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Gli affidamenti in house devono essere motivati in ordine al mancato ricorso al mercato: questo è il principio confermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 100/2020. Quali orizzonti potrebbe aprire tale interpretazione? E’ il tramonto delle società in house, o solo un avvertimento a ben considerare quanto prescritto dagli articoli 1, comma 2 e 4, D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175?
La sentenza della Consulta n. 100/2020: prime riflessioni e reazioni
La Corte costituzionale con la sentenza n. 100 del 27 maggio – 3 giugno 2020 si è pronunciata sulla questione ad essa rimessa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, Sez. II, con l’ordinanza 15 novembre 2018, n. 886.
Il T.A.R. Liguria, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016 (il “Codice appalti”), nella parte in cui si impone alle pubbliche Amministrazioni, qualora intendano affidare in house servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, di esplicitare le motivazioni di tale scelta – in particolare, chiarendo “in concreto” i motivi del mancato ricorso al mercato -.
All’esito della disamina, la Consulta conferma la legittimità costituzionale della norma censurata, ritenendo che l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato – imposto, appunto, dall’art. 192, comma 2 del Codice appalti per gli affidamenti in house -, sia rispondente ad interessi costituzionalmente tutelati, in primis quello della trasparenza dell’azione amministrativa e, subito a seguire, quello sulla libertà di iniziativa economica – si potrebbe aggiungere anche l’obbligo di adeguamento ai principi comunitari, in particolare quello della libertà di concorrenza -.
Nello specifico, la Consulta ha dichiarato che la citata disposizione del Codice appalti non è viziata da eccesso di delega, rispetto a quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lett. a) della Legge-delega n. 11/2016 – non risultando l’obbligo di valutazione della “convenienza/razionalità in concreto” imposta all’Amministrazione, in contrasto con il c.d. “divieto di gold plating”.
La sentenza in commento, dunque, non ha carattere particolarmente innovativo, né interpretativo, ma senz’altro si distingue per aver confermato con nitore un principio forse sin troppo dimenticato, nell’ambito degli appalti pubblici, in nome – dapprima – della “speditezza” negli affidamenti e – poi – della “semplificazione” degli stessi.
Nella presente analisi, dunque, ci si propone di ripercorrere i passaggi motivazionali della sentenza in esame, cercando di proiettarne l’immagine su uno schermo più ampio, ed ipotizzando il diffondersi dei principi enunciati nelle difese delle parti e nelle considerazioni della Corte, in generale, a tutti gli affidamenti in house a favore delle società partecipate.
Questo esercizio – si immagina – potrà tornare utile per la lettura orientata delle annunciate “semplificazioni” normative che – sempre restando ai rumors di stampa – dedicano ampio spazio agli affidamenti di rilevanti segmenti di mercato (soprattutto nel settore dei Lavori Pubblici) alle società partecipate, che si apprestano a rinnovata vitalità.
Per verità di cronaca, pochi giorni prima della pubblicazione della sentenza della Consulta, la stessa Sez. II del T.A.R. Liguria, con la sentenza 6 maggio 2020, n. 278 sembra modificare il proprio precedente orientamento, anticipando le conclusioni della Corte costituzionale. Il caso ultimamente deciso, però, è peculiare e riguarda una procedura aperta indetta, dapprima e poi sospesa, per procedere, poi, all’affidamento in house dei medesimi servizi – senza la previa valutazione di congruità economica dell’in house providing prescritta dall’art. 192, comma 2, D.Lgs. n. 50/2016 e senza alcuna comparazione con le offerte presentate dai concorrenti nella gara revocata -. Il T.A.R. Liguria, in questo caso, ha riconosciuto che l’affidamento in house è viziato da contraddittorietà e sviamento di potere: in tale conclusione, si ricorda la recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 27 gennaio 2020, n. 681 e, soprattutto, l’antesignana decisione della Sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5732, che è stata illuminante anche in un periodo precedente all’emanazione delle grandi riforme del 2016: ci si riferisce, in particolare, al Codice appalti (il D.Lgs. n. 50/2016) ed alla legge di riforma delle Società partecipate (il D.Lgs. n. 175/2016).
I contenuti della sentenza: i fatti di causa e la visione del T.A.R. Liguria
Come anticipato, la sentenza in commento verte sull’analisi circa la legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del codice appalti, il quale dispone: “Ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.”.
