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( votes)Premessa
Sulla base della recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione che andremo ad analizzare, ci siamo posti questa domanda:
E’ ancora attuale il principio secondo il quale il nesso di “occasionalità necessaria” con i compiti istituzionali viene meno solo quando la condotta dannosa del dipendente sia frutto di comportamenti dolosi o egoistici e, in particolare, qualora questi si traducano in un illecito penale doloso, comportante una cesura del rapporto organico con la pubblica amministrazione?
Ci preme iniziare questo articolo, citando un breve passaggio tratto da una recente sentenza del nostro giudice contabile in sede di appello (Corte dei Conti, Seconda Sezione Centrale Di Appello sentenza numero 148 dell’11 maggio 2021).
“Con riguardo alla preliminare eccezione di inammissibilità della domanda risarcitoria, si rammenta che la fattispecie al vaglio del Collegio, sebbene nasca da una transazione e non da una sentenza civile di condanna, costituisce una tipica ipotesi di responsabilità per “danno indiretto”: di un danno, cioè, che deriva dal risarcimento dovuto dalla P.A. a un terzo, ai sensi dell’art. 28 della Costituzione. È noto, infatti, che “la P.A. risponde del fatto illecito dei propri dipendenti tutte le volte che tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente esista un nesso di occasionalità necessaria” (Cass., n. 29727/2011 e Cass., n. 8306/2011).”
Riprendiamo quindi la sentenza del 2011 (Cass., n. 29727/2011), riportando questo passaggio “La Corte di merito ha errato nel non riconoscere il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente, atteso che è sufficiente che le funzioni svolte nell’amministrazione abbiano determinato o anche soltanto agevolato la realizzazione del fatto lesivo.
La Corte, con giurisprudenza costante e continuativa nel tempo, ha affermato il principio secondo cui, «In tema di responsabilità diretta della P.A. per fatto lesivo derivante dall’operato dei suoi dipendenti, non può essere esclusa la sussistenza del rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività del dipendente e l’evento lesivo in presenza dell’eventuale abuso compiuto da quest’ultimo o dall’illegittimità del suo operato, qualora la condotta del dipendente medesimo si innesti, comunque, nel meccanismo dell’attività complessiva dell’ente. Ne consegue che il riferimento della condotta del dipendente alla P.A. può venire meno solo quando egli agisca come semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, ed il suo comportamento, non importa se colposo o doloso, non sia perciò diretto al conseguimento di fini istituzionali che, in quanto propri della Amministrazione, possono anche considerarsi propri dell’ufficio nel quale il dipendente stesso è inserito.» (da ultimo, Cass. 30 gennaio 2008, n. 2089).”
Ed ancora, sempre dal nostro giudice contabile (Corte dei Conti, Seconda Sezione Centrale Di Appello sentenza numero 304 del 18 dicembre 2020).
“Infine, nemmeno valorizzando il profilo della “occasionalità necessaria”, talvolta utilizzato dalla giurisprudenza di questa Corte per giustificare la penetrazione della cognizione del giudice contabile in aree dubbia appartenenza alla giurisdizione contabile, è possibile evitare la preclusione ad esaminare la prospettazione formulata nei confronti di tale soggetto.
L’occasionalità necessaria, infatti, è un concetto evocato per porre in relazione anomale estrinsecazioni delle funzioni con l’investitura formale dell’agente operante in virtù di rapporto d’impiego o di servizio con la PA: in simili circostanze, però, il presupposto che giustifica la cognizione è l’inequivoca esistenza di un rapporto con la PA che rappresenta il centro di gravità, in grado di attrarre anche quelle manifestazioni delle funzioni meno prossime al ruolo svolto, ma comunque riconducibili, seppure eccentriche, all’investitura formale.”.
Pur tuttavia, è questa massima che deve farci riflettere:
Corte di Cassazione, Sezioni Unite civile, sentenza 13246 del 16 maggio 2019.
«lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo».
