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( votes)- Introduzione.
Il D. Lgs. n. 50/2016 – ancora in vigore per i procedimenti in corso, stante il disposto di cui all’art. 226, co. 2 del D. Lgs. n. 36/2023 – prevede una disciplina peculiare in punto di modifiche contrattuali.
L’art. 106, in particolare, individua una articolata elencazione di casi tipici in cui, al verificarsi di certuni presupposti – tutti diversi a seconda della particolare tipologia concreta considerata – è consentita la modifica delle condizioni contrattuale convenute.
Lo stesso è a dire per la disposizione prevista all’art. 120 del D. Lgs. 36/2023, che pur innovando in taluni punti – coerenti con le novità introdotte dal ‘Nuovo Codice’, nei suoi tratti essenziali propone la medesima impostazione.
Limitata in questa sede l’analisi alle modifiche relative al valore monetario delle prestazioni dedotte in contratto che, come vedremo, nel D.Lgs. 36/2023 si arricchiscono pure di un ulteriore elemento di complessità ai sensi dell’art. 60, la lettura attenta delle due disposizioni ne restituisce anche la intima ratio ispiratrice: il tentativo, ad opera del Legislatore, di ridurre al minimo, e solo ai casi assimilabili a quelli legalmente previsti, la possibilità di ricorrere a modifiche contrattuali che, altrimenti, ed almeno in taluni casi, potrebbero alterare la logica stessa della evidenza pubblica. Almeno, si intende, in quei casi in cui sia possibile immaginare che le stesse modifiche finiscano per configurare una surrettizia modalità – ‘abusiva’ – di aggiramento delle condizioni offerte durante la fase di scelta del contraente.
Non avrebbe alcun senso, invero, operare secondo le disposizioni del Codice, al fine dichiarato di selezionare la migliore offerta possibile, se poi le stesse condizioni (economicamente vantaggiose, ma in ipotesi difficilmente meno sostenibili) possono essere oggetto senza limiti di nuova ‘trattativa negoziale’ con la Stazione Appaltante.
- Il meccanismo revisionale di cui all’ art. 106, co. 1, lett. a) e lett. c) del D.Lgs. 50/2016 e quello previsto all’ art. 120, co. 1, lett. a) e lett. c) del D.Lgs. 36/2023.
Le modifiche alle condizioni economiche d’appalto più significative, cui si accennava, vengono disciplinate, con riferimento alla (oramai) ‘vecchia disciplina’, all’art. 106, co. 1, lett. a) del D. Lgs. n. 50/2016, là dove si legge che le stesse sono certamente ammesse “se […], a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi.” Dette clausole, per espressa previsione normativa “fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti”, e “non apportano modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto”.
Esse vengono autorizzate dal RUP secondo le modalità proprie della stazione appaltante cui egli afferisce, in linea con l’idea di massima che il Responsabile Unico del Procedimento resta il dominus indiscusso dell’intera procedura di gara. Anche, e forse meglio dire soprattutto, in un momento tanto delicato quanto quello relativo alla modifica dei prezzi praticati per la remunerazione delle prestazioni eseguite (o da eseguire).
La stessa giurisprudenza amministrativa[1], di recente, ha avuto modo di chiarire come la disciplina puntuale prevista alla lettera a) del primo comma dell’art. 106 non vada confusa con quella – ben diversa – prevista alla lettera c) della stessa disposizione e valevole, invece, per i casi di “modifich[e] […] determinat[e] da circostanze impreviste ed imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice” alla concorrente condizione che, anche in questo caso, la modifica “non alter[i] [comunque] la natura generale del contratto”.
Difatti, in risposta alle censure di parte ricorrente, orientate nel senso di affermare che lo stesso art. 106, comma 1, lett. c) “ammett[a] comunque la variazione del contratto (anche nell’elemento prezzo) ove questa sia determinata [dalle circostanze appena menzionate]”, il giudice ha chiaramente statuito[2], che mentre la lettera a) prende in esame e disciplina le “variazioni dei prezzi e dei costi standard” – come nel caso oggetto di analisi, relativo al diniego opposto dalla Stazione Appaltante di revisione – la diversa lettera c) fa testuale ed espresso riferimento alle diverse “modifiche dell’oggetto del contratto” che si correlano alle “varianti in corso d’opera” e che “riguardano l’oggetto del contratto”, tanto sul versante dei lavori da eseguire che, con riferimento alla erogazione di servizi e di forniture, alle prestazioni da rendere.