Detta norma, si premette, deve essere coordinata necessariamente con una disposizione a priori: l’art. 4, comma 2, lett. a) D.Lgs. n. 175/2016 che, a sua volta, prevede: “… le amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgimento delle attività sotto indicate: a) produzione di un servizio di interesse generale …” (laddove il precedente art. 2, lett. h) qualificava i “servizi di interesse generale” come “attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale;”, cioè, in pratica, servizi usualmente sottratti al mercato o ivi resi disponibili a prezzo maggiore rispetto a quelli praticati mediante l’affidamento in house mentre la seguente lett. i) definiva i “servizi di interesse economico generale” come quelli “erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato”).
Le società in house, quindi, esistono in quanto è stata valutata ex ante la compatibilità delle attività da esse svolte con le disposizioni contenute nella norma di riferimento – il D.Lgs. n. 175/2016 -.
Questo, però, non è sufficiente: per poter affidare in house attività acquisibili sul mercato, le Amministrazioni pubbliche devono effettuare un’ulteriore valutazione: quella sulla “convenienza in concreto”, ossia sull’opportunità di ottenere tramite l’in house providing condizioni più vantaggiose rispetto al mercato – ricreando così la ratio di contenimento della spesa pubblica, sottesa al già citato art. 4, comma 2, lett. a) D.Lgs. n. 175/2016.
Nella sentenza della Consulta, quindi, ciò che sembra spiccare è un indiretto “avvertimento” alle società partecipate ad attenersi al ruolo per esse disegnato dalla legge di riforma: esse – viste quali soggetti eccezionalmente sottratti ai principi comunitari di libera concorrenza – non possono risultare affidatarie dirette di attività che, surrettiziamente (leggasi “senza idonea motivazione in concreto”), vengono così sottratte al libero mercato.
In tale contesto, si inserisce la vicenda esaminata dal rimettente T.A.R. Liguria, che verteva sulla controversia promossa da una società di gestione parcheggi, nei confronti del Comune di Alassio.
La società ricorrente, gestore uscente dei parcheggi cittadini in forza di aggiudicazione mediante procedura aperta, aveva impugnato l’affidamento del predetto servizio – da parte del Comune di Alassio – alla sua società in house. Tale affidamento era avvenuto dopo che la gara indetta, alla scadenza del contratto precedente, era andata deserta.
Il Comune, in limine alla scadenza, aveva preferito non indire una nuova gara, ma di affidare direttamente il servizio.
A dire della ricorrente, l’indizione di una nuova procedura concorrenziale – distinta da un diverso piano di investimenti e da migliori parametri economici – avrebbe consentito un più ampio ricorso al mercato, con conseguente vantaggio anche per l’Amministrazione.
Invece, con l’impugnata Deliberazione della Giunta comunale, si era proceduto all’affidamento diretto alla società in house del Comune – per la verità, accompagnando tale affidamento con una relazione illustrativa sulle “ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per l’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, richiesta dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221” -.
La ricorrente, però, deduce la “violazione dell’art. 106 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dei principi comunitari in materia di in house providing – violazione dell’articolo 1 della L. n. 241/1990 e del principio di trasparenza – violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990 e del principio della motivazione – violazione dell’articolo 192, comma 2, del d.lgs. 50/2016 – violazione dell’art. 34, comma 20, decreto-legge 179/2012 – violazione degli articoli 3 bis commi 1 bis e 6 bis del d.l. 138/2011 – eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento e della carenza di istruttoria”, contestando i contenuti delle citate Delibera di Giunta e relazione.
Innanzitutto, prospettando “la violazione dei princìpi comunitari in materia di in house providing, non avendo l’amministrazione dato adeguatamente conto della preferenza per tale modello rispetto alle altre possibili forme di affidamento, delle valutazioni economico-qualitative dei servizi offerti e della verifica dell’effettiva capacità del gestore di svolgere correttamente il servizio affidato; nonché la violazione dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti: codice dei contratti pubblici), ai sensi del quale l’affidamento diretto dovrebbe essere necessariamente preceduto da una valutazione che dia conto delle ragioni che fanno propendere per una delle diverse tipologie, «motivando, secondo una logica di preferenza via via decrescente, in ordine all’impossibilità di utilizzare: 1) in prima battuta, lo strumento – altrimenti sempre preferibile – dell’affidamento mediante procedura di evidenza pubblica; 2) in subordine, quello dell’affidamento a società mista, che in ogni caso presuppone la gara per la scelta del socio privato; 3) in via di ulteriore subordine, quello dell’affidamento in house e senza gara»”.
