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( vote)1. I termini della controversia
Il caso concerne la contestazione di un affidamento diretto del servizio di igiene urbana ad una società in house pluripartecipata in regime di controllo analogo congiunto, da parte di un socio di minoranza.
In particolare con ricorso al TAR per l’Abruzzo un’impresa, operante nel settore dell’igiene urbana e interessata ad acquisire con gara la gestione del servizio di igiene urbana in questione, chiedeva l’annullamento degli atti del 2017 con cui il Comune di Lanciano, in quanto socio di minoranza – come molti altri comuni di quel territorio – di una società per azioni pluripartecipata, aveva approvato l’adeguamento dello statuto di tale società e i relativi patti parasociali, in tal modo rendendo possibile l’affidamento diretto del servizio in favore della stessa in quanto società in house pluripartecipata (anche) dal Comune di Lanciano e in regìme di controllo analogo congiunto. Detta pluripartecipata è una società in house a capitale interamente pubblico, partecipata al 21,69% dal Comune di Lanciano insieme ad altri cinquantadue comuni della Provincia di Chieti, che svolge attività di smaltimento di rifiuti urbani.
Ai fini che qui interessano la ricorrente lamentava che l’affidamento diretto del servizio di igiene urbana nel Comune di Lanciano alla pluripartecipata comportasse numerose violazioni della normativa eurounitaria in materia di affidamenti in house, con particolare riferimento alla forma dell’in house pluripartecipato o in regìme di controllo analogo congiunto.
Con la sentenza n. 33/2018 il Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo respingeva il ricorso e i motivi aggiunti, dichiarandoli infondati. La sentenza veniva quindi impugnata in appello.
2. Le questioni giuridiche controverse e la normativa europea e nazionale di riferimento
Al Consiglio di Stato sono state quindi sottoposte due macro questioni di diritto relative all’interpretazione del diritto dell’Unione europea, primario e derivato in ordine i) alla asserita assenza di una previa ed effettiva valutazione da parte della Stazione appaltante circa la congruità del ricorso al modello in house providing prima di procedere all’affidamento diretto; ii) al mancato rispetto dei vincoli imposti dall’ordinamento nazionale alla partecipazione al capitale sociale da parte dei soggetti pubblici che non esercitino un controllo analogo (diretto) sulla società.
Due temi estremamente rilevanti su cui il Legislatore interno ha recentemente codificato regole più restrittive rispetto a quelle europee. Rilevata questa antinomia il Consiglio di Stato ha sollevato due questioni pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 del Trattato Ue.
Giova, infatti, a tal proposito rammentare che la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, al Considerando 5 ribadisce la piena libertà per le amministrazioni pubbliche nell’organizzare i servizi e le attività di proprio interesse secondo le modalità operative e gestionali ritenute più adeguate.
In base al Considerando 5 infatti: “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
La medesima Direttiva, all’articolo 12, paragrafo 3 stabilisce poi le condizioni per procedere all’affidamento di appalti nel caso di controllo analogo congiunto da parte di più amministrazioni pubbliche. Secondo tale disposizione, infatti, una amministrazione aggiudicatrice che non eserciti su una persona giuridica di diritto privato o pubblico un controllo ai sensi del paragrafo 1 del medesimo art. 12 della richiamata Direttiva può nondimeno aggiudicare un appalto pubblico a tale persona giuridica senza applicare la presente direttiva quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) l’amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni aggiudicatrici un controllo sulla persona giuridica di cui trattasi analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi;
b) oltre l’80 % delle attività di tale persona giuridica sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici controllanti o da altre persone giuridiche controllate dalle amministrazioni di cui trattasi; e
c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Le amministrazioni aggiudicatrici esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
i) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti;
ii) tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; e
iii) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti.
Anche la Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, all’articolo 2 afferma il principio della libera amministrazione delle autorità pubbliche.
Ciò posto il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (d’ora in poi il “Codice”) recepisce nell’ordinamento interno le previsioni di cui alle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE. L’articolo 5 del Codice – il quale reca il recepimento dell’articolo 12 della Direttiva 2014/24/UE – fissa le condizioni perché siano ammesse nell’ordinamento interno forme di affidamento in regìme di in house pluripartecipato (o a controllo analogo congiunto), stabilendo che un’amministrazione aggiudicatrice può aggiudicare un appalto pubblico o una concessione senza applicare il Codice qualora ricorrano le condizioni di cui al comma 1 (che, lo si rammenta, definisce i presupposti generali per gli affidamenti in house), anche in caso di controllo congiunto. Le amministrazioni aggiudicatrici esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici;
b) tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica;
c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti.
L’articolo 192, comma 2, del Codice stabilisce disposizioni di un certo rigore per ammettere gli affidamenti in house. Ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti devono infatti effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.
