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( votes)Premessa
Con ogni probabilità, in ambito assicurativo, rispetto al testo del decreto semplificazioni, la Legge delega in questo momento in discussione al Senato, non ci saranno novità.
Pur tuttavia, in questo primo intervento, si preferisce non occuparsi direttamente delle novità normative in fieri ma affrontare un tema ad esse assolutamente propedeutico: in caso di danno ingiusto (ex articolo 2043 del codice civile) da provvedimento, provocato da un dipendente pubblico, qual è il giudice competente?
Tratteremo quindi della mancata legittimazione passiva del singolo operatore pubblico davanti al Tar (o ai giudici di appello) e delle interazioni fra l’azione del giudice contabile con la possibilità dell’ente di appartenenza di adire il giudice civile.
Davanti al Tar, risponde solo la Pubblica Amministrazione intesa come apparato
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 9 marzo 2020 n. 6690) ed il Consiglio di Stato (decisione numero 2650 del 24 aprile 2020) si trovano d’accordo nell’imputare al giudice civile (e non a quello amministrativo) la giurisdizione nell’ipotesi in cui la domanda risarcitoria sia rivolta contro un dipendente di un’amministrazione pubblica.
Come prima considerazione, sottolinea il Supremo Giudice civile va sottolineato che il dipendente pubblico ben può rispondere anche della lesioni di interessi legittimi in quanto <<la tesi dei ricorrenti non rinviene ostacolo nell’interpretazione – sicuramente valida e coerente sino ad un certo momento storico – dell’art. 28 Cost. e delle disposizioni (artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 3 del 1957) che di tale norma fondamentale costituiscono, ancora oggi, il precipitato legislativo in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti, siccome volta ad escludere, nei confronti di quest’ultimi, la configurabilità, in astratto, della responsabilità diretta (e solidale con quella della P.A.) in caso di lesione di posizioni di interesse legittimo.
Diversamente che dal passato, deve ora ritenersi che l’espressione “atti compiuti in violazione dei diritti” contenuta nell’art. 28 Cost. (e, di riflesso, l’analoga espressione – “violazione dei diritti dei terzi” – utilizzata dall’art. 23 del d.P.R. n. 3 del 1957 per definire la nozione di “danno ingiusto” cui si richiama l’art. 22 dello stesso d.P.R.) sia da intendersi, in senso estensivo e traslato, come violazione di ogni interesse rilevante per l’ordinamento giuridico e meritevole di tutela, tale, dunque, da fondare la responsabilità diretta del pubblico dipendente (per dolo o colpa grave) anche in riferimento alla lesione di una posizione di interesse legittimo del terzo danneggiato.
E’ una lettura, questa, delle norme anzidette (in tal senso, espressamente sul solo combinato disposto degli artt. 22 e 23 del T.U. del 1957, cfr. Cass., 31 luglio 2015, n. 16276, ma già in precedenza, nella giurisprudenza amministrativa, v. Cons. Stato, VI, n. 3891 del 2006), che è potuta maturare in virtù dell’evoluzione stessa dell’ordinamento, alimentata dal coordinato operare dei suoi formanti: anzitutto, la regolamentazione positiva, con particolare slancio dal d.lgs. n. 80 del 1998 (per poi giungere a definizione con la disciplina dettata dal c.p.a.: artt. 7 e 30), e, quindi, la giurisprudenza, a partire dalla sentenza, di queste Sezioni Unite, n. 500 del 22 luglio 1999.
Un’evoluzione che, del resto, ha potuto giovarsi non solo del richiamo espresso alle “leggi … civili e amministrative” presente nello stesso art. 28 Cost. (così da dare vitalità effettiva ai mutamenti normativi) e della ragione fondativa della medesima previsione costituzionale (volta a personalizzare la responsabilità della stessa P.A., istituendo una immediata relazionalità tra funzionario pubblico e cittadino, non più schermata soltanto dalla mediazione dell’apparato, secondo una traiettoria che ha trovato conferma nella disciplina sul procedimento amministrativo, con l’istituzione della figura del relativo responsabile), ma anche di un più ampio contesto giuridico-culturale, incline ad assegnare centralità, non solo ermeneutica, al principio di effettività della tutela, già scolpito in via generale nell’art. 24 Cost. (e dall’art. 113 Cost. nello specifico degli atti della pubblica amministrazione), nonché rinsaldato dal novellato art. 111 Cost. (con la previsione della garanzia del giusto processo dalla durata ragionevole) e dalle fonti sovranazionali (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU), il quale trova la propria ragion d’essere proprio nella pretesa sostanziale la cui soddisfazione viene reclamata dinanzi al giudice>>.