Alla contestata violazione degli anzidetti principi generali, segue la censura della violazione del dovere di motivazione “in concreto” sulla convenienza di procedere all’affidamento in house, piuttosto che ricorrere al mercato, mediante l’indizione di una nuova gara, stavolta strutturata in modo più finanziariamente o economicamente più “opportunistic”.
Infatti, si censura “l’inesistenza di qualsiasi comparazione tra le forme di gestione e la carenza di motivazione e istruttoria … la ricorrente deduce che sarebbe quanto meno «sospetto» il comportamento del Comune, che, dopo avere bandito una procedura andata deserta a causa di valutazioni tecnico-economiche sugli investimenti necessari palesemente erronee, anziché «aggiustare il tiro», con l’indizione di una nuova procedura strutturata su un progetto tecnico-economico sostenibile per il mercato, avrebbe sottratto ad ogni possibile confronto concorrenziale soltanto una parte dei servizi precedentemente posti in gara (la gestione dei parcheggi a pagamento); «[l]a stessa progressione temporale degli atti impugnati costituirebbe spia dell’eccesso di potere per sviamento, apparendo verosimile che la decisione di affidare il servizio in house fosse antecedente, e prescindesse del tutto dalle valutazioni contenute nella relazione illustrativa», predisposta dal Comune ai sensi dell’art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012”.
Tale argomentazione, in particolare, induce il T.A.R. Liguria a sollevare la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione – ed in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) – ponendo in dubbio la compatibilità dell’art. 192, comma 2, del Codice appalti con le succitate norme.
Il TAR, innanzitutto, rileva come il contratto del quale si verte in causa sia un affidamento di servizi – comunque disponibili sul mercato – e che rientra nell’ambito della “soglia” comunitaria: questo a qualificarne l’importanza in termini di “sottrazione” alla libera concorrenza del servizio stesso.
Anche in tal senso, dunque, assume un peso specifico più consistente l’obbligo motivazionale circa la scelta del Comune di affidare in house il predetto servizio.
In questo passaggio, quindi, il T.A.R. si interroga sulla fondatezza della censura relativa alla mancata valutazione “in concreto” circa la convenienza dell’affidamento: “Essa costituirebbe, dunque, alla luce dell’unico motivo di ricorso, il parametro legislativo alla stregua del quale il rimettente è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato e della congruità e/o adeguatezza delle stesse, e ciò perché la società … non contesterebbe affatto la sussistenza, in capo alla controinteressata … , delle condizioni stabilite dall’art. 5, comma 1, lettere a), b) e c), del codice dei contratti pubblici per il legittimo ricorso all’in house providing (controllo dell’amministrazione aggiudicatrice analogo a quello esercitato sui propri servizi, 80 per cento dell’attività della controllata effettuato nello svolgimento dei compiti affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante, e assenza di partecipazione diretta di capitali privati).”.
Aggiunge, poi, il T.A.R. un argomento a supporto dell’in house providing, ricordando che “… è noto l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’in house providing, che costituisce una modalità di aggiudicazione di una concessione o di un appalto pubblici a soggetti formalmente distinti ma sottoposti ad un controllo talmente penetrante di un’amministrazione da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, e che rappresenta una modalità alternativa all’esternalizzazione (così detto outsourcing) mediante l’avvio di una procedura di evidenza pubblica. … Si tratterebbe di una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2, comma 1, della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione …”.
Tale illustre “genealogia” di questo modello di affidamento, tuttavia, non ne consente l’utilizzo irrazionale e generalizzato: al contrario, ne fa’ un’ipotesi “eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica”.
In tale contesto, quindi, il T.A.R. dubita della legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2 D.Lgs. n. 50/2016 poiché “nell’imporre un onere motivazionale supplementare circa le ragioni del mancato ricorso al mercato, abbia palesemente ecceduto rispetto ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega n. 11 del 2016, in violazione dell’art. 76 Cost.”.
L’art. 1, comma 1, della legge delega ha infatti fissato, tra gli altri, i seguenti princìpi e criteri direttivi: 1) alla lettera a), il cosiddetto divieto di gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive; dunque, la norma sospettata d’illegittimità costituzionale avrebbe innanzitutto violato il citato criterio direttivo, in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione più gravoso rispetto a quello strettamente necessario per l’attuazione della direttiva 2014/24/UE, che ammette senz’altro gli affidamenti in house ove ne ricorrano le condizioni (vds. art. 12 della citata della direttiva 2014/24/UE).
Per di più, “l’introduzione dell’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato non avrebbe nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte o con la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti mediante l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di soggetti aggiudicatori di affidamenti in house.”.