Pertanto, in maniera chiara, si è affermato che “le modifiche dell’oggetto del contratto sul versante del corrispettivo che l’appaltatore va a trarre dall’esecuzione del contratto vanno […] sussunte nell’ambito della fattispecie di cui alla lettera a), che disciplina gli aspetti economici del contratto […] [senza che si possa ricorrere all’altra fattispecie prevista alla letta c) avente ad oggetto i casi di varianti] in corso d’opera”.
A nulla rileva, allora, in questa prospettiva, quell’argomentazione in forza della quale – forzando il dato testuale della disposizione – tenuto conto dell’ampio spettro semantico del disposto previsto alla lett. c), voglia inferirsi la conclusione che “a prescindere da ogni previsione specifica in tema di revisione prezzi, una circostanza imprevista ed imprevedibile, […] giustifica [sempre] una variazione dei prezzi contrattuali, nell’ottica di rideterminare l’equilibrio tra le prestazioni”.
Le osservazioni in parte qua svolte valgono certamente anche per la nuova disciplina del recente D. Lgs. 36/2023, contenuta al già ricordato art. 120, pur se con un’importante novità.
Difatti, se da un lato risulta confermata l’impostazione che prevede alla lett. a) e, poi, alla lett. c), due diverse ipotesi di modifica contrattuale alla concorrente condizione che “le modifiche, la struttura del contratto o dell’accordo quadro e l’operazione economica sottesa possano ritenersi inalterate”; dall’altro, assume rilievo la circostanza che la disposizione in parola apre con un chiaro riferimento – “[f]ermo quanto previsto dall’art. 60” – ad altra norma del D. Lgs. e che, per l’effetto, nel regolare i casi di cui alla lett. a) non faccia più espressamente rimando (in questa sede, come invece per il D. Lgs. 50/2016) a clausole “di revisione dei prezzi”.
Per vero, si fa riferimento, nella nuova trama normativa, ad altre clausole che, pur se “chiare, precise e inequivocabili”, possono al più consistere in diverse “clausole di opzione”.
La novità è del resto inevitabile: essa risente della scelta operata dal Legislatore del D. Lgs. 36/2023 – di cui pure si dirà nel prossimo paragrafo – di prevedere all’art. 60 un obbligo normativo, consistente proprio nell’inserimento, generale ed avulso dalla particolare disciplina delle modifiche contrattuali, di apposite “clausole di revisione prezzi” nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento, per far fronte – in ogni caso, alle condizioni previste dalla disposizione – a particolari mutamenti da cui derivi una variazione del costo delle prestazioni da rendere.
Con tale scelta, infatti, il Legislatore ha inteso concepire un meccanismo tale che, per quanto attiene almeno alla modifica quantitativa dei prezzi praticati per la commessa, la loro revisione opera obbligatoriamente e senza margini di apprezzamento dell’Amministrazione, se l’evenienza in concreto considerata coincide con quella legalmente prevista: si differenzia il modello rispetto a quello precedente, e la decisione di ricorrere ad eventuali clausole di revisione prezzi non è più qualificabile alla stregua di una (vera e propria) facoltà discrezionale rimessa alle scelte della Stazione Appaltante.
- Le clausole di revisione dei prezzi tra tautologia e chiarezza, precisione ed inequivocabilità (ed obblighi normativi).
Si è detto poc’anzi che, con riferimento al perimetro di ammissibilità delle modifiche contrattuali per così dire ‘economiche’, e avuto riguardo alle peculiarità della ‘vecchia disciplina’ di cui al D. Lgs. 50/2016, sarebbe stato quantomai necessario che le stesse non si fossero limitate ad essere previste nei documenti di gara iniziali di quelle procedure bandite già nella vigenza del Vecchio Codice, ma – aspetto ancor più interessante – esse avrebbero dovuto essere contenute “in clausole chiare, precise e inequivocabili” che, a loro volta, avrebbero potuto “comprendere clausole di revisione dei prezzi”.
Dal dato normativo si evinceva, pertanto, e con riferimento a quelle procedure oggi probabilmente in fase di esecuzione, un significativo onere di specificità posto in capo alla Stazione Appaltante, di cui la stessa avrebbe dovuto necessariamente tener conto nella fase prodromica di preparazione alla gara, al momento della redazione della relativa documentazione.