Già nel 1999, infatti, (con la famosa sentenza n. 500) le Sezioni Unite Civile della Cassazione, nell’aprire al risarcimento del danno da interessi legittimi, avevano evidenziato come il giudice dovesse fare una “valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato”.
Giova infatti sottolineare che i provvedimenti amministrativi, in virtù del rapporto organico che lega il funzionario all’apparato burocratico presso il quale è incardinato, sono esclusivamente imputabili all’Amministrazione, e non alla persona del funzionario che li ha adottati.
Ed in effetti, continuano i giudici della Corte di Cassazione, l’art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione” (Cass., S.U., 13 giugno 2006, n. 13659).
Il presupposto della giurisdizione amministrativa alla luce dell’art. 103 Cost. è, infatti, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione” o “del soggetto che, pur non facendo parte dell’apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell’Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo”.
Il dettato costituzionale – che radica la giurisdizione del giudice amministrativo “nei confronti della pubblica amministrazione” – è confermato dallo stesso codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 1, che riferisce alle “pubbliche amministrazioni” (e in base al comma 2 del medesimo art. 7, anche ai soggetti ad esse “equiparati”) l’esercizio del potere suscettibile di incidere sulle posizioni di interesse legittimo e (nelle particolari materie) di diritto soggettivo e, quindi, di attivare la cognizione del giudice amministrativo a tutela di dette situazioni soggettive. In tal senso, il perimetro della giurisdizione del giudice amministrativo non può estendersi anche alle controversie in cui il potere amministrativo “venga in discussione in quanto esercitato dai soggetti all’Amministrazione legati da rapporto organico, cioè considerandosi il solo dato che il loro agire si è esplicato formalmente come espressione del potere amministrativo” – e il riferimento esplicito e chiaro alle forme dell’esercizio del potere in quanto poste in essere da “pubbliche amministrazioni” evidenzia come “soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l’altra il soggetto che faccia la questione sull’interesse legittimo o sul diritto soggettivo”.
Come si evidenziava all’inizio, anche il Consiglio di Stato è dello stesso parere ed infatti viene posto in rilievo che “il principio di diritto non solo ha retto sino ad oggi, confermato da un consolidato indirizzo giurisprudenziale (ex plurimis, Cass. Sez. Un., 5914/2008; 11932/2010; 5408/2014), ma soprattutto sembra non poter essere messo in discussione alla luce della più recente evoluzione della legislazione.
In altre parole, quanto affermato dalle Sezioni Unite sulla base dell’unico appiglio normativo disponibile alla data del 2006, sostanzialmente il solo art. 103 Cost., appare tanto più valido oggi, alla luce delle previsioni legislative introdotte nell’ordinamento ad opera del D.Lgs. 104/2010. Dirimente è l’art. 7 c.p.a., il quale esplicitamente riconduce la giurisdizione del Giudice amministrativo alle controversie involgenti “l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo” e, soprattutto, “riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”.
Il riferimento ivi contenuto alle pubbliche amministrazioni inequivocabilmente disegna il processo amministrativo come un processo in cui una parte deve necessariamente potersi qualificare pubblica, in caso contrario rientrando la controversia nel “classico” paradigma della lite tra privati, la quale fa venir meno ogni esigenza di specificità che ne richieda la devoluzione al Giudice amministrativo, anziché al suo Giudice naturale (art. 25 Cost.), che è e resta il Giudice ordinario.”.
