un terzo rispetto alle comunità autonome.

Inoltre, va precisato che il modello dell’in house providing frazionato deve essere strumentale ad una gestione associata ed economica dell’attività prestata da diverse amministrazioni pubbliche.

Infatti, i giudici di Palazzo Spada, al fine di evitare l’abuso del suddetto modello, con la sentenza del 29/12/2009 n. 8970, hanno stabilito che il ricorso a tale istituto è legittimo laddove sussiste l’esigenza di gestire in forma associata ed economica, da parte di più amministrazioni, un servizio pubblico locale.

In conclusione, la disciplina giuridica dell’in house providing è in continua evoluzione giurisprudenziale, quindi, è necessario ancorare la verifica della sussistenza dei requisiti legittimanti il medesimo affidamento  alla valutazione complessiva delle circostanze, in fatto e in diritto, pertinenti al singolo caso di specie, evitando fuorvianti ed astratte teorie preconcette.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Angelina Martino
Esperto in materia di appalti pubblici
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