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1. Overview sul Contratto di disponibilità, tra il previgente e l’attuale Codice appalti

Il contratto di disponibilità, come noto è uno schema contrattuale introdotto dall’art. 44 del D.L. n. 1 del 24 gennaio 2012 (recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, poi convertito con la L. n. 27/2012)  ed inserito nel corpus del D.Lgs. n. 163/2006 all’art. 160 ter.

In pieno clima di spending review, questo strumento sembrava rispondere alle esigenze dell’Amministrazione – stazione appaltante di acquisire un’opera (o il diritto di utilizzarla o, per usare le parole del legislatore, di “averla a disposizione”) interamente realizzata dai privati, con ogni onere e rischio in capo al realizzatore e rispondente alle esigenze dell’Amministrazione stessa, sia sotto il profilo delle performances che dal punto di vista dei costi.

Il nucleo dell’istituto andava, quindi, ricercato nell’esigenza delle stazioni appaltanti di munirsi di un’opera ad un costo pre-determinato e di azzerare il “rischio progetto”, il “costo di manutenzione” ed il “costo di fine-vita”.

Quest’ultimo punto, soprattutto, rende questo strumento utile e duttile, soprattutto, per la realizzazione di impianti caratterizzati da alti costi di manutenzione e di chiusura, come ad esempio gli impianti di trattamento dei rifiuti. Infatti, la peculiare formulazione dell’istituto lascia l’Amministrazione libera di utilizzare l’impianto, con le performances necessarie al buon funzionamento dello stesso (si pensi che l’avvio della procedura di acquisizione del contratto di disponibilità si apre con un “capitolato prestazionale”), ma senza i maggiori costi legati alla localizzazione ed alla disponibilità dell’area di sedime (e, quindi, al prolungarsi dei lavori), alla manutenzione nel corso dell’utilizzo, i costi di bonifica e chiusura.

Tutte le variabili suscettibili di apportare alterazioni di tempi e costi vengono “azzerate”, riconducendo ogni problematica alla erogazione di un canone, predeterminato, che l’Amministrazione versa al privato per l’utilizzo dell’opera (che deve essere sempre in perfette condizioni di funzionamento) ed, eventualmente, ad un rateo finale per il “riscatto” dell’opera, in modo che l’Amministrazione ne acquisti la proprietà.

L’enfasi del legislatore sul collocamento del rischio in capo al privato imprenditore, viene accentuata per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 4-bis, comma 1, lettere a) e b), L. n. 134/2012. La novella, infatti, da un lato prevede che l’affidatario assume il rischio della costruzione e della gestione tecnica dell’opera per il periodo di messa a disposizione dell’amministrazione aggiudicatrice. Per altro verso, poi, dispone che il rischio della mancata o ritardata approvazione da parte di terze autorità competenti della progettazione e delle eventuali varianti è a carico dell’affidatario.

L’Amministrazione, per suo conto – e salvo diversa determinazione contenuta nel contratto – assume solamente i rischi sulla costruzione e gestione tecnica dell’opera derivanti da mancato o ritardato rilascio di autorizzazioni, pareri, nulla osta e ogni altro atto di natura amministrativa che – infatti – normativamente sono a carico del soggetto aggiudicatore. Tale ultima determinazione, a ben vedere, appare da un lato superflua e dall’altro lato ridondante; superflua, perché l’Amministrazione può scegliere di non impegnarsi sul “rischio costruzione” e sul “rischio progetto” (altrimenti, perderebbe molti dei vantaggi che l’istituto in questione le offre) e ridondante, perché il rilascio di autorizzazioni, nulla osta e pareri spesso dipende proprio dall’attività dell’Amministrazione stessa.

E questa “piena autonomia” dell’imprenditore si spinge sino a far sì che il legislatore riconosca che l’amministrazione aggiudicatrice può attribuire all’affidatario il ruolo di autorità espropriante.

Per effetto dell’art. 13, comma 1, L. n. 164/2014, poi, si aggiunge che l’adempimento degli impegni dell’amministrazione aggiudicatrice resta in ogni caso condizionato al positivo controllo della realizzazione dell’opera ed alla messa a disposizione della stessa secondo le modalità previste dal contratto di disponibilità.

In questo modo, quindi, viene in luce un istituto di partenariato pubblico-privato del tutto peculiare, in cui il normale equilibrio che sussiste nei contratti di partenariato – caratterizzandoli rispetto agli appalti – viene ad essere “appiattito” e spostato ex ante sulla computazione del “canone di disponibilità”.