Risulta inoltre fondamentale, per i Giudici di Palazzo Spada sottolineare che “Né – è il caso di specificarlo – potrebbe condurre ad opposta conclusione la lettura della disposizione che l’appellante presenta a questo Collegio come dirimente, e cioè la presenza dell’avverbio congiuntamente nell’art. 22 del d.P.R. 3/1957: ritiene questo Collegio che il senso da attribuire a tale locuzione non sia, per così dire, spaziale bensì temporale. In altre parole, una corretta esegesi della disposizione induce ragionevolmente a ritenere che il Legislatore non intendesse riferirsi alla possibilità, per il ricorrente danneggiato, di far valere con lo stesso ricorso e dinanzi alla stessa sede di giudizio il diritto al risarcimento nei confronti della parte pubblica e del privato suo dipendente, bensì intendesse regolare l’aspetto temporale della proposizione, autonoma e dinanzi a Giudici diversi, delle due distinte domande risarcitorie: detto altrimenti, con l’uso dell’avverbio congiuntamente il Legislatore intendeva verosimilmente sgombrare il campo da qualunque considerazione di pregiudizialità, anche necessaria, dell’una domanda rispetto all’altra, e segnatamente escludere che il privato danneggiato dovesse prima adire il Giudice amministrativo per procurarsi in tale sede l’accertamento definitivo dell’illegittimità del provvedimento e della sussistenza dei presupposti ex art. 2043 c.c. per ritenere colpevole la Pubblica Amministrazione, e solo successivamente, forte di tale giudicato, azionare la tutela risarcitoria contro il dipendente dinanzi al Giudice ordinario, altrimenti non abilitato a conoscere dell’illegittimità del provvedimento che si assume essere la fonte del danno. Ad oggi, il privato ben può, pertanto, chiamare in giudizio congiuntamente l’amministrazione ed il dipendente: ma in sedi distinte.
A fortiori, la correttezza di tale conclusione risulta confermata dalla considerazione dell’intrinseca differenza della valutazione che il Giudice ordinario è chiamato a compiere rispetto al Giudice amministrativo, pur nella medesima materia del risarcimento del danno da attività provvedimentale illegittima, in ragione della differenza soggettiva della parte citata in giudizio: mentre il primo, infatti, dovrà prodursi in un’analisi più approfondita, potendo affermare la responsabilità del dipendente solo nell’ipotesi in cui riscontri l’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, il secondo ben potrà ritenere colpevole l’Amministrazione anche se nella fattispecie ricorra un’ipotesi di colpa lieve. Come si vede, l’esito dei due giudizi è fisiologicamente suscettibile di divergenza: e pertanto, evidentemente, il rischio paventato dal ricorrente di ritrovarsi di fronte a giudicati di segno opposto se i due giudizi proseguissero in sedi diverse non sarebbe neutralizzato neppure con la devoluzione di entrambi i giudizi allo stesso Giudice.
Tutto quanto finora detto può riassumersi in una sola considerazione: pur se avvinte da un vincolo di solidarietà e connesse perché derivanti dal medesimo fatto storico, le due obbligazioni risarcitorie, poste l’una a carico dell’Amministrazione in quanto tale, e l’altra a carico del dipendente in proprio, restano autonome e rendono evidente che si tratta di due domande caratterizzate da petita diversi, essendo radicalmente assente e non ipotizzabile qualsivoglia identità tra i soggetti passivi, con conseguente legittima divergenza anche in punto di autorità giurisdizionale competente a conoscerne. “
Valga quindi il seguente principio: appartiene al giudice ordinario la cognizione della domanda risarcitoria proposta nei confronti non della pubblica amministrazione, ma di funzionari pubblici per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni; il pubblico dipendente, autore materiale del provvedimento, resta sempre lo strumento dell’azione della P.A. e non è mai qualificabile egli stesso con la P.A.
Risulta pertanto inammissibile in sede di giurisdizione amministrativa la domanda risarcitoria proposta nei confronti dei singoli dipendenti.
Lo scopo delle nostre riflessioni è anche quello di comprendere quali siano le conseguenze assicurative di una tale affermazione che sembra rivestire un’importanza periferica rispetto ad un adeguato oggetto della copertura di RCT ma che, al lato pratico, risulta essere un nodo centrale.
Fondamentale infatti è il seguente pensiero (tratto dalla sentenza n. 135 del 29 luglio 2016 della Corte dei Conti della Lombardia, ripreso anche dalla sentenza n. 171 del 3 luglio 2019 ): “Una sentenza di condanna civile di risarcimento danni, rifondibili integralmente da una polizza assicurativa (se operante), non configura né un danno erariale certo, né definitivo.”
Ma andiamo con ordine; intanto analizziamo alcune norme fondamentali menzionate dai due supremi giudici civile ed amministrativo.
