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Premessa

Tra i principi più importanti codificati dal Legislatore, soprattutto quello della fiducia – declinato all’art. 2 del Codice – riscuote l’attenzione degli operatori pubblici, particolarmente attenti agli effetti che tale principio, orientato a prediligere l’azione rispetto alla condotta omissiva, produce in termini di responsabilità erariale.

Le ragioni ispiratrici di tale principio sono le stesse che muovono l’intero Codice: superare la cd. paura della firma per consentire che gli obiettivi di risultato, affermati all’art. 1 del d. lgs. 36/2023, possano concretamente essere perseguiti mitigando la responsabilità erariale attraverso una serie di interventi legislativi di cui il Codice dei contratti costituisce solo una parte.

Alle novità introdotte dal Codice si aggiungono, infatti, altre norme contenute in provvedimenti legislativi altrettanto rilevanti, che devono essere tenute in pari considerazione se si vuole godere di una lettura sistematica e completa dell’argomento in grado di orientare l’operato del funzionario pubblico. All’orizzonte, poi, oltre alla proroga del cd. scudo erariale entrata di recente in vigore a seguito del d.l. Milleproroghe 2025, si potrebbero profilare ulteriori importati novità se fosse approvato il cd. disegno di legge Foti che mira a limitare ulteriormente le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti attraverso la riforma dell’intero sistema erariale e di cui si farà cenno appresso.

Cerchiamo allora di fornire una panoramica per quanto possibile esaustiva del tema tenendo conto della portata, che investe non solo il dipendente pubblico tout court ma anche i privati che, per legge o convenzionalmente, si trovano a svolgere attività amministrative o siano destinatari di contribuzioni concesse per la realizzazione di progetti di pubblico interesse.

1. Brevi cenni sugli elementi della responsabilità erariale

Occorre preliminarmente rammentare che, affinché la condotta posta in essere dall’agente pubblico possa rilevare in termini di responsabilità erariale, è necessario che si configurino tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di danno, vale a dire:

  • il rapporto di servizio
  • il nesso di causalità
  • l’elemento oggettivo
  • l’elemento soggettivo

In linea generale, il rapporto di servizio, come detto, presuppone che il soggetto agente svolga attività di rilievo pubblico in grado di incidere sull’erario. In questi termini la nozione include anche i dipendenti di società in house che, pur sottoposti ad una disciplina privatistica per quanto attiene al rapporto di lavoro e alla gestione del bilancio aziendale, sono soggetti a responsabilità erariale nel caso di danno direttamente o indirettamente recato alle casse pubbliche. Sul tema, oltre a formarsi consolidata giurisprudenza nel corso degli anni, ha fornito chiarezza il d. lgs. 175/2016 (cd. decreto Madia) che all’art. 12, recante Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate, da un lato ha chiaramente affermato la giurisdizione della Corte dei Conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house e, dall’altro, ha fornito la nozione di tale tipologia di danno, includendovi anche quello non patrimoniale o che sia conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.

Il nesso di causalità presuppone che il danno erariale debba essere stato conseguenza dell’azione o omissione posta in essere dal soggetto agente.

Abbandonata la primigenia teoria della conditio sine qua non – secondo cui si riteneva sufficiente un minimo apporto alla provocazione del danno al fine di poter configurare la relativa responsabilità – in dottrina prevale oggi la teoria della causa efficiente in virtù della quale la condotta tenuta dall’agente deve aver inciso in misura determinante al verificarsi del danno.

Quest’ultimo, inteso quale elemento oggettivo, della responsabilità, non include solo il danno materiale all’erario, ma può comprendere anche la lesione di beni immateriali, tra cui il diritto all’immagine o il danno da disservizio. Il danno può inoltre configurarsi come diretto, indiretto o obliquo a seconda che sia causato direttamente alla Pubblica Amministrazione, oppure sia recato ad un terzo che la Pubblica Amministrazione è tenuta a risarcire o, infine, sia cagionato ad altra pubblica amministrazione.

Tra gli elementi su cui ha più inciso il Legislatore, sicuramente vi è quello soggettivo del dolo o della colpa grave.

Quest’ultima in particolare, si configura come una evidente trascuratezza dei propri doveri conseguente ad un comportamento improntato a massima negligenza imprudenza o imperizia tale da rendere manifestamente evidente la noncuranza dell’interesse pubblico. Indici tipici di riconoscimento di tale grado della colpa sono stati ritenuti:

  • la prevedibilità dell’evento dannoso;
  • il superamento apprezzabile dei limiti di comportamento dell’uomo medio, o anche il notevole superamento di detti limiti, per chi riveste una figura professionale alla quale vanno richieste particolari doti di diligenza, prudenza e perizia.