In questa formulazione, l’istituto viene trasferito – pressoché “tal quale” – nel D.Lgs. n. 50/2016; per tale ragione, le riflessioni formulate in prosieguo sono indirizzate all’istituto, sia nella sua versione attuale, sia in quella risultante dal previgente Codice appalti.

2. Il contratto di disponibilità: una forma di partenariato pubblico-privato sui generis e la diffidenza del mondo imprenditoriale

In altri termini, questo istituto sembra cristallizzare le posizioni delle parti al momento della stipula del contratto, senza preoccuparsi delle modifiche o delle esigenze di riequilibrio che possono manifestarsi nel corso del tempo.

In questo tratto distintivo – rispetto alle concessioni in generale ed alle forme di partenariato pubblico-privato – è racchiusa l’essenza, ma anche il destino dell’istituto.

Infatti, nonostante la velleitaria affermazione del legislatore, contenuta nell’ultimo comma dell’art. 160-ter (“le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle infrastrutture di cui alla parte II, titolo III, capo IV”, cioè i “lavori relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi”), facesse intendere che il contratto di disponibilità fosse destinato a regolamentare la realizzazione delle infrastrutture più importanti del Paese, di fatto – invece – questo istituto è sempre stato guardato con diffidenza e – nella pratica – è rimasto desueto.

Anche il legislatore ha dovuto prendere atto del sostanziale fallimento di questo schema contrattuale, tanto che l’unica palpabile differenza nella formulazione dell’istituito, tra il previgente e l’attuale codice appalti (ove il contratto di disponibilità è disciplinato dall’art.188) è proprio la mancanza dell’ultimo comma … che suona come una sorta di abbandono progressivo della speranza di vedere realizzate infrastrutture ed insediamenti produttivi a totale rischio di costruzione del privato.

Sotto il profilo dell’allocazione del rischio, dunque, questo istituto non è stato apprezzato dal mondo imprenditoriale, forse proprio a cagione di quella rigidità dello schema “uso dell’opera – controprestazione canone” che non consente, di fatto, al privato imprenditore di valutare appieno il “rischio d’impresa”, non essendovi alcun meccanismo di riequilibrio dell’investimento.

Da questo punto di vista, quindi, lo strumento del contratto di disponibilità sembra andare oltre la definizione – contenuta all’art. 3, comma 15-ter D.Lgs. n. 163/2006 – di “partenariato pubblico-privato”, secondo la quale “ai fini del presente codice, i «contratti di partenariato pubblico privato» sono contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti.”. Tale definizione, infatti, pur consentendo l’utilizzo di strumenti che collochino il “rischio di costruzione” (in questo caso, ovviamente, non il “rischio di gestione”, nonostante il wording dell’art. 160-ter, comma 2) in capo ai privati, tuttavia indica la possibilità di graduare tale rischio, mitigandolo con meccanismi di compensazione – tipici delle concessioni – provenienti dalla giurisprudenza e prassi comunitarie.

L’istituto in esame, effettivamente, si discosta dallo schema del “partenariato” propriamente detto, virando verso meccanismi più consoni ad un vero e proprio appalto … ma – anche in quest’ottica – senza i rimedi applicabili alla fase patologica dell’equilibrio contrattuale degli appalti propriamente intesi.

La centralità del “canone di disponibilità” è viepiù evidente nell’incipit dell’art. 160 – ter, laddove non viene descritto “l’oggetto” del contratto di disponibilità, ma – più concretamente – si afferma che: “l’affidatario del contratto di disponibilità è retribuito con i seguenti corrispettivi, soggetti ad adeguamento monetario secondo le previsioni del contratto…”.

Il fluire della norma, poi, non risponde alla domanda “qual è l’oggetto del canone di disponibilità”, ma si limita ad indicare quali siano gli impegni dell’imprenditore privato e quali quelli dell’Amministrazione (che si riduce, sostanzialmente, al pagamento del canone). In tal modo, si lascia intendere che l’istituto possa essere utilizzato per disciplinare una serie indeterminata di opere pubbliche, con il chiaro intento di agevolare la diffusione di questa forma di partnership.