Non dimentichiamoci che l’articolo 2049 cc può essere applicato anche alla Pubblica Amministrazione ed inoltre la responsabilità ex art. 2049 c.c. costituisce una ipotesi di responsabilità indiretta per fatto altrui (di tipo oggettivo) dell’imprenditore per i fatti dei propri dipendenti; si tratta di una responsabilità oggettiva: la condotta pregiudizievole non si traduce propriamente nella mancata o inesatta esecuzione in un contenuto obbligatorio del committente verso un creditore (paziente), quanto piuttosto nello svolgimento di mansioni dannose per un terzo, privo di una pregressa relazione qualificata con il debitore (azienda). Si richiede la preposizione e l’occasionalità necessaria (Cass., Sez. U.,16/05/2019, n. 13246) per la configurazione di una responsabilità (concordemente ritenuta oggettiva) del “dominus”.
Ma non solo.
Neppure è rilevante distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso del soggetto agente (che costituisce il presupposto della responsabilità del debitore), essendo al riguardo sufficiente (in base a principio che trova applicazione sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale) la mera occasionalità
necessaria (Cass., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., 15 febbraio 2000, n. 1682);
ed infatti la stessa Corte di Cassazione ha chiarito (Cass., 05/07/2017, n.16512) che, poiché nella fattispecie di cui all’art. 2049 c.c. i due soggetti individuati dalla norma, rispondono per titoli distinti, ma uno solo di essi è l’autore del danno, non si verifica – a rigore – l’ipotesi del concorso nella produzione del fatto dannoso e la conseguente ripartizione dell’onere risacitorio secondo i criteri fissati dall’art. 2055 c.c. Solo ai fini di una eventuale rivalsa, non essendo configurabile alcun apporto propriamente causale del preponente alla verificazione del danno, ferma la corresponsabilità solidale nei confronti del danneggiato, il preponente responsabile – in estensione della tutela del terzo – per il fatto altrui, può agire in regresso contro l’effettivo autore del fatto per l’intero e non “pro quota” (Cass. Sez. 3 n. 28987 del 11/11/2019); (cfr Corte di Cassazione, Sezione III Civile, ordinanza numero 17948 del 23 giugno 2021).
Di conseguenza, dando una risposta negativa al quesito iniziale, sotto il profilo assicurativo vi sarà:
• la necessità che nelle polizze di Responsabilità civile Terzi, sia per le attività materiali/comportamentali (Polizza di RCT/RCO) che per quelle provvedimentali (polizza di Perdite patrimoniali) vi sia la clausola di estensione della copertura anche ai fatti dolosi delle quali il Contraente/Assicurato debba rispondere.
• l’estensione, nella polizza Tutela Legale, di tutti quei fatti illeciti nei quali esiste il nesso di occasionalità necessaria per cui la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri.
Attenzione però.
Qualora la polizza non abbia solo, nel novero degli Assicurati, l’Ente inteso come apparato, ma anche i suoi dipendenti, in virtu’ dell’articolo 1917, la responsabilità per danno doloso di questi ultimi DEVE ESSERE ESCLUSA DALL’ASSICURAZIONE
Ma appunto, non invece quella “per fatto altrui” dell’ente di appartenenza.
Per giungere a queste conclusioni, partiamo dalla rivoluzionaria impostazione degli Ermellini riuniti nel 2019.
1. L’interazione fra l’articolo 28 della Costituzione (responsabilità propria dell’Ente) e l’articolo 2049 del codice civile (responsabilità dell’Ente per fatto altrui)
Pertinenti per la risoluzione della questione sono: 1) l’art. 28 della Costituzione, per il quale, com’è noto: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»; 2) l’art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
1.1. Articolo 28 della Costituzione
È noto l’ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all’indomani dell’entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell’art. 28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a quella dell’agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi sull’immedesimazione organica dovendo escludersi che l’attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l’illecito del suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui, dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura composita di quella stessa responsabilità, dovendo l’Amministrazione rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento dell’attività provvedimentale (l’unica rispetto alla quale si configurerebbe un’immedesimazione organica, in quanto esplicazione della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo – organi in senso stretto – attraverso cui l’Ente esprime la sua volontà ed agisce nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati nell’espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si fonda sulla tesi del contenimento dell’innovazione portata dalla norma costituzionale: questa non starebbe nell’immutazione della natura della responsabilità dell’Ente, che andrebbe sempre qualificata, come nel sistema anteriore all’entrata in vigore della Costituzione, in termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l’Ente di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l’una o l’altra od entrambe.