Il relativo giudizio deve ispirarsi all’atteggiamento tenuto dal convenuto in relazione agli obblighi di servizio ed alle regole di condotta relativi allo svolgimento degli specifici compiti di ufficio affidati alla sua responsabilità (cfr. Corte dei conti, sentenza 12 agosto 2022, n. 141).

E’ evidente che la scelta operata dal Legislatore di rimettere la definizione del concetto di gravità della colpa agli indirizzi giurisprudenziali formatisi nel corso del tempo e che, di volta in volta, e con orientamenti mutevoli individuano gli indici rivelatori dello stato di gravità, ha contribuito a ingenerare un certo grado di indeterminatezza, non consentendo agli operatori pubblici di individuare agevolmente i margini di legittimità dell’azione entro i quali l’operato amministrativo può dirsi esente da rischi di natura erariale.

Per consentire una celere ripresa del mercato degli appalti, fortemente compromesso dalla pandemia Covid del 2019/2020 si è allora reso necessario, proprio al fine di favorire il principio del risultato, prendere coscienza di tale criticità il cui superamento richiede una delimitazione normativa – e non più solo giurisprudenziale – possibilmente chiara del concetto di colpa grave, così da renderla meno scevra da interpretazioni mutevoli.

In tal senso l’obiettivo di definire la colpa grave ha rappresentato una delle due direttrici che hanno orientato la riforma.

L’altra è costituita dalla individuazione dei casi che certamente non generano responsabilità erariale e per i quali, sempre nell’ottica del risultato, il Legislatore ha preferito prediligere la condotta commissiva piuttosto che quella omissiva così evitando, in concreto, che la maggiore discrezionalità concessa agli amministratori pubblici proprio nell’ottica del principio della fiducia possa essere fiaccata da norme e presupposti poco chiari e dunque forieri di eventuali rischi di responsabilità erariale.

Quindi, nell’intento di rimettere in moto l’economia con una certa urgenza, il Legislatore, oltre a definire in senso positivo la colpa grave, ne ha anche fornito una definizione negativa, individuando i casi che certamente non integrano tale elemento soggettivo.

2. La nozione in positivo di colpa grave

La definizione in positivo di colpa grave si rinviene ora per la prima volta – seppur limitatamente all’ambito della contrattualistica pubblica – nella prima parte del comma 3 dell’art. 2 del Codice.

I casi di colpa grave tipizzati dal Legislatore sono indentificati nella “violazione di norme di diritto, degli auto-vincoli amministrativi, nella palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e nell’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto”.

Oltre alla grave negligenza, imprudenza o imperizia, dunque, pure la violazione di diritto e degli auto-vincoli amministrativi da parte dell’agente pubblico che per competenza sia deputato ad averne piena cognizione legittimano la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa grave. Anche per tali casi la sussistenza della colpa grave dovrà essere dimostrata in relazione al caso concreto e alle ragioni che hanno motivato l’agire amministrativo, in attuazione dei principi ispiratori del Codice ed, in particolare di quello del risultato, che, insieme al principio della fiducia costituiscono “criteri prioritari per l’esercizio del potere discrezionale delle amministrazioni” (Consiglio di Stato, sentenza 13 settembre 2024, n. 7571).

Con riferimento, nello specifico, agli auto-vincoli amministrativi, rientrano nella suddetta casistica tutti i casi di violazione delle regole che la stazione appaltante, pur non essendo tenuta ad adottare, si è imposta nell’esercizio del proprio potere discrezionale, decidendo di porle a presidio dello svolgimento del proprio operato; ciò al fine di regolamentare criteri e modalità dell’agire amministrativo in modo da evitare, per quanto possibile, decisioni imparziali e, nel caso specifico dei contratti pubblici, lesive del principio di concorrenza oltre che del principio di affidamento che l’operatore economico ripone nell’amministrazione (art. 3 del Codice) .

L’esempio più immediato è costituito dall’adozione da parte di una pubblica amministrazione di procedimenti tipizzati che, sebbene non resi obbligatori dalle norme, vengano poi immotivatamente disattesi dall’agente pubblico (si veda Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 24 maggio 2024, n. 4659).

3. La nozione in negativo di colpa grave

Nell’ottica di sostenere l’operato dell’agente pubblico, il Legislatore ha anche delimitato i confini esterni della colpa grave individuando in negativo le condotte che non rientrano nella suddetta casistica e costituiscono, pertanto, vere e proprie esimenti della responsabilità.

Le norme di riferimento sono in tal caso costituite dai seguenti articoli:

  • l’ultimo capoverso del comma 3 dell’art. 2 del Codice;
  • l’art. 215 del Codice;
  • l’art. 21 del d.l. 76/2020;
  • l’art. 1 del d. lgs. 20/1994.