Nell’assolvimento di tale onere, alle Stazioni Appaltanti era quindi richiesto uno sforzo ulteriore che avrebbe trasceso la sola riproposizione di mere clausole di stile o di generici rimandi ‘alla legge’: dacché, e al contrario, il carattere della chiarezza, della precisione e della inequivocabilità avrebbero potuto ritenersi realmente soddisfatti solo a condizione di una attenta e assolutamente puntuale formulazione di clausole ad hoc giustificate dalla particolare natura del contratto considerato o dalla particolare condizione di operatività in cui lo stesso si dispiega.
Alle stesse conclusioni giunge il giudice amministrativo che – nella già richiamata sentenza del T.A.R. campano – affronta esattamente tale questione.
In quel caso, dopo aver escluso (come detto) che una simile casistica mai possa essere ricondotta alla diversa ipotesi della lettera c) – relativa al diverso caso delle “varianti in corso d’opera” – il giudice si confronta con la (generica) clausola prevista nel capitolato di gara che l’Amministrazione aveva previsto in materia di revisione prezzi, e nel senso che la stessa “è ammessa nei soli casi previsti dalla legge”.
Al ricorrente, che ne valorizza il contenuto (a suo dire) precettivo, in accordo con quanto previsto dall’art. 106, comma 1, lett. a) per contestare il diniego opposto alla richiesta revisionale, il giudice obietta una lettura antitetica che merita di essere riportata per le interessanti implicazioni che ne derivino.
Dopo aver precisato che “in materia di revisione prezzi nei contratti pubblici ha sempre operato una disciplina speciale che tendenzialmente restringe gli ambiti di scelta discrezionale della stazione appaltante, vincolandola a diversi presupposti sostanziali e procedurali” – come pure accennato in premessa – il giudice individua nella finalità “di garantire l’economicità dell’azione amministrativa, [insieme alla necessità] di tenere sotto controllo la spesa pubblica, nonché, in linea di continuità con il diritto eurounitario e con le correlate esigenze di tutela della concorrenza e del mercato, di evitare potenziali effetti elusivi del meccanismo della gara pubblica”; le finalità stesse che sottendono il particolare meccanismo di revisione in parola.
Fatta questa precisazione, nel confrontarsi con il contenuto della clausola proposta dalla Stazione Appaltante alla luce del dato normativo, si interroga allora sulla rispondenza di una pattuizione così concepita con quel carattere chiaro, preciso ed inequivocabile che la legge le impone.
Sgomberando il campo da ogni equivoco, la sentenza si lascia apprezzare nella misura in cui esclude categoricamente che una clausola di tal specie possa realmente ritenersi esaustiva di quelle caratteristiche che il modello legale richiede.
Si legge, in parte motiva che la stessa “[non] può essere assimilata a […] [a quella] tipologia di clausole […] attesa la sua palese indeterminatezza, che rimanda tautologicamente alle stesse condizioni previste dalla legge, le quali si sono poi rivelate nella specie insussistenti in virtù dell’inapplicabilità del citato art. 106, comma 1, lett. a)”.
La sentenza, pur nella sua ermeticità, consegna agli operatori del settore, per le procedure future, un significativo insegnamento, e suggerisce agli stessi una chiara linea d’azione: evitare che formule generiche – se non addirittura “tautologiche” – prive pertanto di un reale significato autonomo e precettivo, disseminino il contenuto della documentazione di gara e della relativa documentazione contrattuale, atteso il loro carattere assolutamente marginale (per non dire insignificante) ai fini della delicata disciplina relativa alle modifiche contrattuali. Tanto, a maggior ragione, se si considerano le affinità di disciplina di cui si è dato conto supra,per quanto attiene alle “clausole di opzione” di cui all’art. 120, co. 1, lett. a) del D. Lgs. 36/2023 riferite a tutte quelle gare ad oggi in divenire.
Lo stesso onere di specificità, invece, per le “clausole di revisione dei prezzi”, nella nuova disciplina – che, come detto, trovano collocazione in una norma peculiare di carattere generale – è da intendersi assolto per espressa previsione normativa.
La stessa legge, infatti, al comma 2 dell’art. 60 ne individua il contenuto, prescrivendone pure le condizioni di operatività.