D’altra parte il decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 reca il “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”. L’articolo 4, recante le “Finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche” contiene le previsioni di base che giustificano e legittimano la partecipazione pubblica allo strumento societario per perseguire proprie finalità istituzionali: vuoi quanto a ragioni sostanziali, vuoi quanto a strumentazione organizzativa.
In particolare, i commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 stabiliscono che le P.A. non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E nei predetti limiti, le P.A. possono, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgimento delle attività ivi indicate.
L’articolo 16 del Testo unico fissa i presupposti e le condizioni per procedere ad affidamenti diretti in favore di organismi in house in veste societaria, stabilendo che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata.
3. L’Ordinanza di rimessione alla CGUE del Consiglio di Stato
La prima questione di diritto sottoposta al Collegio concerne la presunta violazione del regime speciale degli affidamenti in house ed in specie dell’articolo 192, comma 2 del Codice, secondo cui ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti devono effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.
Il Collegio, dopo aver rilevato che le delibere impugnate apparivano prima facie non coerenti con le previsioni dell’articolo 192, comma 2, del Codice, nella misura in cui non esponevano adeguatamente le ragioni per cui si fa ricorso all’affidamento in house (mezzo da ritenere ormai, per il diritto italiano, derogatorio rispetto all’ordinario affidamento con procedure ad evidenza pubblica), ha posto in dubbio il regime speciale de quo e la sua compatibilità, con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea, laddove subordina gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre
L’articolo 192, comma 2, del Codice, infatti, impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato – come quelli riguardati la controversia in esame – sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):
i) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe;
ii) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli stessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento – con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto -).
Anche in questo caso la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
Vale qui osservare che il restrittivo orientamento evidenziato dalla normativa italiana del 2016 si colloca in continuità con orientamenti analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (i.e.: sin dall’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008).
Ebbene la configurazione degli affidamenti in house di cui all’articolo 192 del Codice va letta in concomitanza con il ruolo para-autorizzatorio affidato all’ANAC, la quale, attraverso le Linee Guida n. 7, non ha mancato di rintuzzare l’assetto normativo dettato dalla previsione normativa in ragione, della – per certi versi condivisibile – esigenza di arginare le derive tipicamente italiane nell’utilizzo dell’in house providing e nell’ingiustificata esposizione finanziaria delle amministrazioni detentrici i relativi pacchetti azionari.
Con la Deliberazione 17 ottobre 2018, n. 868, “Concernente la verifica degli affidamenti dei concessionari ai sensi dell’art.177 del D.lgs. n. 50/2016 e adempimenti dei concessionari autostradali ai sensi dell’art. 178 del medesimo codice”, ANAC infatti non ha mancato di segnalare una serie di fenomeni potenzialmente sintomatici di singolari criticità e anomalie. In primo luogo con riferimento al settore della fornitura del gas è emersa una situazione di dumping in cui “pochi gruppi di grandi dimensioni risultano concessionari in assenza di una procedura di gara, determinando alcuni monopoli di fatto”. L’ANAC ha altresì evidenziato la carenza del ruolo delle amministrazioni concedenti, le quali nell’attività di verifica si sono per lo più limitati a prendere atto di quanto dichiarato dai concessionari, senza operare alcun serio e circostanziato riscontro.
E’ inoltre importante annotare che con sentenza 17 novembre 2010, n. 325, la Corte Costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere “limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie” (per restringere ulteriormente le eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo inderogabile).
La stessa giurisprudenza costituzionale ha ribadito con ulteriori pronunce che l’affidamento in regìme di delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte cost., 20 marzo 2013, n. 46).
Di tal ché, il Consiglio di Stato si è preoccupato di stabilire se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea ed in particolare con il principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall’articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, Sull’aggiudicazione dei contratti di concessione.
Va, peraltro, osservato al riguardo che, in tema di acquisizione dei servizi di interesse degli organismi pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui contestuale applicazione può comportare antinomie:
a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che vincoli di particolare modalità gestionale derivanti dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.: regime di affidamento con gara) rispetto a un’altra (ad es.: regime di internalizzazione ed autoproduzione);
b) (dall’altro) il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Orbene, il principio sub b) sembra presentare una valenza sussidiaria rispetto al principio sub a), ossia, rispetto al principio della libertà nella scelta del modello gestionale.
Infatti, la prima valutazione e scelta che viene demandata alle P.A. è di optare fra il regime di autoproduzione e quello di esternalizzazione. Si tratta peraltro di modelli che effettivamente appaiono collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di equiordinazione.
Ne consegue che, allorquando si opti per il secondo di tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato.
Il Collegio ha pertanto osservato che se questi sono gli esatti termini della questione, e se si considera che l’in house providing è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e autoproduzione, risulta che lo stesso in house providing rappresenta non un’eccezione residuale, ma una normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo, che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza.