L’ultimo capoverso del comma 3 dell’art. 2, in particolare, afferma che “Non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”.

La scelta operata dal Legislatore non appare in tal caso scevra da problematiche di tipo interpretativo soprattutto nella parte in cui rinvia agli indirizzi giurisprudenziali “prevalenti” senza fornire una definizione di tale concetto.

Se è chiaro, infatti, che può definirsi come prevalente l’indirizzo univoco relativo ad una determinata questione, non altrettanto può dirsi allorquando insorgano contrasti giurisprudenziali tra giudici di diverso grado o, addirittura, tra giurisdizioni diverse. Che fare in tal caso? Quale orientamento seguire?

Parimenti anche il riferimento ai “pareri della autorità competenti” lascia adito a dubbi: a parte i pronunciamenti dell’ANAC, possono, ad esempio, rientrarvi anche i pareri espressi dalla Struttura del Ministero delle Infrastrutture che fornisce supporto giuridico alle Stazioni Appaltanti? Sul tema, a fronte di specifica istanza formulata da una stazione appaltante, ha avuto modo di esprimersi lo stesso Ufficio senza però dare un riscontro effettivamente risolutivo alla problematica atteso che  nel parere n. 2159 reso in data 19 luglio 2023 esso si è limitato a chiarire che “le risposte fornite dal Servizio, hanno natura di atti meramente consultivi e non vincolanti per le stazioni appaltanti e rappresentano valutazioni di tipo ermeneutico circa le disposizioni in materia di contratti pubblici, ferma restando l’autonomia e responsabilità gestionale delle stesse stazioni appaltanti”.

Certamente vi è da dire che tale Ufficio non rientra propriamente nel concetto di “autorità”, secondo l’accezione tipica del termine, non essendo esso investito di poteri di comando o di controllo il che potrebbe indurre la Corte dei Conti a non includere la Strutture del Ministero nel novero delle autorità propriamente dette.

Oltre all’art. 2, il Codice dei contratti prevede anche un’ulteriore esimente della responsabilità erariale all’art. 215, comma 3 correlata all’utilizzo dell’istituto del Collegio Consultivo Tecnico.

Nella specie tale articolo stabilisce che “L’inosservanza dei pareri o delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali. L’osservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è causa di esclusione della responsabilità per danno erariale, salva l’ipotesi di condotta dolosa”.

Il contenuto della norma può essere schematicamente riassunto come segue:

  • l’inosservanza di pareri o determinazioni del CCT genera:
  • sul piano civile, un’inversione dell’onere della prova del grave inadempimento a carico della stazione appaltante;
  • sul piano erariale è valutata ai fini di un’eventuale responsabilità;
  • l’osservanza delle determinazioni del CCT (e non anche dei pareri) costituisce esimente, limitatamente ai casi colpa grave, della responsabilità erariale;
  • l’osservanza dei pareri del CCT non è parimenti esimente della responsabilità erariale.

Al fine di arginare il più possibile la responsabilità contabile, è allora evidente l’interesse dell’amministrazione ad attribuire poteri determinativi al CCT in luogo di quelli meramente consultivi propri dei pareri ogni qualvolta ciò risulti possibile.

Alle specifiche disposizioni del Codice, evidentemente circoscritte solo ai procedimenti inerenti alla contrattualistica pubblica, si aggiungono le previsioni, di contenuto più generale in quanto riferite anche a procedimenti diversi da questi ultimi, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (recante Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti).

In particolare l’art. 1 di tale legge se da un lato – per effetto delle modifiche introdotte dal d. l. n. 76/2020 – afferma la necessità di comprovare la volontà dell’evento dannoso in caso di dolo (così escludendo una lettura civilistica di tale elemento soggettivo, optando per un’interpretazione in chiave penalistica) dall’altro prevede l’esimente dalla colpa grave per tutti i casi in cui l’evento dannoso tragga origine dall’emanazione di atti vistati e registrati in sede di controllo preventivo di legittimità, nei limiti dei profili oggetto di controllo.

Lo stesso articolo prevede poi l’esclusione della gravità della colpa laddove il fatto dannoso abbia tratto origine da decreti che determinano la cessazione anticipata, per qualsiasi ragione, di rapporti di concessione autostradale oggetto di decreti vistati e registrati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità svolto su richiesta dell’amministrazione procedente.

La norma in argomento, e più in generale i contenuti della legge n. 20/1994, costituiscono oggetto di una proposta di riforma, avanzata con il ddl n.  1621/2024 (meglio noto come disegno Foti) che mira ulteriormente ad estendere l’ambito applicativo delle esimenti dalla colpa grave, prevedendone l’esclusione anche nel caso in cui il fatto dannoso tragga origine da atti o documenti propedeutici a quello vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità e non più, solo, ai profili della condotta oggetto di controllo preventivo.