E così, dopo aver precisato che “queste clausole non apportano modifiche che alter[a]no la natura generale del contratto o dell’accordo quadro”, il dato normativo è chiaro nell’affermare che le stesse “si attivano al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva che determinano una variazione del costo dell’opera, della fornitura o del servizio, in aumento o in diminuzione, superiore al 5 per cento dell’importo complessivo” e ancora, che esse “operano nella misura dell’80 per cento della variazione stessa, in relazione alle prestazioni da eseguire”. Senza trascurare che, come precisa la norma al comma successivo, per garantire certezza ed omogeneità, “ai fini della determinazione della variazione dei costi e dei prezzi […], si utilizzano […] [particolari] indici sintetici elaborati dall’ISTAT”.
- Il diverso riparto di giurisdizione in materia di revisione contrattuale dei prezzi.
La decisione del giudice amministrativo, oltre ad affrontare la questione della portata contenutistica delle clausole revisionali, si confronta anche con un altro – ed ulteriore – tema di vivo interesse attinente alla corretta individuazione del giudice competente, cui rivolgersi per dolersi della (asserita) lesione del proprio diritto alla revisione dei prezzi praticati in costanza di contratto.
Appurata la possibilità, ma solo alle condizioni previste dalla legge, di ricorrere agli strumenti contemplati dal Codice, potrebbe infatti prospettarsi l’ulteriore alternativa di riferirsi, per la disciplina del rapporto negoziale intrattenuto con la Pubblica Amministrazione, anche alle regole di diritto comune previste dal Codice Civile in materia di appalto.
Come è noto, invero, la fase esecutiva di esecuzione della commessa pubblica resta connotata comunque da una ineliminabile componente privatistica: per un verso, l’Operatore è messo nella stessa condizione di un qualunque appaltatore privato – salvo le deroghe di disciplina puntualmente indicate nel Codice degli Appalti – e allo stesso tempo, e per altro verso, la Pubblica Amministrazione si colloca alla stregua di un comune committente, pur se distinto per la sua intima natura pubblica, “allo stesso livello” del primo.
Su queste premesse (e al netto della correttezza di un simile incedere, qui non oggetto di analisi) non pare allora del tutto peregrina la lettura della (solita) parte ricorrente, nella misura in cui la stessa ha affermato che “ad ogni modo, l’applicazione al caso concreto dell’istituto della revisione prezzi troverebbe [anche] conforto [nella lettura dell’art. 1664] del codice civile”.
Difatti, tale disposizione “al primo comma, in caso di circostanze prevedibili che comportino un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo, prevede la revisione del prezzo per la parte eccedente il predetto decimo ed, al secondo comma, riconosce all’appaltatore il diritto ad un equo compenso, in presenza di difficoltà di esecuzione che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore”. Tutto questo, tra l’altro, “senza contare che il riequilibrio delle prestazioni contrattuali, al fine di adeguarle, anche in termini di valore economico, alle esigenze sopravvenute, sarebbe comunque imposto dal rispetto dell’obbligo di buona fede sancito negli articoli 1175, 1366 e 1375 del codice civile”.
Il tentativo di ricondurre la disciplina relativa alla revisione dei prezzi nell’ambito della disciplina di diritto comune, per quanto pregevole, sconta almeno due ordini diversi di criticità.
Anzitutto, e non è questa la sede opportuna per affrontare approfonditamente l’argomento, come anticipato, essa inerisce al rapporto che intercorre tra detta disciplina e quella peculiare prevista nel Codice dei contratti; ma, soprattutto, in ottica preliminare e (talora) assorbente, assume rilievo in punto di giurisdizione.
A voler pure considerare applicabile la disciplina civilistica, infatti, si pone l’importante interrogativo relativo a quale giudice sia effettivamente competente a decidere della controversia, ovvero, a volerla dire meglio, su quale autorità giurisdizionale sia dotata della effettiva giurisdizione sul punto.
Al riguardo, e cursoriamente, si rammenta infatti che il giudice amministrativo resta il giudice naturale degli interessi legittimi; là dove, al contrario, il giudice ordinario resta il giudice dei diritti soggettivi. E, ancora, che secondo tale prospettiva – in materia di appalti – la distinzione può ancorarsi, rispettivamente, a due delle diverse fasi che caratterizzano la procedura d’acquisto: la prima che accompagna e culmina con la approvazione della aggiudicazione, la seconda coincidente con l’intera fase di esecuzione contrattuale.
