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L’ordinamento riconosce il diritto dell’impresa di ottenere il risarcimento dei danni subiti consistenti nella estromissione della stessa dal mercato dei pubblici appalti, che sia direttamente imputabile a fatti estranei alla condotta della impresa stessa. Trovano, infatti, applicazione a tale fattispecie i generali principi civilistici in tema di responsabilità extracontrattuale, ivi inclusa la responsabilità per condotta omissiva.
La tipologia di danni che può venire in rilievo in tali casi assume, tuttavia, una connotazione peculiare, così come l’individuazione della decorrenza del termine di prescrizione della azione civile volta ad ottenere il relativo risarcimento.
Un recente sentenza della Corte di Cassazione (30 maggio 2017 n. 13510) analizza la duplice questione, enunciando un principio di diritto a parziale superamento degli orientamenti precedenti.
1. Il caso di specie
Il caso giunto alla attenzione della Corte di Cassazione originava dalla richiesta di risarcimento, azionata nel 2008, relativi a danni subiti da un’impresa a causa di comportamenti negligenti posti in essere da alcune prefetture.
La causa veniva proposta, in particolare, contro la Presidenza del Consiglio, quale coordinatrice dell’intera attività dell’esecutivo, e il Ministero dell’Interno, quale esclusivo responsabile della tenuta e dell’aggiornamento del Centro Elaborazione Dati (C.E.D.), nonché titolare dei poteri di accertamento delegati agli organi di Polizia ed alle Prefetture, nella gestione delle “informative antimafia” c.d. “atipiche” di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, ex articolo 10, comma 7, lettera c).
Le amministrazioni menzionate, nonostante i ripetuti solleciti e le istanze inoltrate dalla azienda interessata, non avevano provveduto ad aggiornare gli archivi informatici normalmente utilizzati per le verifiche e le informative, sulla base delle novità e dei chiarimenti via via forniti dall’azienda, che, a suo dire, dimostravano l’inesattezza, l’imprecisione e l’obsolescenza di pregresse notizie, le quali venivano utilizzate per le informative antimafia, che così risultavano prive di fondamento.
Il suddetto mancato aggiornamento causava quindi la revoca dei contratti già aggiudicati in favore della impresa in questione, nonché la perdita dei requisiti di capacità economico-finanziaria necessari per poter mantenere l’aggiudicazione conseguita e operare nel sistema degli appalti pubblici. Il che determinava la “morte” dell’impresa, fino ad allora avente una significativa posizione nel detto sistema.
La negligente condotta degli enti pubblici, competenti alle suddette verifiche, si era spinta al punto da costringere la società in questione ad avviare le procedure di messa in liquidazione.
2. L’analisi della Corte
La Corte di Cassazione pone in luce due rilevanti aspetti in riferimento al caso di specie: il danno subito dalla impresa a seguito della condotta negligente della pubblica amministrazione (che, con comportamento omissivo, non ha ottemperato ai propri doveri verso l’impresa richiedente) determina non solo la perdita delle attuali commesse bensì – tramite la messa in liquidazione della società, che comporta, di per sé, la limitazione della capacità di agire della stessa – anche l’estromissione dal mercato dell’impresa medesima.
In particolare, la logica seguita, comune alla giurisprudenza della Corte, distingue, in tema di responsabilità civile, sia contrattuale sia extracontrattuale, fra c.d. danno evento e c.d. danno conseguenza.
In primo luogo, la Corte individua il comportamento illecito addebitato alle Amministrazioni (ossia il fatto dannoso riconducibile allo schema tipico dell’illecito aquiliano, ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile) nella omissione dell’aggiornamento degli archivi in funzione delle informative ai sensi del DPR n. 252 del 1998, articolo 10, comma 7, lettera c) e, dunque, nella tenuta di un comportamento di natura omissiva, che è durato nel tempo.
Tale comportamento omissivo è causa del c.d. danno-evento, che a sua volta si individua nella persistenza, negli appositi archivi, di una situazione di mancato aggiornamento sulla posizione della società, come tale utilizzata ed utilizzabile per la redazione delle informative, in funzione della valutazione della richiesta di partecipazione alle gare per i pubblici appalti.
Da tale danno evento, cioè dal mancato aggiornamento, sarebbe derivata, quale ulteriore danno, la perdita, da parte della impresa della capacità di essere ammessa a quella partecipazione, che identifica il c.d. danno conseguenza.