È evidente che siffatta modifica, ove attuata, è volta a introdurre un effetto tombale sulla responsabilità erariale del soggetto agente estendendo l’operatività dell’esimente all’intero procedimento amministrativo che conduce all’emanazione dell’atto sottoposto a controllo di legittimità e non limitatamente a quest’ultimo.

Su tale disegno di legge la Corte dei Conti con il parere n. 3/2024 ha avuto modo di esprimere le proprie perplessità soprattutto in considerazione del fatto che, attraverso l’eliminazione del riferimento normativo che circoscrive l’esimente ai “profili  presi in considerazione nell’esercizio del  controllo”, esclude “a priori, la gravità della colpa solo per la circostanza che sia stato espletato il controllo preventivo di legittimità e senza che vi sia alcun legame tra l’esimente e le attività conseguenti all’esecuzione dell’atto su cui è stato apposto il visto”. In tal modo, secondo la Corte, la modifica proposta pecca di ragionevolezza e si pone in contrasto con i dettami statuiti dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 132/2024 – di cui si farà cenno appresso – secondo la quale l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa può essere limitato e circoscritto solo in presenza di particolari o eccezionali ragioni che la giustifichino.

4. L’art. 21 del d.l. 76/2020: lo scudo erariale

Oltre alle norme già citate, il Legislatore ne ha introdotta un’altra più ampia portata: l’art 21 del d. l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120 finalizzata a circoscrivere ulteriormente i casi in cui possa essere invocata la responsabilità per colpa grave attraverso l’introduzione di un deroga al sopracitato art. 1 della legge n. 20/1994.

Si tratta di una disposizione a tempo originariamente destinata a rimanere in vigore solo fino al 30 giugno 2023 e poi successivamente prorogata per mezzo di ulteriori provvedimenti legislativi e, da ultimo, dal d.l. 27 dicembre 2024, n. 2024, meglio noto come “Milleproroghe 2025”, fino al 30 aprile 2025.

L’articolo in questione ha introdotto un vero e proprio scudo erariale disponendo che Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e (ora) fino al 30 aprile 2025 la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”.

L’intento del Legislatore è evidente: privilegiare il fare rispetto al non fare, così da indurre l’agente amministrativo ad una condotta attiva orientata al perseguimento dell’obiettivo pubblico.

L’ampia portata applicativa di tale norma ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale (con riferimento in particolare agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 della Costituzione) che sono poi sfociati in un giudizio concluso con la già citata sentenza di inammissibilità della Corte costituzionale n. 6 giugno 2024, 132.

La pronuncia resa dalla Corte è destinata a costituire una pietra miliare della giurisprudenza in tema di responsabilità erariale, essendosi dovuta esprimere sul bilanciamento tra i profili soggettivi della responsabilità erariale e le esigenze di “risultato” imposte alla pubblica amministrazione, braccata dalla “paura della firma”. Tale problematica, secondo la Corte, scaturisce da una serie di concause: la difficoltà di individuare le norme applicabili anche per effetto di una sovraregolamentazione che rende difficilmente individuabili i confini di una conforme condotta del soggetto agente; l’inadeguatezza dell’amministrazione a stare al passo con le nuove norme; la complessità dei procedimenti amministrativi, resi ancora più articolati dal pluralismo sociale e istituzionale che inevitabilmente vede più attori coinvolti negli iter amministrativi.

Sul tema la Corte, partendo da un precedente del 1998 (in particolare la sentenza n. 371/1998) ha rintracciato il punto di equilibrio tra i due interessi relazionandolo “al contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico”.

Ne deriva che tale punto di equilibrio è mutevole nel tempo e come tale non può essere cristallizzato in una norma valevole come un vestito per tutte le stagioni. Proprio sulla base di tale presupposto la Corte ha dichiarato l’inammissibilità dei profili di legittimità ad essa sottoposti rilevando che l’art. 21 è sostanzialmente legato ad un determinato periodo temporale nel quale il Legislatore, nell’ottica dei principi di efficacia ed efficienza dell’agire amministrativo, ha avvertito la prevalente esigenza di limitare entro un determinato periodo temporale la responsabilità per colpa grave.

Ma proprio tale limitazione temporale, caratterizzante la norma in argomento e che è valsa a garantire la rispondenza della norma al dettato costituzionale costituisce secondo la Corte dei Conti il limite invalicabile oltre il quale qualsivoglia esimente di contenuto così generale, come quella proposta nel ddl Foti, potrebbe porsi in contrasto con la nostra Carta costituzionale, ragione per la quale, presumibilmente, tale disegno di legge sta incontrando una serie di rallentamenti.

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Questo articolo è stato scritto da...

Dott.ssa Barbara Carducci
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