La prima non può che essere l’articolo 28 della Costituzione (che peraltro oramai viene menzionato in tutti i testi di polizza) a norma del quale “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
I padri costituenti, si legge nel verbali delle sedute del 1946/1947, non hanno dubbi nell’imputare alla Pubblica Amministrazione una responsabilità PER FATTO PROPRIO a seguito degli illeciti dei propri dipendenti (ed amministratori).
Ecco perché risulta fondamentale che l’Assicurazione di Responsabilità Civile con contraente/assicurato un Ente pubblico sia adeguata alle sue esigenze (e senza alcuna limitazione sui gradi della colpa).
E per attuare questo obiettivo, ci aiuta anche la summenzionata decisione del Consiglio di Stato nella parte in cui sottolinea che “intrinseca differenza della valutazione che il Giudice ordinario è chiamato a compiere rispetto al Giudice amministrativo, pur nella medesima materia del risarcimento del danno da attività provvedimentale illegittima, in ragione della differenza soggettiva della parte citata in giudizio: mentre il primo, infatti, dovrà prodursi in un’analisi più approfondita, potendo affermare la responsabilità del dipendente solo nell’ipotesi in cui riscontri l’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, il secondo ben potrà ritenere colpevole l’Amministrazione anche se nella fattispecie ricorra un’ipotesi di colpa lieve”.
La pubblica amministrazione intesa come apparato, risponde infatti, anche davanti al giudice amministrativo, per i fatti illeciti ex art. 2043 cc per il quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” senza quindi alcuna distinzione sui gradi della colpa.
Mentre, e questa circostanza viene anche menzionata dalla Corte di Cassazione, il dipendente di una pubblica amministrazione, risponderà per danno ingiusto, quindi civilmente, solo per dolo o colpa grave.
In quale norma trova conferma questa affermazione?
Nel Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 – Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato -, sia all’articolo 22 a norma del quale “L’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo.”.
Sia nell’articolo 23 dove viene sancito che “É danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave”.
Ed infine, la norma sulla responsabilità contabile del singolo responsabile pubblico.
Legge 14 gennaio 1994, n. 20 – Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti. Art. 1. Azione di responsabilità.
1. La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.
Di conseguenza
• In caso di controversia per il risarcimento di un danno ingiusto da provvedimento illegittimo, davanti al giudice amministrativo comparirà solo la Pubblica amministrazione intesa come apparato.
• Nella polizza di Responsabilità Civile terzi per attività provvedimentale, nel caso l’Ente pubblico sia contraente ed assicurato, non ci devono essere limitazioni rispetto al grado della colpa.
• Se l’Ente pubblico è munito di un’adeguata copertura assicurativa, il Responsabile non sarà chiamato a rispondere davanti alla Corte dei Conti (se non eventualmente per l’importo della franchigia o per danno extra massimale).
• I bisogni assicurativi di un dipendente pubblico sono comunque relativi ad una copertura di danni materiali nel caso la sua attività possa produrli (vedi Rup, progettisti, direttori dei lavori, collaudatori, responsabili della sicurezza) e anche perdite pecuniarie (in tal caso davanti al solo giudice civile) nonché la copertura per la responsabilità da danno erariale (come noto, con pagamento del premio a carico della singola persona).
C’è una particolarità da aggiungere: in caso di responsabilità da “culpa in affidando” la giurisprudenza è concorde nell’identificare il giudice civile quale organo competente a decidere dell’eventuale danno ingiusto, anche nei confronti della pubblica amministrazione intesa come Stazione appaltante (su cui peraltro grava una responsabilità di tipo oggettivo): ma di questo ne parleremo in un prossimo articolo.
Interferenze tra il giudizio di responsabilità per danno erariale e quello di responsabilità civile
Per affrontare il secondo tema, analizzeremo il contenuto di una recente ordinanza delle Sezioni Unite civile della Corte di Cassazione (numero 16722 del 5 agosto 2020); la domanda a cui daremo risposta è la seguente: L’azione davanti alla Corte dei Conti preclude all’amministrazione danneggiata la possibilità di agire davanti al giudice civile.
