Sending
Questo articolo è valutato
0 (0 votes)

Le disposizioni sull’in houseproviding contenute nelle “Direttive 2014” in materia di appalti pubblici e concessioni sono direttamente applicabili, oppure bisogna attendere il formale recepimento? E nel frattempo, come si può delimitare l’istituto degli affidamenti in house?


Due recenti decisioni del Consiglio di Stato, inducono nuovamente a riflettere sui lineamenti essenziali delle società in house.

Sembra, infatti, che si tratti di disegnare un ritratto in perenne evoluzione, con la conseguenza che – alla vigilia dell’entrata in vigore della Direttiva n. 24/2014/UE, ove, all’art. 12 vengono puntualmente disciplinati gli affidamenti in house – ci si trova ancora nell’incertezza di definire cosa si intenda – concretamente – con il termine “in houseproviding”, cioè a quali tipologie di affidamenti ci si riferisca.

Ma andiamo con ordine.

Con i pareri n. 298 del 30 gennaio 2015 e n. 1178 del 22 aprile 2015, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato offriva un’interpretazione estensiva sull’utilizzo dello strumento dell’inhouseproviding.

1. I pareri della Sezione consultiva sull’immediata applicazione della Direttiva n. 24/2014/UE

Con il primo parere, il Consiglio di Stato forniva parere positivo all’affidamento diretto – in houseproviding – da parte del M.I.U.R. al Consorzio CINECA di alcuni servizi nel campo dell’informatica, concernenti il sistema universitario, della ricerca e scolastico.

Nucleo centrale del parere era non solo il riconoscimento del rapporto in house che lega il Ministero ed il Consorzio, tale da giustificare l’affidamento diretto, ma soprattutto l’impulso ad ampliare l’utilizzo di tale forma di affidamento, in applicazione diretta dei principi comunitari, espressi dalla citata Direttiva n. 24/2014/UE.

E così, nonostante i pareri sostanzialmente contrari dell’A.G.C.M., del M.E.F. e dell’A.V.C.P., il Consiglio di Stato afferma che la Direttiva deve essere applicata direttamente e devono essere immediatamente mutuati i criteri distintivi dell’inhouseproviding in essa contenuti.

Infatti: “… va ricordata la disciplina recentemente introdotta in materia dall’art. 13 della Direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014 … che oltre tutto è entrata in vigore successivamente agli avvisi del MEF e delle Autorità Indipendenti citati …Com’è noto, prima di tale novella, l’istituto in questione aveva ricevuto una disciplina esclusivamente giurisprudenziale … l’art. 12 citato, viceversa, nel definire la materia come quella afferente gli “appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico” ha in parte recepito tale giurisprudenza, ma in una parte rilevante … ha profondamente innovato, definendo in modo parzialmente diverso le condizioni di esclusione della Direttiva medesima. Com’è noto, la Direttiva 2014/24 non è stata ancora recepita … e tuttavia essa appare di carattere sufficientemente dettagliato, tale da presentare pochi dubbi per la sua concreta attuazione. Non vi è dubbio, quindi, che nel caso in esame, se non vi è addirittura un’applicazione immediata, del tipo “self-executing”, non può in ogni caso non tenersi conto di quanto disposto dal legislatore europeo, secondo una disciplina dettagliata … introdotta per la prima volta con diritto scritto e destinata a regolare a brevissimo la concorrenza nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nell’U.E.”

Analogamente, sempre la Seconda Sezione, con il parere n. 1178 del 22 aprile 2015, esprime parere favorevole all’affidamento diretto, da parte di Enti locali a favore dell’Agenzia del Demanio, di attività volte alla valorizzazione dei beni immobili di proprietà degli Enti committenti.

Le ragioni di detto affidamento sono sempre collegate all’applicazione diretta della Direttiva 2014/24/UE, questa volta declinata sub specie di “cooperazione pubblico-pubblico cd. “non istituzionale/orizzontale”, sino a lambire i confini degli “Accordi fra Amministrazioni” di cui all’art. 15 L. n. 241/1990.