La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere interrotta l’imputazione giuridica dell’attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11 agosto 2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell’ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell’Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno dell’imputabilità dell’atto all’Amministrazione, per interruzione del rapporto organico, determina la nullità dell’atto stesso, per mancanza di uno degli «elementi essenziali» – ex art. 21 septies, I. n. 241 del 1990 – individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo alla stessa P.A., escludendosi che l’atto de quo possa dirsi posto in essere da una P.A. nell’esplicazione di un’attività amministrativa).
E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18 del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l’art. 28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del 1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
1.2. La normativa codicistica
Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi corrisponde all’art. 1242, in forza dell’Ordonnance n. 2016-31 del 10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les maitres et les commettants … sont solidairement responsables du dommage causé … par leurs domestiques et préposés dans les fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea sia l’altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di preposizione, è stato via via ampliato in forza di un’interpretazione evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell’opera di altri a loro legati in forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza: su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
Si è, al riguardo, superata l’originaria configurazione della responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria, cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si risolve nell’introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n. 25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026, espressamente fonda la responsabilità del primo sull’inserimento del secondo nell’apparato organizzativo della P.A.) di un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l’avvalimento, da parte di un soggetto, dell’attività di un altro per il perseguimento di propri fini comporta l’attribuzione al primo di quella posta in essere dal secondo nell’ambito dei poteri conferitigli.
Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne l’imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze generali dell’ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell’operato di altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte per l’imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
2. Il nesso di occasionalità necessaria
Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall’avvalimento dell’altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed all’illiceità del fatto del preposto):
Nesso che è stato ritenuto sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall’esercizio delle incombenze, ma pure nell’ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo all’ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un’attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all’espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/16, cit.).
Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste – anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di contrarietà ad esso o di eccesso dall’ambito dei poteri conferiti – secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
L’appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si avvale dell’altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell’organizzazione dei propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile o – secondo i principi di causalità adeguata elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576 – «più probabile che non», in un dato contesto storico.
3. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici
Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità:
- una prima, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all’ente;
- una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere.
Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell’art. 2043 cod. civ., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U.22/07/1999, n. 500) o si riconduce all’estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
- Nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l’immedesimazione organica – di regola – pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all’ente; del resto, con l’introduzione dell’art. 21 septies legge n. 241 del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale – in genere esclusa se l’atto integra l’elemento oggettivo di un reato – comporta la mera nullità e non più l’inesistenza dell’atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l’attribuibilità all’ente dell’atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
- Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l’operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all’ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l’operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell’ente pubblico – se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni – al di fuori dell’esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell’operato di altri.
Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell’ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell’U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona – ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130 – e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei – 18 – diritti non può mai a queste essere – se non altro sic et simpliciter o in linea di principio – sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un’adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina pubblicistica, della ricostruzione sistematica di un regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che cioè esse siano poste in essere nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
- Nel primo caso, l’illecito è riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 cod. civ.;
- nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell’Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall’art. 2049 cod. civ.
Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico – ex art. 61 cpv. legge 11 luglio 1980, n. 312, su cui v. Corte cost. n. 64 del 1992 – o dei magistrati ex lege 113/87, su cui v. tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un’esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa.
Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l’art. 28 Cost. non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, piuttosto essendo finalizzata all’esclusione dell’immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune.