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Conoscere il contenuto dell’articolo 323 del codice penale, il quale sanziona il reato di abuso d’ufficio, conoscerne il percorso legislativo che ha portato alla stesura della norma e conoscere le interpretazioni giurisprudenziali in materia, è senz’altro di grande interesse per chiunque operi nel settore della Pubblica Amministrazione.

La norma del 1930, contenuta all’interno del c.d. Codice Rocco, nel corso degli anni, ha subito due importanti modificazioni. La originaria formulazione era la seguente: “Il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire centomila a due milioni”.

La Legge n. 86/1990 apporta la prima e significativa riforma in materia. Sicché, a seguito dell’intervento del Legislatore, l’articolo 323 c.p. è  riscritto e detta:“Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni.

Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni”.

Infine, l’ultima riforma con la Legge n. 234 del 1997, tutt’ora vigente.

L’articolo 323 del codice penale, in tema di abuso d’ufficio, al quale fare riferimento oggi, stabilisce che:Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

Occupiamoci della riforma del 1997 e chiediamoci quali siano state le ragioni che hanno indotto il Legislatore a ridisegnare la figura del reato di abuso d’ufficio.

Ragioni di sintesi in questa sede impongono di operare l’analisi comparativa solo tra le due ultime formule legislative e non anche quella del 1930.

I fautori della modifica sostengono che la precedente formulazione del reato di abuso d’ufficio era in chiara violazione dei principi di legalità e tassatività della norma penale, giacché la sostanziale indeterminatezza della previsione legislativa consentiva alla Magistratura un’ampia discrezionalità di intervento riguardo alle violazioni nell’ambito della Pubblica Amministrazione.

Si è avvertita, dunque, la necessità di caratterizzare in maniera più puntuale e precisa il fatto di reato, delineando in maniera netta e oggettiva i comportamenti punibili, così da garantire il rispetto dei principi di legalità e tassatività, limitando la punibilità ai casi di violazione di legge, regolamento o di un preciso obbligo di astensione.

Il Legislatore, così operando, soddisfaceva ampiamente la finalità di evitare la penetrazione indebita del giudice penale in settori riservati istituzionalmente all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione.

E’ bene notare, quale fatto di conoscenza, che, come tutte le riforme della giustizia intervenute sotto la Legislazione del ’97, anche quella relativa all’abuso d’ufficio fu approvata a larghissima maggioranza.

E’ con la nuova legge che si ha la fine prematura dell’inchiesta c.d. “affittopoli” e le assoluzioni nell’ambito del processo per i fatti relativi all’IRI e alla privatizzazione di parte della SME.

Pochissimo tempo dopo l’entrata in vigore dell’ultima modifica all’articolo di cui si tratta, la Suprema Corte è intervenuta stabilendo quali fossero i temi di maggiore importanza addotti dalla riforma.

E’ interessante leggere la sentenza scritta dai Giudici di Cassazione, nella quale si stabilisce che “a differenza dell`art. 323  previgente che configurava l`abuso di ufficio come reato a consumazione anticipata, incentrato sul dolo specifico, sulla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, o di arrecare ad altri un danno ingiusto, il legislatore del 1997 ha configurato l`abuso di ufficio come reato di danno, richiedendo che venga procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato un danno ingiusto, così da spostare in avanti la realizzazione della fattispecie. La tipicità del fatto, quindi, con la “novella”, non viene più affidata al contenuto di un dolo specifico ma a precise prescrizioni con forme vincolate di condotta.” (Cass. Pen., Sez. V, 16.11.1998, n. 11847). I Giudici di Cassazione, dunque, in tale pronunciato, chiariscono che l’abuso di ufficio, nella nuova formulazione, e` caratterizzato dalla necessità dell`evento; che il reato e` punito a titolo di dolo generico, caratterizzato dal requisito della intenzionalità, e che è esclusa la rilevanza del c.d. dolo eventuale, ossia quella particolare forma di dolo nella quale la realizzazione del fatto reato, non direttamente avuta di mira dal soggetto, è prevista ed accettata come possibile conseguenza della propria condotta.

Infine, la Corte di Legittimità evidenzia come il Legislatore ha voluto focalizzare l’attenzione anche sull’elemento oggettivo, richiedendo, per l’esistenza del reato, la violazione di norma di legge o di regolamento o dell’obbligo di astensione.

Sono evidenti le prime differenze tra la norma del 1990 e quella del 1997.

Per quella più antica era sufficiente abusare del proprio ufficio, mentre per quella attuale sono necessarie le specifiche violazioni di cui si è detto.

Il punto di riflessione più importante, però, è altro.

Sono due, in particolare, gli elementi di  “ostacolo” per il giudice, introdotti dal Legislatore del ’97, i quali rendono il reato di oggettiva e difficile (se non impossibile, a volte)  dimostrazione a livello probatorio: il dolo intenzionale e la “doppia ingiustizia”.

Entriamo nello specifico.

L’articolo 323 introdotto con la riforma del ’90 pretendeva, per la configurazione del reato di abuso di ufficio, il dolo specifico: che il soggetto agisca per un fine particolare la cui realizzazione non è necessaria per l’esistenza del reato.

L’elemento soggettivo richiesto oggi si sostanzia, invece, nel dolo generico, MA, CON RIGUARDO ALL’EVENTO CHE COMPLETA LA STRUTTURA DEL REATO, ASSUME NECESSARIAMENTE LA FORMA DEL DOLO INTENZIONALE. E il dolo intenzionale ricorre, come scrivono Dolcini e Marinucci, “allorquando il soggetto agisce al fine di cagionare (anche) proprio quell’evento criminoso, quando la sua condotta è mirata a realizzare, insomma, la fattispecie tipica.”.