Anche in questo caso, il Consiglio di Stato ritiene immediatamente operanti le previsioni della Direttiva 2014/24/UE, che trovano riscontro anche nella Direttiva 2014/23/UE in materia di concessioni e nella Direttiva 2014/25/UE in materia di appalti nei c.d. “settori speciali”, anche se le previsioni comunitarie si pongono in linea di discontinuità, rispetto ai principi di elaborazione giurisprudenziale sinora utilizzati.

Si evidenzia, infatti, che: “…A questa giurisprudenza comunitaria ed amministrativa nazionale hanno fatto seguito le nuove direttive europee del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 (2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, 2014/24/UE sugli appalti pubblici e 2014/25/UE sulle procedure d’appalto nei settori speciali) che, nell’intento in più occasioni perseguito di codificare principi già elaborati nelle decisioni dei giudici comunitario e nazionali, hanno definito con maggiore dettaglio le connotazioni dell’istituto in esame.Anche in questo caso, per ciò che riguarda l’immediata applicabilità, alle fattispecie oggetto del quesito, delle relative disposizioni recate dalle nuove direttive europee, non può che richiamarsi quanto affermato nel parere di questa II Sezione n.298 del 30 gennaio 2015 secondo cui, anche “nel caso in esame, se non vi è addirittura un’applicazione immediata del tipo ‘self-executing’, non può in ogni caso non tenersi conto di quanto disposto dal legislatore europeo, secondo una dettagliata disciplina in materia, introdotta per la prima volta con diritto scritto e destinata a regolare a brevissimo la concorrenza nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nell’U.E.”, trattandosi in definitiva di “disposizioni di compiutezza tale da farle ritenere ‘self-executing’, avendo indubbiamente contenuto incondizionato e preciso (così Cass. SS.UU., sentenza n.13676 del 25/02/2014). …”.

Dunque, su tali presupposti l’interprete sembrava autorizzato a rinnovare l’immagine degli affidamenti in house, sinora stilizzata dalla giurisprudenza, per sostituirla con la nuova effigie delineata dalle Direttive del 2014.

Insomma, rispetto ad una faticosa elaborazione giurisprudenziale, la quale aveva lasciato comunque delle aree di interpretazione, in casi di affidamenti border line (come nei casi in cui il requisito del “controllo analogo” era rintracciabile in capo ad una pluralità di soggetti), i due pareri del Consiglio di Stato sembravano suggerire il sicuro approdo dell’applicazione diretta della nuova norma positiva.

Sembrava – infatti – ed era esplicitamente suggerito dal Collegio, giacché – forte dell’intepretazione della Corte Costituzionale sulla diretta applicazione dei “principi generali” di formazione comunitaria– esso riteneva self executing le disposizioni in materia contenute nelle Direttive – in particolare l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE-.

Ma tale interpretazione – alla quale, per la verità, gli interpreti si sono avvicinati con qualche riluttanza – non è durata a lungo.

Infatti, appena spento l’eco del parere del 22 aprile, ecco che una decisione della Sezione Terza, precisamente, la n. 2291 del 7 maggio 2015, torna sul tema delle c.d. “società in house”, confermando il principio secondo il quale le Amministrazioni pubbliche sono tenute ad espletare gare d’appalto per acquisire sul libero mercato i servizi strumentali, in ossequio alle previsioni contenute nell’art. 4, comma 7, del D.L. n. 95/2012 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 135/2012.

E di nuovo vengono rimescolate le carte proprio sul tema della diretta applicazione delle disposizioni contenute nelle Direttive 2014.

2. Le decisioni delle Sezioni giurisdizionali che negano l’immediata applicazione della Direttiva n. 24/2014/UE

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 2291/2015, svuota di contenuto l’intero “sistema” degli affidamenti in house, sottolineando che l’attuale quadro normativo – costituito dall’art. 4 L. n. 135/2015 – dispone che gli affidamenti effettuati tramite gara pubblica siano la regola, mentre quelli in house costituiscano un’eccezione.

In tal senso andrebbe letto l’art. 4, comma 7 L. n. 135/2012, che prevede: “al fine di “evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale”, a decorrere dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni, “nel rispetto dell’articolo 2, comma 1 del citato decreto acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo”.