Ebbene, in tale cornice, e coerentemente con questa impostazione, la sentenza in commento ha ritenuto non a caso inammissibili le censure mosse dal ricorrente principale “con cui [si è] […] reclama[ta] la rimodulazione del prezzo contrattuale in ritenuta applicazione delle regole civilistiche discendenti dall’art. 1664 c.c. e dal principio di buona fede declinato negli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c.”. Ciò, “per evidente difetto di giurisdizione del giudice amministrativo”.
In definitiva, infatti, “una volta che si abbandon[a] il campo occupato dalle fonti normative disciplinanti in maniera specifica la materia degli appalti pubblici e si deducano a fondamento della pretesa revisionale disposizioni, come quelle in commento, destinate a regolare le posizioni paritetiche dei contraenti nell’ambito di un ordinario contratto di appalto, detta pretesa deve essere ricostruita tout court in termini di diritto soggettivo, con conseguente devoluzione della sua cognizione al giudice ordinario”[3].
- Qualche breve notazione (utile) per le Stazioni Appaltanti.
A voler tirare le fila delle considerazioni svolte, si ricavano almeno due importanti notazioni cui prendere atto nella ordinaria (ed ordinata) gestione di una procedura d’acquisto che voglia evitare l’inconveniente di dar luogo a contenziosi o a lungaggini procedurali che finiscano per ingessare l’attività amministrativa della Stazione Appaltante.
Anzitutto, si segnala – come in parte anticipato – che la assoluta necessità di evitare di ricorrere a sterili rinvii o a rimandi generali nella predisposizione della documentazione di gara quando si tratta(va) di immaginare clausole di revisione prezzi secondo il tipo legale di cui alla lettera a) del primo comma dell’art. 106 – per gare disciplinate dal D. Lgs. 50/2016 – resta valido, tutt’ora, per la predisposizione di clausole d’opzione riconducibili al (solo parzialmente diverso) tipo legale di cui alla lettera a) del primo comma dell’art. 120 del D. Lgs. 36/2023 – per tutte quelle altre procedure avviate secondo la disciplina del ‘Nuovo Codice’. Tutto ciò, ben inteso, con l’accortezza – per queste ultime procedure – di prevedere anche, ai sensi dell’art. 60, clausole di revisione dei prezzi aderenti al modello legale che, per le considerazioni svolte supra, si intenderanno correttamente ‘formulate’ anche (solo) se pedissequamente ri-propositive della lettera normativa[4].
Un simile imperativo deve certamente accompagnare, in un primo momento, la redazione del capitolato d’appalto; ed in un secondo momento, e con la giusta attenzione, la redazione del contratto stipulando, di modo che lo stesso ‘si confronti’ debitamente, senza incoerenze, con il contenuto della documentazione tecnica.
Un tale incedere, del resto, consentirà anche all’Operatore economico di conoscere con esattezza le ragioni ed i presupposti che giustificheranno – in quella procedura – l’eventuale riconoscimento di modifiche agli accordi originariamente intesi e, oltre a favorire l’esecuzione della commessa nell’ottica di tutela all’interesse pubblico, mette(rà) (in teoria) al riparo da iniziative giudiziali.
Quandanche ve ne fossero, tra l’altro, e venendo alla seconda importante notazione da considerare, è sempre importante che l’Amministrazione si confronti con la (apparentemente banale) questione di giurisdizione sottesa a simili contenziosi: per vero, una lite incardinata avanti al giudice carente di giurisdizione consente, magari insieme alle altre, una facile difesa per quell’Amministrazione avveduta, che potrebbe poi, in definitiva, tradursi in una facile ‘vittoria’ in rito.
[1] T.A.R. Campania, Sez. III, 12.09.2024, n. 4927.
[2] Riprendendo argomentazioni già spese in altra pronuncia del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 31.10.2022, n. 9426)
[3] Cfr. sul punto, gli interessanti richiami riportati in sentenza del Consiglio di Stato: Cons. St., Sez. V, 28.12.2006, n. 8069 e, ancora, Cons. St., Sez. VI, 28.12.200, n. 7043.
[4] Come confermato, tra l’altro, dalla semplice circostanza che la loro eventuale omissione dà sempre luogo (ed in ogni caso) ad un automatico fenomeno di eterointegrazione normativa.