Lo stato di incapacità determinato dalla messa in liquidazione volontaria, indotta dal comportamento omissivo delle Amministrazioni, rileva, in sostanza, secondo la Corte, come cd. danno conseguenza, cagionato dal comportamento omissivo fino a quel momento tenuto, a sua volta determinativo di danni conseguenza ulteriori, ex articolo 1223 del codice civile, per il fatto che la società non poteva più operare ed esplicare la sua capacità[1].
Chiaramente il cd. danno conseguenza presuppone che l’impresa possedesse a monte la capacità di agire e, quindi, i requisiti richiesti dalla normativa e correlati, in definitiva, a determinate caratteristiche della sua consistenza patrimoniale – come offerente ed eventuale aggiudicataria al sistema delle gare pubbliche – e che di essi potesse valersi ossia utilizzarli ai fini della spendita della sua legittimazione alla partecipazione al sistema delle gare pubbliche. In altri termini – osserva la Corte – è evidente che in tanto il possesso di quelle caratteristiche poteva essere utilizzato in funzione della partecipazione alle gare, in quanto il soggetto giuridico fosse stato nelle condizioni di capacità d’agire, tali da consentirgli di svolgere le operazioni necessarie per quella partecipazione.
La società, messa in liquidazione, continua, come noto, ad esistere unicamente al fine del completamento delle procedure di liquidazione con la conseguente automatica preclusione allo svolgimento di tutte le attività dirette alla partecipazione alle pubbliche gare e alla stipula dei relativi contratti.
Con lo stato di messa in liquidazione, per espressa volontaria autolimitazione da parte degli organi sociali (sebbene resa necessaria dal comportamento della Amministrazione), la capacità d’agire della società interessata risulta, quindi, di fatto limitata alle sole attività finalizzate alla liquidazione, con la conseguenza che detta capacità non poteva più, nel caso di specie, indirizzarsi allo svolgimento dell’attività e delle operazioni necessarie per la partecipazione alle gare pubbliche.
La Corte muove da tale prospettazione per evidenziare che è a partire dalla messa in liquidazione della società che diviene certa – e quindi non più solo possibile – la prospettiva, per la medesima società, di perdere ogni futura occasione di partecipazione alle pubbliche gare non più solo per il perdurante comportamento omissivo delle pubbliche amministrazioni che rifiutavano l’aggiornamento degli archivi informatici, ma per effetto immediato della limitazione della capacità di agire della società stessa.
«Il comportamento negligente della Amministrazione, che costringe la società alla messa in liquidazione, legittima il risarcimento del danno futuro, consistente nella perdita della capacità della società di operare nel mercato dei pubblici appalti»
La decisione degli organi sociali di porre la società in stato di liquidazione, implicando necessariamente una preclusione all’attività di partecipazione alle gare pubbliche per il futuro, si connota infatti come un evento che, proprio perché comporta la certezza di tale preclusione, rende, per il fatto stesso che è stata assunta dalla società, non solo certa, ma percepibile, la prospettiva di perdere tutte le future occasioni di partecipazione ad esse. Comportando la percezione in modo certo di tale perdita futura e, dunque, del relativo danno conseguenza ulteriore, essa stessa ne determina la collocazione nella categoria del danno c.d. futuro.
In mancanza di messa in liquidazione, in altri termini, la capacità di agire dell’impresa sarebbe piena e il danno, pur sussistendo, sarebbe limitato all’illegittimo rifiuto di aggiornamento dell’archivio funzionale al rilascio delle informative.
Con la messa in liquidazione, invece, il danno è effetto immediato dell’autolimitazione della capacità.
La messa in liquidazione costituisce, pertanto, una voce di danno autonoma, consentendo alla società danneggiata per l’appunto di invocare, come danno risarcibile, sia il mancato guadagno connesso alle occasioni di partecipazione alle gare (perdute), sia la circostanza di essere stata costretta a deliberare la propria messa in liquidazione, nonché la connessa perdita delle occasioni future di partecipare al sistema dei pubblici appalti.
In estrema sintesi, nella fattispecie, sono ravvisabili le seguenti distinte voci di danno, rispetto alle quali è riconosciuto il diritto risarcitorio ai sensi delle generali norme civilistiche:
a) le occasioni di partecipazione perdute (indipendentemente dalla messa in liquidazione);
b) il fatto aver, la società, dovuto avviare le procedure di liquidazione e, quindi, di essersi posta nel conseguente stato di capacità d’agire limitata[2];
c) la perdita delle occasioni future di partecipazione al sistema degli appalti pubblici (danno futuro con conseguente esclusione dal mercato) in ragione della messa in liquidazione e quindi della intervenuta perdita della capacità.