La portata generale di tale norma, quindi, non viene incisa dal successivo comma 8, che prevede:“l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house”.

Ciò in quanto – secondo il Collegio – le società in house sono destinate alla progressiva riduzione, per effetto di una serie sistematica di norme, improntate proprio alla razionalizzazione delle società pubbliche.

Ed in questo contesto, quid juris dell’applicazione immediata delle disposizioni comunitarie in materia di in houseproviding che – peraltro – sembrano andare in direzione opposta e, cioè favorire gli affidamenti di questo tipo?

Su questo punto, il Collegio commenta appena: “la sentenza appellata ha ritenuto che il comma 8 avesse un contenuto derogatorio del comma 7, nel senso di stabilire la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto, purché nel rispetto dei requisiti dell’inhouseproviding stabiliti dal diritto comunitario, e che quindi (sebbene dichiarato incostituzionale con sentenza n. 229/2012) esprimesse un precetto comunque esistente nell’ordinamento comunitario e tuttora applicabile. Tale interpretazione non convince. Quanto all’esistenza di un precetto comunitario, occorre precisare che l’inhouseproviding, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, sembra rappresentare, prima che un modello di organizzazione dell’amministrazione, un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara”.

E quindi, dopo aver preso coscienza dell’inversione di tendenza, rispetto ai pareri precedentemente emessi dalla Sezione Seconda, prende le distanze dalla previsione di ampio respiro contenuta nella Direttiva n. 24/2014/UE: “se dunque l’affidamento diretto ha carattere spiccatamente derogatorio, l’esistenza di una sua disciplina normativa a livello comunitario (oggi contenuta nell’art. 12 della direttiva 24/2014/UE, da recepire entro il 18 aprile 2016, anche se nelle disposizioni in questione è stata ravvisata una compiutezza tale da farle ritenere “self-executing”, avendo indubbiamente “contenuto incondizionato e preciso” – cfr. Cons. Stato, II, n. 298/2015; Cass. civ. SS.UU., n. 13676/2014) consente tale forma di affidamento, ma non obbliga i legislatori nazionali a disciplinarla, né impedisce loro di limitarla o escluderla in determinati ambiti”.

La giurisprudenza che si formerà successivamente, avrà il compito di stabilire se tale visione, proposta nella decisione n. 2291/2015, supererà la “prova di resistenza” della gerarchia delle fonti, giacché pone in rapporto di subordinazione una legge nazionale in materia di spendingreview, rispetto ad una Direttiva comunitaria.

Ma, ancora prima, il problema si porrà per il legislatore, incaricato di recepire le Direttive 2014: come si porrà la norma nazionale, rispetto all’art. 12 della Direttiva n. 24/2014/UE?

Verrà introdotta nell’ordinamento italiano una norma che disciplina gli affidamenti diretti effettuati a favore delle società pubbliche?

Certo, non si può ignorare il dato di fatto, che – mentre in precedenza esisteva soltanto l’elaborazione giurisprudenziale – adesso una norma regolatrice della materia esiste e, quindi, è con questa che si dovrà raffrontare la disciplina nazionale.

E sarà più difficile che in passato creare correnti interpretative divergenti fra loro.

Le stesse riflessioni sono tornate di attualità con la decisione della SestaSezione, n. 2660 del 26 maggio 2015, pubblicata – con peculiare coincidenza – proprio nei giorni in cui il Senato approvava il testo della Legge delega per la riforma del Codice dei Contratti pubblici.

Con quest’ultima decisione, il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, ritorna a valutare gli affidamenti effettuati a favore del Consorzio CINECA; questa volta, però, giudica illegittimo l’affidamento diretto effettuato da parte dell’Università della Calabria – che pure è socia del Consorzio stesso –.

Ancora una volta, il Consiglio di Stato fa’ riferimento alla giurisprudenza comunitaria formatasi in materia di inhouseproviding e, rapportando il concetto di “controllo analogo” alla concreta fattispecie del rapporto Università – CINECA, ha escluso che l’Università-socia esercitasse un controllo (neppure congiuntamente ad altri Enti-soci) sul Consorzio.