I contenuti della sentenza: la difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, intervenuta nel giudizio di costituzionalità in esame, chiede la reiezione della questione posta dal T.A.R. Liguria e – con una linea significativa difensiva, scolpita alla luce delle più recenti pronunce del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia UE sull’in house providing – osserva in limine che “al legislatore delegato, secondo la giurisprudenza costituzionale, spettano … margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo (sentenze n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013). L’art. 76 Cost. non riduce, infatti, la funzione del legislatore delegato ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal legislatore delegante (sentenza n. 250 del 2016).”: non può parlarsi, dunque, a stretto rigore, di “eccesso di delega”.
Quanto, poi, alla dedotta violazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11/2016, sottolinea che tale norma dispone il divieto del c.d. “gold plating” (delineato dalla Commissione europea nella comunicazione dell’8 ottobre 2010), ossia, genericamente, “la pratica delle istituzioni nazionali di andare oltre quanto richiesto dall’Unione nel recepimento della legislazione europea.”; tuttavia, per poter articolare una censura sul punto, occorrerebbe una puntuale più definizione di tale pratica vietata.
Infatti, “l’esatta individuazione di tale fenomeno andrebbe operata tenendo conto della finalità di omogeneità che la legislazione europea mira a realizzare nell’ambito dell’Unione, per garantire parità concorrenziale tra i suoi cittadini. Ove la legislazione europea riconosca ai singoli Stati facoltà di autonoma disciplina, in relazione alla individuazione di più stringenti sistemi di tutela, non potrebbe ravvisarsi una ipotesi di gold plating.”.
In conclusione, “essa, dunque, non parrebbe configurabile nel caso di specie, poiché la legislazione nazionale di recepimento non comporta una diminuzione della necessaria parità concorrenziale nell’ambito delle procedure di gara per l’assegnazione degli appalti.”.
Anzi, secondo la difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri la norma sospetta d’illegittimità costituzionale, per contro, muovendo dalla «presunzione di preferibilità» delle procedure ad evidenza pubblica rispetto al modulo in house, si porrebbe nella direzione della necessaria realizzazione di un vasto regime di concorrenzialità.
I contenuti della sentenza: le considerazioni della società ricorrente
Meritano una segnalazione anche le difese della società ricorrente che, in particolare, si concentrano sulla questione del divieto di gold plating, asseritamente violato dalle norme di cui si discute la legittimità costituzionale.
Interessante è la ricostruzione dell’istituto, che parte dalle osservazioni contenute nel parere n. 855 del 1° aprile 2016 dell’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, avente ad oggetto lo schema di Codice appalti, nell’ambito del quale si è osservato che “la legge delega da un lato impone al Governo il divieto di gold plating e il recepimento degli strumenti di flessibilità previsti dalle direttive, dall’altro consente essa stessa criteri di maggior rigore rispetto alle direttive”.
Tale contraddizione, solo apparente, si spiegherebbe – secondo il Consiglio di Stato – con l’esigenza di trovare “un temperamento a tutela di interessi e obiettivi ritenuti dal Parlamento più meritevoli, quali sono la prevenzione della corruzione e la lotta alla mafia, la trasparenza, una tutela rafforzata della concorrenza, la salvaguardia di valori ambientali e sociali.”.
Si rimarca, poi, che “il Consiglio di Stato avrebbe quindi sottolineato come il «divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive. Così, in termini generali, il maggior rigore nel recepimento delle direttive deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in cui non si traduce in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza; dall’altro, ritenersi giustificato (quando non imposto) dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali.”.
Dunque, anche il citato, autorevole parere avrebbe individuato, nelle norme del decreto delegato che costituiscono un recepimento delle direttive, uno strumento più oneroso del cosiddetto “minimo comunitario”, non includendovi quella sospettata d’illegittimità costituzionale dal TAR Liguria.
Dunque, “il divieto di gold plating, in sede di attuazione della delega legislativa: 1) è destinato a trovare un necessario contemperamento nella tutela di valori costituzionali preminenti, quali l’efficienza e il buon andamento della pubblica amministrazione, l’ottimale impiego delle risorse pubbliche e – non ultimo – la trasparenza degli atti amministrativi; 2) deve tener conto delle concrete esigenze e criticità dell’ordinamento interno, come evidenziato nell’AIR; 3) risulta comunque finalizzato a garantire l’assenza di ostacoli ingiustificati alla concorrenza e alla parità di trattamento degli operatori presenti nel mercato, non potendo essere inteso come un «rafforzamento», ancorché indiretto, dei limiti posti all’apertura al confronto concorrenziale dei servizi pubblici.”.