3. La prescrizione del diritto al risarcimento
Il ragionamento sopra riportato fa da corollario alla principale questione affrontata dalla Corte, che è di natura preliminare-procedurale: la prescrizione o meno dell’azione di risarcimento del danno in questione.
La sentenza di appello aveva, infatti, rigettato l’azione di risarcimento perché ritenuta intempestiva, in riforma della sentenza, invece favorevole alla società, resa dal Giudice di primo grado.
Secondo la società ricorrente, il momento della messa in liquidazione è neutro ed irrilevante a tali fini, innanzitutto perché dalla messa in liquidazione volontaria di una società non sarebbe lecito desumere che essa, tramite i suoi organi, abbia consapevolezza della situazione pregiudizievole determinativa della relativa decisione e, soprattutto, della sua attribuibilità a condotte inadempienti o negligenti altrui; ed in secondo luogo, perché la messa in liquidazione volontaria sarebbe fattispecie “del tutto reversibile e revocabile ad nutum ove muti l’intendimento della società”.
Peraltro, il cd. danno conseguenza, secondo la ricorrente, in quanto ascrivibile pur sempre al comportamento omissivo, sarebbe divenuto effettivamente percepibile come tale, così da giustificare l’insorgenza della possibilità di far valere il relativo diritto risarcitorio agli effetti dell’articolo 2935 del codice civile, non a far tempo dalla decisione di mettersi in liquidazione volontaria adottata dalla società, bensì successivamente ad essa.
Secondo tale ottica, la sentenza impugnata, nell’individuare l‘exordium praescriptionis a partire da quella decisione avrebbe errato, perché il danno non era divenuto percepibile a partire da quel momento.
Alla Corte territoriale si addebitava inoltre di non avere considerato che, se pure la messa in liquidazione poteva valere in funzione del termine prescrizionale per il risarcimento del danno da perdita di commesse, non poteva invece valere ai fini del decorso della prescrizione per il risarcimento del danno derivante dalla «morte» dell’impresa, che si sarebbe verificato solo in un momento successivo alla perdita delle commesse, cioè «solo dopo la definitiva perdita dei requisiti tecnici ed economici necessari alla partecipazione alle gare pubbliche», verificatasi «solo anni dopo l’apertura della procedura di liquidazione volontaria».
Sempre secondo la ricorrente, la decisione di messa in liquidazione volontaria era stata presa allo scopo di «preservare per il miglior realizzo il proprio patrimonio in previsione di una futura possibile ripresa dell’attività d’impresa, nella consapevolezza di potere in ogni momento revocare ex articolo 2487-ter c.c. lo stato di liquidazione volontaria e riprendere l’attività, allorquando la P.A. avesse finalmente provveduto all’agognato aggiornamento delle notizie prodromiche all’emanazione delle informative antimafia».
La Corte rigetta le argomentazioni dell’impresa ricorrente, sostenendo, al contrario, che il termine entro cui si prescrive l’azione di risarcimento (quinquennale), in questo caso, decorre dal momento della messa in liquidazione della società. In particolare, secondo la Cassazione occorre distinguere:
a) il danno consistente nella perdita delle commesse in atto si prescrive a decorrere dal momento della perdita di ciascuna commessa e, dunque, prima e indipendentemente della messa in liquidazione della società;
b) il danno (futuro) individuato nella perdita della possibilità di partecipare alle gare pubbliche, intesa come capacità dell’impresa di essere ammessa a quella partecipazione in quanto non più in possesso dei requisiti tecnici ed organizzativi all’uopo necessari, si prescrive a decorrere dal momento della messa in liquidazione o comunque a decorrere dall’evento che renda certo nell’an il verificarsi del danno stesso.
«Il termine di prescrizione entro cui far valere il danno consistente nella perdita delle commesse in atto decorredal momento della perdita di ciascuna commessae, dunque, prima e indipendentemente della messa in liquidazione della società»
Con riguardo a tale ultimo caso, infatti, la Corte evidenzia come non abbia rilevanza alcuna il perdurare del comportamento omissivo della Amministrazione circa il mancato aggiornamento dei dati successivamente alla messa in liquidazione ai fini di giustificare l’esclusione dell’inizio del corso della prescrizione[3].
Ritenere il contrario comporterebbe – nella prospettazione della Corte – la conseguenza di dover frazionare l’esercizio del diritto risarcitorio, con evidente manifesta contraddizione rispetto all’esigenza che l’istituto della prescrizione vuole soddisfare.