3. Il canone di disponibilità

Analoga dicitura si ritrova nell’art. 188, comma 1 D.Lgs. n. 50/2016, ove si riporta la stessa previsione contenuta nel previgente Codice: “l’affidatario del contratto di disponibilità è retribuito con i seguenti corrispettivi, soggetti ad adeguamento monetario secondo le previsioni del contratto: a) un canone di disponibilità, da versare soltanto in corrispondenza alla effettiva disponibilità dell’opera; il canone è proporzionalmente ridotto o annullato nei periodi di ridotta o nulla disponibilità della stessa per manutenzione, vizi o qualsiasi motivo non rientrante tra i rischi a carico dell’amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 3; b) l’eventuale riconoscimento di un contributo in corso d’opera, comunque non superiore al cinquanta per cento del costo di costruzione dell’opera, in caso di trasferimento della proprietà dell’opera all’amministrazione aggiudicatrice; c) un eventuale prezzo di trasferimento, parametrato, in relazione ai canoni già versati e all’eventuale contributo incorso d’opera di cui alla precedente lettera b), al valore di mercato residuo dell’opera, da corrispondere, al termine del contratto, in caso di trasferimento della proprietà dell’opera all’amministrazione aggiudicatrice.”

Oltre al canone, dunque, il legislatore ammette anche l’erogazione di un “contributo in corso d’opera” (il che rappresenta un altro caso di “anticipazione del prezzo”, che richiama il principio generale contenuto nell’art. 35, comma 18 D.Lgs. n. 50/2016), ma soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia previsto di acquistare l’opera: infatti, tale contributo sarà detratto dal prezzo di acquisto dell’opera a fine contratto.

Al di fuori di tale ipotesi, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere il canone con regolarità, ma senza deroghe rispetto all’ammontare a suo tempo pattuito e “cristallizzato” nel contratto di disponibilità.

E non solo. Sibillinamente, l’ultima parte del comma 6 dell’art. 188 D.Lgs. n. 50/2016 afferma che l’adempimento degli impegni dell’amministrazione aggiudicatrice resta in ogni caso condizionato al positivo controllo della realizzazione dell’opera e dalla messa a disposizione della stessa secondo le modalità previste dal contratto di disponibilità. Come a dire che l’Amministrazione verserà il canone solo nel caso in cui l’opera sia realizzata “a regola d’arte” e sia pienamente “idonea all’uso”.

Anche in questo caso, sembra stridente il contrasto fra l’onere imposto all’Amministrazione di versare il canone di disponibilità… soltanto in corrispondenza alla effettiva disponibilità dell’opera e quello addossato all’imprenditore, di prestare la cauzione definitiva di cui all’articolo 103 e, inoltre, dalla data di inizio della messa a disposizione da parte dell’affidatario anche una cauzione a garanzia delle penali relative al mancato o inesatto adempimento di tutti gli obblighi contrattuali relativi alla messa a disposizione dell’opera, da prestarsi nella misura del dieci per cento del costo annuo operativo di esercizio e con le modalità di cui all’articolo 103;

Anzi, in caso di varianti al progetto approvato, l’imprenditore – affidatario ha la facoltà di introdurre le eventuali varianti finalizzate ad una maggiore economicità di costruzione o gestione, ma senza ulteriori riconoscimenti: la norma, infatti, non dispone a riguardo e, così, indirettamente rinvia al primo comma, in cui il principio granitico dell’istituto è chiaramente declinato e riporta all’esaustività del canone di disponibilità.

4. Il progetto

Infine, nell’esaminare i tratti distintivi dell’istituto è doveroso esplorare anche il tema progettuale.

In proposito, il terzo comma dell’art. 188, D.Lgs. n. 50/2016, afferma che a base dell’intera procedura di selezione del concorrente privato, viene posto un semplice “capitolato prestazionale”, predisposto dall’amministrazione aggiudicatrice, che indica, in dettaglio, le caratteristiche tecniche e funzionali che deve assicurare l’opera costruita e le modalità per determinare la riduzione del canone di disponibilità … Le offerte devono contenere un progetto di fattibilità rispondente alle caratteristiche indicate in sede di gara. … l’amministrazione aggiudicatrice valuta le offerte presentate con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa … individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo. Il bando indica i criteri, secondo l’ordine di importanza loro attribuita, in base ai quali si procede alla valutazione comparativa tra le diverse offerte.