In ordine, poi, alla portata “sistematica” della norma censurata di illegittimità costituzionale la società ricorrente ne evidenzia, invece, la coerenza e continuità “con le scelte compiute dal legislatore a far tempo almeno dal 2008. Ed infatti, l’art. 23-bis, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, prevedeva che, nel caso di affidamenti in house, «l’ente affidante deve dare pubblicità alla scelta motivandola in base ad un’analisi di mercato». Il successivo e a tutt’oggi vigente art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012, in materia di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in conformità agli obblighi di trasparenza e motivazione degli atti amministrativi, impone all’amministrazione, quale che sia la forma di gestione prescelta (evidenza pubblica o affidamento diretto), di dare conto, in una apposita relazione, delle ragioni che la hanno determinata.
Poiché la gestione in house si contrappone, come unica alternativa, alle diverse ipotesi di ricorso al mercato, sarebbe evidente, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, che la motivazione dell’affidamento diretto non possa prescindere dallo spiegare perché si è deciso di non aprire il confronto con il mercato.”.
Conclude, quindi, che “tali «canoni interpretativi» avrebbero trovato «positiva rispondenza» nell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che, a differenza di quanto sostenuto dal rimettente, non richiederebbe un più gravoso onere motivazionale rispetto a quello imposto dall’art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012.
La norma censurata, dunque, lungi dal concretizzare un eccesso di delega, si collocherebbe nel solco delle scelte già compiute dal legislatore, il che sarebbe logico in un’attività di codificazione che deve coordinarsi con il tessuto normativo preesistente.”.
Infine, passando alla qualificazione del caso concreto e ricordando i precedenti della Consulta nelle sentenze n. 325/2010 e n. 46/2013, afferma che “Fermo quanto sopra dedotto, l’onere motivazionale in questione non concreterebbe alcuna ipotesi di gold plating, perché, come si ricaverebbe dalla giurisprudenza costituzionale in materia di affidamenti interorganici, esso è posto a tutela della concorrenza. … Tale orientamento sarebbe stato confermato dalla successiva giurisprudenza costituzionale, che avrebbe ribadito come l’affidamento in regime di delegazione interorganica «costituisca un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica» e queste considerazioni non sarebbero smentite neppure dalle sopravvenute direttive 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione e 2014/24/UE sugli appalti pubblici.”.
Infine, in limine alla decisione, la ricorrente assume che la norma censurata di legittimità costituzionale sarebbe stata, invece, giudicata compatibile con le norme comunitarie, come ben espresso nelle “considerazioni già svolte dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, con due recenti pronunce (quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita, e nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa), che avrebbe fugato ogni dubbio in ordine alla compatibilità comunitaria della norma indubbiata dal TAR Liguria.”.
In conclusione, “con l’ultima sentenza citata, in particolare, la Corte di giustizia, su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, avrebbe affermato che l’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE non osta ad una norma nazionale (l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici) che subordina la conclusione di un’operazione interna (cosiddetto affidamento in house) all’impossibilità di procedere all’aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna. Alla luce di tale esplicita presa di posizione della Corte di giustizia, sarebbe ancora più evidente la non contrarietà della norma censurata ai criteri di delega invocati dal rimettente.”.
I contenuti della sentenza: le conclusioni della Consulta
Come anticipato, la Corte costituzionale ha escluso sia l’incostituzionalità dell’art. 192, comma 2 D.Lgs. n. 50/2016 per vizio di eccesso di delega, sia per la violazione del divieto di gold plating – non riconoscendo a quest’ultimo alcuna valenza prescrittiva, né dignità di principio generale di valenza euro-unitaria -.
Anzi, proprio con riferimento al divieto di gold plating ha fatto proprie le considerazioni espresse dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, confermando che l’obbligo di motivazione – si direbbe “rafforzata” o “in concreto” – imposto all’Amministrazione dalla norma stessa è proprio espressione del bilanciamento degli interessi pubblici e privati, omaggiando i valori costituzionali di trasparenza e buon andamento della pubblica Amministrazione e, infine, si pone a tutela del principio generale di libera concorrenza – del quale l’affidamento in house costituisce eccezione -.
Tale norma – raccogliendo l’esito dell’analisi giuridica svolta dalla ricorrente – si pone, poi, in continuità con la legislazione nazionale precedente, che impongono l’obbligo motivazionale per le scelte che hanno effetti sul mercato degli appalti pubblici.