Esclusa, in base a tale considerazione, l’applicabilità delle norme sugli affidamenti in house, il Consiglio di Stato ha anche esaminato l’eccezione dell’appellante con la quale quest’ultimo invocava l’applicazione diretta dell’art. 12 della Direttiva n. 24/2014/UE.

In particolare, l’appellante – forse confidando sulle conclusioni del precedente parere n. 298/2015 – chiedeva che venisse applicata la disposizione comunitaria nella parte in cui consente di estendere gli affidamenti diretti anche alle società pubbliche partecipate – sino alla soglia del 20 per cento – da capitali privati.

Ma la Sesta Sezione non ha condiviso l’analisi effettuata dalla Sezione consultiva e, pertanto, ha respinto l’eccezione di diretta applicazione della disposizione contenuta nella Direttiva n. 24/2014/UE, in mancanza del formale recepimento della Direttiva stessa da parte del legislatore nazionale.

In particolare, il Collegio ha ritenuto di supportare la sua decisione sulla base del principio secondo cui la mera pubblicazione di una direttiva non determina, prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria.

Così, la pronuncia in esame ha compiuto un passo avanti rispetto alla decisione n. 2291/2015 ed ha decisamente virato la rotta, rispetto a quella tracciata dai pareri della Sezione consultiva, imboccando il cammino della inapplicabilità diretta dell’art. 12 della Direttiva n. 24/2014/UE.

Quindi, rispetto alla posizione espressa con il parere n. 298/2015, l’ultima (in ordine di tempo) interpretazione proposta dal Consiglio di Stato, si arrocca sulla giurisprudenza consolidata, nell’intento di difendere il principio della libera concorrenza … almeno sino a quando il legislatore non avrà stabilito in che termini recepire le disposizioni comunitarie.

In tal senso, quindi, nella decisione in esame si afferma, dapprima la considerazione generale: “…In primo luogo, deve escludersi che la nuova direttiva, nonostante il suo contenuto in alcune parti dettagliato, possa ritenersi self-executing per la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la sua attuazione da parte dello Stato.

Subito dopo, poi, si riconosce – prudentemente -: “È vero che la giurisprudenza comunitaria riconosce una forma di rilevanza giuridica alla direttiva anche prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento. Si tratta, però, di una rilevanza giuridica certamente minore rispetto al c.d. effetto diretto (che implica l’immediata applicazione della direttiva dettagliata ai rapporti c.d. verticali), che si traduce semplicemente, in nome del principio di leale collaborazione, in un dovere di standstill, ovvero nel dovere per il legislatore di astenersi dall’adottare, nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto (C. giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie) e per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile 2008, C-268/08, Impact).”.

Ma la conclusione è quella già fatta propria dalla Terza Sezione con la decisione n. 2291/2015 “… Non si tratta, quindi, del dovere di immediata applicazione o dell’obbligo di interpretazione conforme (che operano solo dopo che è scaduto il termine di recepimento), ma soltanto di un obbligo negativo, che si sostanzia nel dovere di astenersi dall’interpretazione difforme potenzialmente pregiudizievole per i risultati che la direttiva intende conseguire.

Si tratta, in altri termini, di un obbligo attenuato rispetto a quello di interpretazione conforme in quanto discende da un principio sì fondamentale del diritto dell’Unione, quale è quello di leale cooperazione, ma, pur tuttavia, gerarchicamente sotto ordinato a quello del primato, il cui mancato rispetto mina la stessa essenza dell’ordinamento dell’Unione.

Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina, se l’obbligo d’interpretazione conforme ha un valore prossimo all’effetto diretto, lo stesso valore non può riconoscersi all’obbligo di astensione da un’interpretazione difforme dal diritto dell’Unione europea che non consente una lettura della norma interna additiva, dovendosi altrimenti ritenere i due istituti giuridici sovrapponibili.