Nel quadro dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti in house – sostanziale forma di autoproduzione – non sembrano, quindi, posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti con gara.
Al contrario, sembrano rappresentare una sorta di prius logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o esternalizzazione dei servizi di proprio interesse.
Sicché, dalla lettura proposta dal Consiglio di Stato, sembra che per l’ordinamento UE da parte di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o utilmente percorribili. Il che sembrerebbe corrispondere ad elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.
A tal proposito merita particolare attenzione la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, la quale ha chiarito a propria volta che l’ordinamento comunitario non pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza della Grande Sezione del 9 giugno 2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo della Germania federale, la Corte di giustizia ha chiarito che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche” nell’occasione, la Corte di giustizia ha richiamato i princìpi già espressi con la sentenza della Terza Sezione del 13 novembre 2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant).
In termini sostanzialmente analoghi si è espressa la stessa Commissione europea nella “Comunicazione interpretativa sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati – PPPi “(documento C(2007)6661 del 5 febbraio 2008). Nel documento, la Commissione europea ha chiarito che «nel diritto comunitario, le autorità pubbliche sono infatti libere di esercitare in proprio un’attività economica o di affidarla a terzi, ad esempio ad entità a capitale misto costituite nell’ambito di un partenariato pubblico-privato. Tuttavia, se un soggetto pubblico decide di far partecipare un soggetto terzo all’esercizio di un’attività economica a condizioni che configurano un appalto pubblico o una concessione, è tenuto a rispettare le disposizioni del diritto comunitario applicabili in materia».
Nel medesimo senso depone ancora l’articolo 2 della citata Direttiva 2014/23/UE, il quale è significativamente rubricato “Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche”. In detta disposizione, infatti, si riconosce in modo espresso la possibilità per le amministrazioni di espletare i compiti di rispettivo interesse pubblico:
i) avvalendosi delle proprie risorse, ovvero
ii) in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici, ovvero – ancora
iii) mediante conferimento ad operatori economici esterni, senza fissare alcuna graduazione in termini valoriali fra le richiamate modalità di assegnazione.
In tale quadro sistematico si pone anche il Considerando 5 della Direttiva 2014/24/UE, secondo cui “(…) nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva (…)”.
Ebbene, l’enunciazione dei principi in parola sembra assumere valenza generale e non sembra consentire l’introduzione di disposizioni volte a riconoscere a una delle modalità di attribuzione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche (come l’affidamento in house) un ruolo giuridicamente subordinato rispetto alle altre.
Così ricostruito il quadro di riferimento secondo i Giudici di Palazzo Spada si pone a questo punto la questione della conformità fra
– da un lato, i richiamati princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non addirittura la prevalenza logica del sistema di autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione);
– e, dall’altro, le previsioni del diritto nazionale italiano (in particolare, il comma 2 dell’articolo 192 del Codice) i quali pongono invece gli affidamenti in house in una posizione subordinata e subvalente e – come detto – li ammettono soltanto in caso di dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale forma di gestione.
Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per superare questa presunzione occorre dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento.
Le restrittive condizioni poste dal diritto italiano potrebbero, quindi, giustificarsi in relazione ai princìpi e alle disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta priorità sistematica al principio di mesa in concorrenza rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così non pare essere.
È stato così posto alla Corte di giustizia il seguente quesito interpretativo: “se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento”.
Quanto alla seconda questione pregiudiziale concernente i vincoli imposti in ordine alla partecipazione al capitale sociale da parte dei soggetti pubblici che non esercitino il c.d. controllo analogo, il Consiglio di Stato ha affermato che lo schema della partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche non sembra in contrasto con il diritto comunitario.
Sennonché è in dubbio la conformità fra il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e il diritto interno (in particolare, l’art. 4, comma 1, cit., interpretato nei detti sensi) che non appare consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato.
Le argomentazioni sviluppate nell’Ordinanza di rimessione in relazione alla seconda questione pregiudiziale per quanto sintetiche sembrano cogliere nel segno.
A tal riguardo occorre evidenziare che nel caso di specie lo statuto della società pluripartecipata conteneva la previsione di due categorie di soci: gli affidanti, ai quali è conferito l’esercizio del controllo analogo in forma congiunta sulla società (e che, in forza di tale attribuzione, possono avvalersi dei suoi servizi) e i non affidanti, i quali non esercitano alcun controllo sulla società e, quindi, non possono ricorrere all’affidamento diretto.
A fronte di tale previsione il Collegio ha ritenuto, con un argomentazione alquanto persuasiva, che il particolare schema così delineato sembrerebbe compatibile con il diritto europeo.