La Corte invoca, sul punto, l’articolo 2935 del codice civile, secondo cui “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
Nel caso di specie, per l’appunto, questa possibilità di far valere il diritto al risarcimento del danno derivante da comportamenti omissivi permanenti va ravvisata (sì da giustificare l’inizio del decorso della prescrizione del diritto risarcitorio) ogniqualvolta il processo causativo del danno (nel caso di specie il comportamento omissivo) risulti in concreto avere avuto una manifestazione e degli effetti tali da rendere certi i danni futuri che ulteriormente si potranno verificare sempre per il perdurare del comportamento omissivo.
Naturalmente tale ragionamento ha valore nella misura in cui vi sia, oltre alla sussistenza attuale delle cause del danno futuro, certezza circa il predetto danno futuro, quanto all’an, sebbene permanga una ragionevole approssimazione per ciò che riguarda il quantum: se non sussistono tali condizioni, il giudizio relativo ai danni attuali non può comprendere anche i danni futuri (si veda sul punto la sentenza della Corte di Cassazione n. 363/1962).
Nella specie, la circostanza che l’impresa avesse già sofferto, a causa del comportamento omissivo, la perdita delle commesse pubbliche nonché la messa in liquidazione volontaria costituiscono chiaro indice della certezza circa l’an dell’ulteriore danno subendo per il futuro consistente nella perdita della possibilità di partecipare alle gare, consentendo di prospettarne con ragionevole approssimazione il quantum.
La società – osserva la Corte – è giunta, in dipendenza delle perdite di bilancio, alla determinazione che la propria sopravvivenza ormai poteva svolgersi solo con la riduzione della capacità connessa ad una liquidazione volontaria. La percezione di questa situazione, ricollegandosi al comportamento perdurante delle Amministrazioni, viene a diventare prova della insorgenza della consapevolezza di poter esercitare il diritto risarcitorio, sicché deve trovare necessaria applicazione l’articolo 2935 del codice civile.
4. Il parziale superamento del precedente orientamento
La pronuncia in commento ridimensiona un consolidato principio di diritto in tema di risarcimento di “illecito permanente”, espresso in passato dal Giudice di legittimità a Sezioni Unite: «in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicchè il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica.» (Cassazione, Sezioni Unite, n. 23763/2011).
Nel caso di specie infatti la Corte ritiene di dover coordinare il detto principio con quello della unicità del giudizio risarcitorio, secondo cui il danneggiato ha l’onere di agire anche per i danni futuri prevedibili come certi e ragionevolmente attualizzabili.
«Il danneggiato ha l’onere di agire anche per i danni futuri prevedibili come certi e ragionevolmente attualizzabili, di cui quindi deve tener conto nell’individuazione della decorrenza del relativo termine di prescrizione.»
Ed è altresì onere della parte – che rischi il rigetto del proprio ricorso per intempestività – prospettare nello stesso le motivazioni per cui non possa configurarsi il danno futuro come certo o ragionevolmente determinabile.
Al contempo la Corte ritiene inapplicabile al caso di specie il diverso principio di diritto in tema di interruzione del termine prescrizionale. Secondo la ricorrente, infatti, la prescrizione quinquennale del proprio diritto al risarcimento del predetto danno futuro si sarebbe interrotta a seguito della decisione di messa in liquidazione, quale comportamento adottato dall’impresa solo al fine di evitare danni ulteriori.
La Corte ricorda, tuttavia, che secondo il richiamato principio di diritto «… si ha interruzione del nesso causale, per effetto del comportamento sopravvenuto del soggetto danneggiato, soltanto quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare di efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito. Non si ha, invece, interruzione del detto nesso quando, essendo ancora in atto ed in sviluppo il processo produttivo del danno, avviato dal fatto illecito dell’agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questo creata si inserisca il comportamento dello stesso soggetto danneggiato, preordinato proprio a fronteggiare e, possibilmente, a neutralizzare le conseguenze di quell’illecito, il quale resta, in tal caso, unico fatto generatore del danno.»[4](Corte di Cassazione n. 3701/1969).
Nella specie, quindi, se pure la messa in liquidazione volontaria si consideri come comportamento adottato per evitare ed impedire danni ulteriori, derivanti dal comportamento omissivo delle Amministrazioni, l’efficacia causativa di danni ulteriori del comportamento dannoso risulta – secondo la Corte – ormai verificata e il corso della prescrizione ha luogo anche per i danni rimediati in tutto o in parte per effetto dell’intervento del danneggiato, in quanto causalmente riconducibili al pregresso comportamento del danneggiante, nonché per i danni futuri certi nell’an e ragionevolmente, sebbene per approssimazione, quantificabili.