La fattispecie in esame si colloca al di fuori dell’ambito di questa limitata rilevanza giuridica “negativa” che eccezionalmente può essere riconosciuta alla direttiva prima della scadenza del termine di recepimento: le regole sull’in house, di cui si fa applicazione nel presente giudizio, che potenzialmente potrebbero contrastare con le previsioni della nuova direttiva, sono, infatti, regole già esistenti nell’ordinamento nazionale (non introdotte ex novo dal legislatore nazionale in violazione del dovere di standstill) e sono, inoltre, regole che trovano la loro fonte proprio nell’ordinamento dell’Unione Europea, avendo esse origine dalla sopra richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia che nel corso degli anni ha fissato rigorosi limiti alla operatività dell’inhouse.

Non si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della direttiva determini, prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria. “.

Venendo al caso concreto, poi, il Collegio conferma: “…Per ragioni analoghe, non appare corretto ritenere immediatamente operativa la possibilità di partecipazione di capitali privati house richiamando il c.d. obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale.

Nel caso di specie, invero, non risultano sussistenti i presupposti per la c.d. interpretazione conforme o per il divieto di interpretazione difforme, secondo quanto già esposto.

A venire in rilievo non è, infatti, una norma nazionale “ambigua” o “plurivoca”, suscettibile di più interpretazioni, di cui almeno una conforme al contenuto di una direttiva comunitaria sopravvenuta.

Viene al contrario in rilievo una nozione di inhouse di matrice comunitaria (elaborata da una giurisprudenza pietrificata, tanto da costituire diritto vivente) che è univoca nell’escludere la compatibilità dell’istituto con la partecipazione di soggetti privati.

Ritenere da subito possibili forme di partecipazione di capitali privati significherebbe, pertanto, disapplicare la fin qui consolidata giurisprudenza comunitaria sui limiti all’inhouse, dando prevalenza ad una nozione meno restrittiva prevista da una direttiva sopravvenuta ancora in corso di recepimento.

Non si tratterebbe, quindi, di interpretare il diritto nazionale in maniera conforme al dirittoeurounitario sopravvenuto, ma, al contrario, di disapplicare o correggere l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, per assicurarne la conformità alla direttiva sopravvenuta, la quale, però, (non essendo scaduto il termine di recepimento) non è ancora cogente all’interno degli ordinamenti nazionali. “.

Ma il punto nodale, forse la vera motivazione della decisione circa l’interpretazione sull’applicabilità della Direttiva è quella legata alla difficile conciliazione fra l’esistenza di affidamenti diretti alle società in house ed il principio della libera concorrenza. Quindi, conclude il Consiglio di Stato: “… In ogni caso, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte sul regime giuridico della direttiva in pendenza del termine di recepimento, appare decisivo il richiamo alla consolidata giurisprudenza nazionale (avallata anche dalla Corte costituzionale) secondo cui l’inhouse di derivazione comunitaria rappresenta, comunque, una deroga alla regola della concorrenza. Trattandosi di istituto “eccezionale”, di esso il legislatore nazionale può, ma non deve, avvalersi, risultando, pertanto, certamente legittima la scelta di configurare sul piano del diritto interno la possibilità di ricorrere all’istituto in termini più restrittivi rispetto a quelli consentiti (ma non imposti) dal diritto dell’Unione europea.

Applicando tali principi, deve quindi ritenersi che l’inhouse aperto ai privati previsto dall’art. 12 cit. della nuova direttiva, rappresenti non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza ancor più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario.”.

E qui si assiste alla formalizzazione di un principio quanto mai originale: quello dell’applicazione “facoltativa” di una disposizione comunitaria che – per la sua estrema chiarezza – era stata (ma solo per qualche mese!) ritenuta self executing.

Ancor più, quindi, sarà interessante seguire l’evoluzione della materia, confidando che il legislatore scelga una posizione ben definita, o che l’Unione Europea fornisca criteri interpretativi che consentano di non dover ritornare indietro nel tempo, al lungo dibattito giurisprudenziale.

Sending
Questo articolo è valutato
0 (0 votes)

Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Emanuela Pellicciotti
Esperta in infrastrutture e contratti pubblici
mediagraphic assistenza tecnico legale e soluzioni per l'innovazione p.a.