Le direttive UE prevedono l’esclusione della loro applicazione non soltanto alle fattispecie in cui il capitale sociale del soggetto affidatario sia interamente pubblico, ma anche ai casi in cui siano presenti “forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, [e] che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
In forza di ciò, argomenta l’ordinanza, “non emergono ragioni per escludere che l’in house a controllo analogo congiunto possa sussistere anche nel caso di partecipazione di capitale di amministrazioni pubbliche (purché non esercitino controllo o poteri di veto e non effettuino affidamenti diretti)”. Tuttavia, se da una parte l’acquisizione di partecipazioni societarie che non siano finalizzate allo svolgimento di un servizio per conto del soggetto partecipante sembra coerente con l’ordito del diritto eurounitario, dall’altra la normativa interna sembra contraddire questo assunto.
A tal riguardo occorre rammentare che la normativa italiana è il risultato dell’attività giurisprudenziale condotta dalla Corte dei Conti negli ultimi venti anni. L’articolo 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate di cui al D. Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 ha reso, infatti, cogente il principio secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
Nella specie, la pedissequa applicazione di tale norma minerebbe in radice la possibilità, per i soci non affidanti, di mantenere delle partecipazioni al capitale societario, proprio perché tale detenzione non è correlata né con l’esercizio del controllo sulla società, né con la possibilità di avvalersene per la gestione di un servizio. Né, secondo il Consiglio di Stato, la possibilità che il controllo e l’affidamento diretto avvengano in futuro sembra soddisfare il criterio della stretta necessarietà che va considerata nella sua immediatezza e non attraverso una sua valenza ipotetica e futura, decisamente troppo aleatoria per soddisfare il parametro normativo interno.
4. Considerazioni conclusive
A distanza di pochi giorni dall’Ordinanza in questione analoghe rimessioni alla Corte di giustizia sono state disposte dalla V Sezione con le Ordinanze 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296. Invero anche il TAR Liguria, con Ordinanza 15 novembre 2018, n. 886 aveva rimesso al vaglio della CGUE una questione analoga concernente il regime degli affidamenti in house.
Si tratta, a ben vedere, di una presa di posizione di non poco conto che si traduce nell’affermazione che l’in house providing è un metodo di affidamento “ordinario”.
Si tratta di una vexata quaestio che lontana dal sopirsi ripropone l’antico dilemma risalente ai primi anni duemila in ordine all’inquadramento dell’in house providing come un modello organizzativo riconducibile all’autoproduzione avente (o meno) carattere residuale.
Sennonché a seguito della positivizzazione dell’istituto dell’in house nella direttiva n. 24/2014 può infatti ritenersi definitivamente acquisito – quantomeno in ambito europeo – il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
Tale principio può ritenersi oggi operante anche nell’ordinamento nazionale” posto che l’art. 34, comma 20, del D.L., n. 179/2012, convertito in l. n. 221/2012, specificamente dettato per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, non impone all’Amministrazione alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso prioritario al mercato.
Di conseguenza, alla luce del quadro normativo nazionale e euro-unitario, tracciato dal Consiglio di Stato, è lecito dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del Codice.
La disposizione, infatti, nella parte in cui impone un onere motivazionale “supplementare” e “aggravato” relativamente alle “ragioni del mancato ricorso al mercato”, sembrerebbe infatti aver palesemente ecceduto rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega 28.1.2016, n. 11 in violazione dell’art. 76 della Costituzione.
Si rammenta infatti che l’art. 1 della legge delega n. 11/2016 aveva infatti fissato, inter alia, i seguenti princìpi e criteri direttivi:
“a) divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (così detto divieto di gold plating);
(…) eee) garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti. L’iscrizione nell’elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all’ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all’ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto”.
Di tal ché il Legislatore interno, andando al di là del criterio sub (a) ha introdotto un onere amministrativo di motivazione – circa le ragioni del mancato ricorso al mercato – maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, donde la violazione del divieto di gold plating.
D’altra parte, lo stesso onere motivazionale imposto per procedere all’affidamento in house, inoltre, eccedendo il criterio direttivo sub (eee) non sembrerebbe trovare alcun addentellato nel criterio direttivo, che non lo menziona affatto e soprattutto – non ha nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97 comma 1 del D. Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’ANAC, dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house.
La pronunce in esame si inseriscono inoltre in un contesto nazionale in cui la legge di stabilità 2019 (tramite la modifica apportata dall’art. 1, comma 723, della legge 145 del 2018 all’articolo 24, comma 5 bis, del Testo unico sulle società partecipate) ha introdotto il differimento all’anno 2021 dell’obbligo di dismissione in capo alle amministrazioni detentrici di partecipazioni in società che abbiano prodotto un risultato medio in utile nel triennio precedente alla ricognizione straordinaria prevista dall’articolo 24 del Testo unico sulle società partecipate. Il che lascia aperto il dibattito sulle forme di controllo esercitabili da parte dei soci nei confronti delle società a capitale pubblico.