Con riguardo al testo della norma ora citata, viene spontaneo rilevare la contraddittorietà in termini fra il termine “capitolato prestazionale” (che si assume essere una preliminare descrizione delle esigenze dell’Amministrazione (altrimenti avrebbe assunto la dignità di uno “studio di fattibilità” o, comunque, una qualifica progettuale) ed il riferimento al “dettaglio” delle caratteristiche tecniche e funzionali dell’opera e, addirittura, le modalità (si ipotizza, i “criteri tecnici”, trattandosi si gara da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) per determinare il canone di disponibilità.

Nella versione della norma che precede il I Decreto Correttivo del Codice Appalti, al posto del “capitolato prestazionale” era previsto uno “studio di fattibilità”; tale riferimento è stato poi modificato, ma ne è rimasta traccia nel successivo comma 5, laddove si specifica che il progetto definitivo, il progetto esecutivo e le eventuali varianti in corso d’opera sono redatti a cura dell’affidatario; l’affidatario ha la facoltà di introdurre le eventuali varianti finalizzate ad una maggiore economicità di costruzione o gestione, nel rispetto del progetto di fattibilità tecnico-economica approvato dall’amministrazione aggiudicatrice e delle norme e provvedimenti di pubbliche autorità vigenti e sopravvenuti; il progetto definitivo, il progetto esecutivo e le varianti in corso d’opera sono ad ogni effetto approvati dall’affidatario, previa comunicazione all’amministrazione aggiudicatrice la quale può, entro trenta giorni, motivatamente opporsi ove non rispettino il capitolato prestazionale e, ove prescritto, alle terze autorità competenti.

A questo punto, nello schema tipico delineato dalla norma, si cita uno “studio di fattibilità” che – probabilmente frutto di un refuso – non è riconducibile né ad onere della stazione appaltante, né a carico del privato-affidatario.

Inoltre, in un momento così delicato ai fini della quantificazione della spesa per la realizzazione dell’opera – cioè la fase di approvazione del progetto definitivo ed esecutivo – il privato-affidatario assume addirittura il compito di “approvare il progetto”, mentre l’Amministrazione-committente può soltanto “opporsi motivatamente”, nel caso in cui il progetto non rispetti il capitolato prestazionale posto a base di gara.

Ciò, nella pratica, potrebbe diventare un passaggio quasi “di stile”, giacché – per un verso – l’Amministrazione potrebbe non avere le competenze per motivare tecnicamente il suo dissenso e – per altro verso – potrebbe respingere tout court i vari livelli di progettazione – ad esempio, nel caso in cui il progetto risultasse troppo costoso – affermando che i progetti non rispettano i livelli prestazionali richiesti.

Ed anche su questo punto, si potrebbe obiettare che sulla base di un capitolato prestazionale è alquanto difficoltoso effettuare valutazioni economiche, tali da rendere possibile un confronto fra costi nascenti dal capitolato a base di gara e costi stimati in progetto.

Ed anche in questo caso, quindi, si palesa la situazione di sostanziale disequilibrio tra le parti, per cui l’imprenditore – affidatario potrebbe trovarsi impegnato nella progettazione di opere (anche assai complesse), avendo per giunta depositato la cauzione, ma esposti ad eventuali critiche del Committente – con la conseguenza della possibile mancata erogazione del corrispettivo perché, come detto sopra, il canone viene corrisposto solo in corrispondenza alla effettiva disponibilità dell’opera.

5. Conclusioni

In conclusione, si è potuto verificare come l’istituto in esame – nato per disciplinare la realizzazione di infrastrutture nodali per lo sviluppo del Paese – presenta indubbi vantaggi per l’Amministrazione, che ne assicurerebbero l’ampia diffusione.

Tali vantaggi, però, costituiscono per il privato altrettante criticità: il che porta alla sostanziale aridità di questa forma di partenariato.

Il tratto essenziale sul quale si potrebbe riflettere de jure condendo, per riportare in auge l’istituto, consiste nel ricondurre il contratto di disponibilità nell’alveo dello schema concessorio o di partnership, dal quale attualmente si discosta proprio per l’amplissima discrezionalità lasciata all’Amministrazione.

In altri termini, una rimodulazione del “rischio progetto” e del “rischio costruzione” a carico del privato, che sia più realistica in rapporto all’entità delle opere da costruire, potrebbe fungere da volano per il rilancio dell’istituto, anche senza stravolgerne i tratti essenziali.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Emanuela Pellicciotti
Esperta in infrastrutture e contratti pubblici
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