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( votes)Chi glielo spiegherà ad Eitan? Che parole userà? Come glielo spieghi ad un bambino di cinque anni che nella sua vita non ci sarà più una mamma, un papà, un fratellino? Queste cose non si possono spiegare. Non c’è nulla da comprendere. Ti ci puoi arrovellare fino allo sfinimento senza arrivare da alcuna parte. Si prendono per quello che sono: brutali e crudeli fatti di cronaca che ci si incollano addosso e non te ne potrai più sbarazzare.
La tragedia del Mottarone arriva in una giornata di festa: i dati della pandemia sempre più confortanti; le riaperture sempre più vicine. L’impianto che si è portato via la vita di quattordici persone era rientrato in funzione da poche ore. Sono le prime risalite verso la vetta. I primi tentativi di tornare alla normalità.
Il Mottarone, come aveva fatto il Morandi, riporta in auge il tema della sicurezza. Lo fa alla vigilia dell’attuazione del Recovery Fund facendo storcere il naso a qualcuno. Si riflette sulla manutenzione delle infrastrutture. Il palco è quello di UnoMattina. Interviene il presidente ONLIT Dario Balotta. “Vogliamo fare nuove strade, nuove ferrovie e non siamo in grado di gestire i 100mila chilometri di strade, i 25mila chilometri di ferrovie, le migliaia di impianti a fune”, afferma invocando la necessità di una costante cura per mantenere in efficienza le infrastrutture. Meno nuove opere e più manutenzione per quelle già in dotazione è il suo suggerimento.
Una formula del genere dovrebbe far presumere che le 57 grandi opere previste nel Recovery non siano davvero necessarie. Ne potremmo fare a meno per concentrarci su altro. Ma è vero? E’ vero come afferma qualcun altro che si tratta di opere dalla qualità incerta, che giacevano nei cassetti, “promesse in svariate campagne elettorali”, come sostiene Roberta Carlini su Internazionale? Può darsi. Ma è anche vero che in meno di un anno non è realisticamente pensabile che si potessero progettare da zero opere che si devono chiudere in un quinquennio.
Tra le infrastrutture che si andranno ad appaltare ci saranno di certo progetti datati. Ma è proprio questo il punto: il Recovery offre la possibilità di realizzare opere a cui altrimenti avremmo dovuto rinunciare per sempre. Non ancora cantierizzate, non perché non necessarie, ma per la scarsità delle risorse e per i labirintici processi burocratici. Il Recovery supera entrambi gli ostacoli. Non sarà tutto facile. C’è tensione. Ma anche ottimismo. “Ma se finora per fare grandi opere ci abbiamo messo quindici anni, perché ora dovremmo credere che riusciremmo a completarle in cinque?” chiede Marco Galluzzo al Ministro Enrico Giovannini sulla versione digitale del Il Corriere della Sera. La risposta del titolare del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili è semplice, disarmante, rassicurante: “Nel Piano abbiamo messo opere che riteniamo realizzabili in un quinquennio”.
E così, a fine 2026 erediteremo dal Recovery 57 grandi opere: strade, ferrovie, porti, impianti idrici e caserme. Un traguardo importante, ma non esattamente un punto d’arrivo. Questo traguardo coincide con una nuova linea di partenza. La manutenzione.
L’argomento è cruciale. Non basta costruire. Non basta farlo seguendo tutti i criteri e utilizzando i materiali migliori. Tutto è sottoposto al deterioramento, sin dalla posa della prima pietra. E’ un processo lento e costante che va seguito con un lavoro paziente e scrupoloso. Un’equazione che dovrebbe essere il primo dei comandamenti che ogni gestore dovrebbe onorare. Con lui ogni tecnico chiamato alle verifiche, ogni funzionario al vertice degli organi di vigilanza.
Mottarone, Morandi e tanti altri drammi non possono essere riconducibili alla responsabilità di un solo nome. Il sistema di vigilanza e controlli esiste. Tali tragedie sono la somma di molteplici atteggiamenti illegali e incoscienti. Una concentrazione di comportamenti sconsiderati e omertosi che si nascondono nell’ombra dell’errore umano. Un uomo può sbagliare e trascurare i segnali di pericolo, ma un tecnico lo deve rilevare ed un funzionario deve prenderne le conseguenti decisioni. Se in un sistema così organizzato si arriva comunque all’incidente abbiamo la somma di tre errori umani e non si dovrebbe nemmeno parlare di incidente. Un incidente, come si legge sul vocabolario Treccani, si intende un “avvenimento inatteso che interrompe il corso regolare di un’azione”. La parola chiave è “inatteso”. Ma non è inatteso un sinistro che occorre a chi si mette in auto consapevole che la stessa presenta importanti problemi strutturali. E’ un folle se ci si mette alla guida. Un criminale se permette che altri la utilizzino.
Oggi abbiamo la tecnologia per un monitoraggio accurato della salute delle infrastrutture. Dobbiamo saperla utilizzare. Un sapere che deve connettere le competenze tecniche alla coscienza. Se ci sono segnali di pericolo, bisogna saperli leggere, avere la prontezza di intervenire, il coraggio di opporsi ed imporsi ai poteri che vorrebbero il contrario. Il Morandi e il Mottarone nei giorni in cui hanno fatto irruzione sulle pagine di cronaca sarebbero dovuti essere chiusi. Lo dicono i risultati dei controlli post tragedia, ma soprattutto i referti precedenti.
Abbiamo a disposizione tecnologie sofisticate per diagnosticare tragedie come queste. Ma se alla precisione delle macchine non si affianca la responsabilità dell’uomo, non abbiamo fatto alcuna conquista sul fronte della gestione del rischio. Chi avrebbe dovuto chiudere l’impianto? È possibile, a fronte di una diagnosi tecnica che segnala anomalie, permettere ad un impianto di continuare a funzionare?
Chi glielo si spiega a tutti gli Eitan in cerca di una risposta che la loro vita è stata depredata perché qualcuno non ha fatto il proprio dovere? Se non comprendiamo che le nostre azioni, omissioni, distrazioni possono avere gravi conseguenze, avremo tanti altri Morandi e Mottarone. Li potremmo evitare se imparassimo che un lavoro, qualsiasi lavoro, dovrebbe essere eseguito con competenza, attenzione, dedizione, consapevolezza: devozione.