E’ di tutta evidenza, quindi, come fosse più agevole ritrovare da parte dei Giudici una responsabilità penale nel primo caso, giacché, ponendo il focus sulla idoneità della condotta e sul fine particolare del quale non era necessaria la realizzazione per la consumazione del reato, si ricadeva in un ambito in cui si era al di là della realizzazione oggettiva, sino a criminalizzare, a volte, anche il solo movente soggettivo.

Invece, perché si intravveda nei fatti il dolo intenzionale non sarà necessario che vi sia il conseguimento delle aspirazioni dell’agente e sarà imprescindibile che il dolo sia individuato in rapporto alla singola condotta consumata, anche quando questa sia parte di una più larga architettura.

In quest’ultimo caso, quindi, per riscontrare l’esistenza del delitto di abuso di ufficio, il giudice dovrà valutare, attraverso un ragionamento logico e di causa-effetto, l’intenzionalità del reo rispetto alla violazione della norma o alla mancata astensione al fine di procurare il vantaggio patrimoniale ingiusto oppure di arrecare il danno. E dovrà, il giudice, raggiungere proprio la certezza che la volontà dell’agente  mirasse  alla realizzazione del vantaggio o del danno ingiusto che si sono verificati nel caso concreto.

Al fine suddetto assumono rilievo sia l’atto o il comportamento singolarmente valutato sia gli elementi sintomatici estrinseci all’atto o al comportamento.

La Cassazione, infatti, ha stabilito che “la prova che un atto amministrativo è il risultato di una collusione tra il privato e il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell’uno e il provvedimento adottato dall’altro, essendo invece necessario a tal fine che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti ovvero altri dati di contorno dimostrino che la domanda del privato è stata preceduta, accompagnata o seguita dalla intesa con il pubblico ufficiale o, comunque, da pressioni dirette a sollecitarlo a persuaderlo  al compimento dell’atto illegittimo.” (Cass. Pen, Sez. VI , 11 novembre 1999, n. 12928).

Alla stregua di ciò, emerge in tutta la sua forza chiarificatrice il fatto che il Pubblico Ministero, nel giudizio penale, dovrà particolarmente sforzarsi al fine di dimostrare la sussistenza del reato in argomento: dovrà provare l’intesa tra il Pubblico Ufficiale e il privato e provare, ancora, modi di vita comune tra i due, frequentazioni degli stessi ambienti, legami.

In mancanza di una simile prova, spesso impossibile a darsi, l’imputato sarà assolto, così come testimoniano tutte le sentenze che si sono succedute in materia di abuso d’ufficio.

Ma, poi, fornire la prova dell’intesa non significa ricadere nell’ambito di altre figure di reato? Corruzione, etc…?

Come se tutto ciò non bastasse, parte della giurisprudenza di legittimità ha dato un’interpretazione addirittura più restrittiva al dolo intenzionale, ponendo il giudice innanzi ad una ulteriore difficoltà in tema di ricerca della prova.

I Giudici della Corte di Cassazione, con diversi pronunciati, hanno stabilito la necessità della sussistenza del dolo “esclusivo”, sì da eliminare la responsabilità penale del pubblico ufficiale, il quale andrà assolto nel caso in cui, nonostante abbia agito per un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ha voluto fare, contemporaneamente, anche gli interessi della Pubblica Amministrazione.

Al riguardo, si prenda ad esempio la  sentenza n. 33068 del 5 agosto 2003, con la quale la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha statuito che “nell’articolo 323  c.p., l’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo, ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno, di modo che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigge di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidatogli dall’ordinamento, pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio del privato, deve escludersi la sussistenza del reato.”.

Tale interpretazione apre la strada, ovviamente, a infinite sentenze di assoluzione, in quanto pone a carico del Pubblico Ministero un ulteriore onere probatorio, di carattere escludente, e offre alla difesa dell’imputato una sponda di salvezza: sarà meramente sufficiente dimostrare che l’accusato  abbia perseguito anche l’interesse della Pubblica Amministrazione perché il suo comportamento non abbia rilievo penale.

Non è tutto!

Esaminiamo il requisito della c.d. doppia ingiustizia, al quale si è fatto cenno poche pagine addietro.

E’ necessario, ai sensi dell’articolo 323 c.p. in vigore, che accanto al comportamento contrario al diritto debba esserci un vantaggio o un danno ingiusto perché si configuri l’abuso di ufficio.

Il giudice, quindi dovrà operare due distinte e autonome valutazioni in ordine al requisito della “ingiustizia”: verificare, in prima istanza, che caratterizzi la condotta e, in seconda istanza, che connoti il danno o il vantaggio, frutto della condotta stessa.

Tale principio trova conferma nel pronunciato della Corte di Legittimità numero 2754 del 21 gennaio 2010, con il quale si ribadisce che “il delitto di abuso d’ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di legge, che dell’evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità della condotta.”.

Gli argomenti innanzi esposti dichiarano in modo limpido che, nata per specificare, puntualizzare e migliorare, la riforma del ’97, così come strutturata, non fa altro che rendere il reato de quo estremamente difficile da dimostrare in ambito giudiziario.

E’ del tutto auspicabile, quindi, che intervenga, nuovamente e rapidamente, il legislatore, con una riforma indirizzata a rendere meno ardua la ricerca della prova da parte del giudice e finalizzata ad una più efficace tutela penale in tema di abuso d’ufficio.

Un aneddoto per concludere: un Pubblico Ministero, di alto profilo morale e professionale, scherzando, ha detto che avrebbe incorniciato e appeso nel suo ufficio l’unica sentenza di condanna ottenuta in tema di abuso di ufficio!

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Rinaldo Alvisi
Avvocato penalista
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