In particolare, la Corte costituzionale anticipa che: “la questione – che ripropone sotto l’angolo visuale del vizio di delega, il noto dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, sulla natura generale o eccezionale dell’affidamento in house – non è fondata in relazione ad entrambi i parametri interposti dedotti.”: la stessa Consulta, quindi, preannuncia la “portata generale” delle considerazioni che si appresta ad esprimere in relazione agli affidamenti in house.
All’affermazione così solenne, segue l’analisi delle censure proposte, a cominciare da quella inerente il divieto di gold plating.
In relazione a tale netta asserzione del Giudice rimettente la Corte ritiene di premettere che il problema così sollevato sembra “perdere quota” ove si consideri che tale divieto – pur se inserito nella legge delega per l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di contratti pubblici – “è imposto da tale criterio direttivo e dalle norme da esso richiamate, ma non è un principio di diritto comunitario, il quale, come è noto, vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi di scegliere la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per raggiungere i risultati prefissati (salvo che per le norme direttamente applicabili).”.
Precisamente, “Il termine gold plating, tuttavia, compare nella comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010, che reca delle riflessioni e delle proposte per il raggiungimento dell’obiettivo di una legiferazione «intelligente», comunitaria e degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese. … Nella comunicazione si precisa che «il termine gold-plating si riferisce alla prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro».”.
Secondo la Consulta, “nel nostro ordinamento il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art. 15, comma 2, lettera b), della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012)», con l’inserimento nell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), dei commi 24-bis, ter e quater. … “.
Quindi, più propriamente, “da tali disposizioni emerge con chiarezza che la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.”.
A conferma di tale finalità, si cita non solo il parere n. 855 emesso dall’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato il 1° aprile 2016, relativo allo schema del Codice appalti, ma anche la costante linea interpretativa della Corte di Giustizia UE, che “nell’affermare la non contrarietà della norma oggi scrutinata all’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche (di cui al quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione) discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna» (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa, resa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita).”.
In conclusione, quindi, ne discende la compatibilità costituzionale della norma censurata.
Sotto altro profilo, “nemmeno sussiste la violazione dell’art. 1, comma 1, lettera eee), della medesima legge delega, che impone, per quanto qui rileva, di garantire «adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione».”.
La Consulta, con una puntuale “sententia” ricorda, in proposito, che “va evidenziato anzitutto che il criterio direttivo trova il suo epicentro non tanto nel generico obbligo di adeguata pubblicità e trasparenza – che, in quanto principio fondamentale dell’azione amministrativa (art. 97 Cost. e art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), non richiede una conferma nelle normative di settore – quanto nel suo essere riferito, in particolare, agli affidamenti diretti, segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante. È dunque alla stregua di questo dato che occorre valutare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione circa il mancato ricorso al mercato.”.
Tale principio, nell’ottica di “interpretazione diffusa” di cui si è detto all’inizio, è forse il punto nodale della decisione in commento ed è forse la vera luce-guida cui potranno rifarsi gli interpreti.
La nitidezza di tale principio non scompare dietro le numerose citazioni dei precedenti giurisprudenziali della stessa Consulta, diffusi nella sentenza, anzi, la linea omogena tracciata da tali pronunce, non fa’ che accrescerne la luce.
Ricorda, poi, la Corte che il solco normativo è coerente con l’interpretazione appena enunciata.
Infatti: “Già l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum, richiedeva, tra le altre condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house nella materia dei servizi pubblici locali, la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato».
L’onere motivazionale in questione, poi, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, non si discosta, nella sostanza, da quello imposto dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.”.
La via tracciata non poteva che concludersi con una sorta di monito, indirizzato alle società partecipate, che ricorda l’adagio dantesco “… considerate la vostra semenza…” e, con parole più moderne, ricorda: “Infine, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che reca la rubrica «oneri di motivazione analitica», manifesta la stessa cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica … deve essere analiticamente motivato …, evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato». Si tratta di una scelta di fondo già vagliata da questa Corte, che – con specifico riferimento alle condizioni allora poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, ma con affermazioni estensibili anche al caso odierno – ha osservato: «siffatte ulteriori condizioni … si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto … con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato» (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013).”.
Resta, in conclusione, l’”avviso ai naviganti”: “si deve dunque concludere che la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013).”.
Ed ora, anche dal Decreto Semplificazioni, si attendono i riscontri ed i nuovi capitoli di questa storia degli affidamenti in house: un po’ avventura ed un po’ romanzo paradigmatico dei tempi.