La messa in liquidazione volontaria avrebbe, comunque, rappresentato il momento in cui la perdita della capacità «normale» della società, in quanto provocata dal detto comportamento omissivo tenuto fino a quel momento, dava luogo alla possibilità di esercitare il diritto al relativo risarcimento del danno, con conseguente decorso della prescrizione, sia per i danni verificatisi sia per i danni futuri, in quanto causalmente ricollegabili sempre al comportamento omissivo che aveva determinato la perdita della capacità.
«Il termine entro cui si prescrive l’azione di risarcimento per estromissione dal mercato decorre dal momento della messa in liquidazione della società»
5. Il principio di diritto
La Corte conclude enunciando il seguente principio di diritto:
«In materia di appalti di opere pubbliche, il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da estromissione dal mercato dei pubblici appalti, che una società faccia valere contro il Ministero dell’Interno (in quanto competente tramite le Prefetture al rilascio delle informative di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, articolo 10, comma 7, lettera c)), nonché’ contro la Presidenza del Consiglio (quale articolazione coordinatrice dell’attività esecutiva del Governo), assumendo che detta estromissione è stata causata dal rifiuto dell’aggiornamento delle banche dati, funzionali al rilascio di dette informative, qualora risulti che la società abbia disposto la propria messa in liquidazione volontaria, ancorché, in thesi, proprio in ragione della pretesa efficacia causale del detto rifiuto, si identifica, pur perdurando il relativo comportamento omissivo, nel momento di tale messa in liquidazione volontaria.
Ciò, non solo per i danni fino a quel momento verificatisi, ma anche per i danni futuri derivanti dalla perdita della possibilità di partecipazione a quel mercato, restando del tutto irrilevante che nel detto momento fossero, in ipotesi, ancora esistenti in capo alla società i requisiti normativi e fattuali per essere ammessa a partecipare al sistema dei pubblici appalti e, d’altro canto, potendosi configurare successivamente un danno ascrivibile alle Amministrazioni da impossibilità della società di riprendere quella partecipazione solo previa deliberazione di revoca della messa in liquidazione volontaria, richiesta alle Amministrazioni di procedere all’aggiornamento, e rifiuto di esse di procedervi.».
[1]V. articolo 1223 del codice civile: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.”.
[2] Come noto, il principio di continuità nel possesso dei requisiti di gara, richiede che “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità.” (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Pl., 20 luglio 2015, n. 8).
[3] La Corte in tal modo si allinea alla tesi sostenuta dalla Corte d’appello, secondo cui: “Non appare poi rilevante ai fini della decisione sull’eccezione di prescrizione il fatto che l’omesso aggiornamento dell’archivio informatico sia perdurato nel tempo concretando un illecito permanente tuttora in corso. E’ principio costante di diritto che il diritto al risarcimento del danno da illecito permanente sorge in modo continuo e in modo continuo si prescrive. Nel caso concreto il danno da perdita di commesse già affidate, lamentato con l’atto di citazione, si era già verificato integralmente alla data di apertura della liquidazione della società se, come dedotto con l’atto introduttivo del giudizio (cfr. pag. 39 della citazione), detta perdita aveva cagionato l’irrefrenabile dissesto finanziario della società e solo con abnormi sforzi e grazie alla dedizione della proprietà era stato evitato il fallimento, al costo, però, della messa in liquidazione volontaria della società con conseguente uscita dal mercato e licenziamento dei numerosissimi dipendenti. Il perdurante mancato aggiornamento dell’archivio informatico e’ in concreto irrilevante ai fini della decisione sull’eccezione di prescrizione atteso che il danno da esclusione dal mercato e perdita di commesse azionato con pretesa risarcitoria in questa sede, come già osservato, si era già interamente verificato in modo pienamente riconoscibile anche nelle sue cause.”.
[4] Nella specie, i giudici di merito avevano accertato che i gravi danni alla produttività di un oleificio erano stati determinati dalla formazione di depositi salini sulla caldaia, con conseguente surriscaldamento e sfiancamento di questa che tali depositi erano dovuti ad immissione di acqua salina nei pozzi della zona a seguito di guasti in una conduttura sotterranea di acque fortemente saline di proprietà della convenuta che la proprietaria dell’oleificio aveva fatto ricorso ad alcuni accorgimenti tecnici al solo fine di evitare, finché fu possibile, il maggior danno della cessazione dell’attività produttiva. Detti giudici avevano, pertanto, escluso che il comportamento della danneggiata avesse potuto rompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’autrice dell’illecito e lo evento di danno.