La risposta negativa ci arriva appunto dal massimo organo della giustizia civile in quanto azione della Corte dei Conti, a carattere necessario, non può mai essere condizionata, in senso positivo o negativo, dalle singole amministrazioni danneggiate (Cass., sez. un., 18/12/2014, n. 26659; Cass. Sez. Un. 19/2/2019, n. 4883), le quali ben possono promuovere dinanzi al giudice ordinario l’azione civilistica di responsabilità a titolo risarcitorio, facendo valere il proprio interesse particolare e concreto (Cass. Sez. Un. 10/9/2013, n. 20701), non essendo neppure in astratto ipotizzabile che detti soggetti non possano agire in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti e interessi (artt. 3 e 24 Cost.), tanto più in mancanza di specifiche norme derogatorie.
Per prima cosa, sottolineano i giudici civili, si deve comprendere la peculiarità del giudizio contabile civile.
<<Nel giudizio contabile il Procuratore generale della Corte dei conti agisce quale pubblico ministero portatore di obiettivi interessi di giustizia nell’esercizio di una funzione neutrale, rivolta alla repressione dei danni erariali conseguenti ad illeciti amministrativi, rappresentando un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali ed indifferenziati, non l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure convergenti con il primo>>.
Di conseguenza “L’autonomia tra le due azioni emerge evidente anche se si guarda alle rispettive finalità: l’azione contabile ha una funzione prevalentemente sanzionatoria (Cass. Sez. Un. 2/9/2013, n. 20075 e 12/4/2012, n. 5756) e si caratterizza per una «combinazione di elementi restitutori e di deterrenza» (cfr. Corte Cost. 20/11/1998, n. 371 e Corte Cost. 30/12/ 1998, n. 453); non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell’amministratore o dall’omesso controllo del vigilante; solo in determinati casi (a differenza dell’azione civile in cui il debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi) è esercitabile anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno (Cass. Sez. Un. 2/9/2013, n. 20075); richiede (a differenza dell’azione civile per la quale è sufficiente la sola colpa) il dolo o la colpa grave; diversamente, l’azione civile o penale proposta dalle amministrazioni interessate è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola amministrazione attrice (Cass. Sez.Un. 27/8/2019, n. 21742; Cass. 4883/2019, cit.; Cass.20/12/2018, n. 32929, Cass. 14/7/2015, n. 14632; Cass. n. 6372014, cit.).
In altri termini, le due azioni restano reciprocamente indipendenti, anche quando investono i medesimi fatti materiali (Cass. Sez. Un. 3/2/1989, n. 664; Cass. Sez. Un. 4/1/2012, n. 11), declinandosi il rapporto tra le stesse in termini di alternatività e non già di esclusività (Cass. Sez. Un.22/12/2009, n. 27092).
Così delineato il rapporto tra le due azioni, deve escludersi che il mancato esercizio dell’una costituisca condizione di proponibilità dell’altra, atteso che «il giudizio civile volto ad ottenere la liquidazione del danno patito dall’Amministrazione può essere instaurato e definito anche allorquando il giudizio di responsabilità amministrativo-contabile innanzi alla Corte dei Conti sia già arrivato a decisione, quante volte quest’ultimo non si sia concluso con una pronuncia di condanna al ristoro integrale del pregiudizio; pena, altrimenti, l’irragionevole compressione della legittima aspettativa ad una integrale compensazione facente capo all’Amministrazione danneggiata. Con l’unico limite del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, che impone di tener conto, con effetto decurtante, di quanto già liquidato in sede contabile, che il debitore potrà far valere, se del caso, anche in fase di esecuzione» (Cass. Sez. Un., n. 14632/2015, cit.; Cass. Sez. Un. 32929/2018).
A tal fine quindi, per concludere con una considerazione sugli aspetti assicurativi, risulta fondamentale che la polizza di Responsabilità Civile e contabile , con pagamento a carico della singola persona, includa, tra il novero dei terzi, anche la Pubblica amministrazione di appartenenza
Riassumendo:
I soggetti coinvolti
Giudice civile: Pa come apparato – Singolo responsabile
Giudice amministrativo: Pa come apparato
Giudice contabile: Singolo responsabile
L’elemento soggettivo
Giudice civile: Pa come apparato (art 2043 cc) – Singolo responsabile (distinzione dei gradi della colpa)
Giudice amministrativo: Pa come apparato (art 2043 cc)
Giudice contabile: Singolo responsabile (solo colpa grave o dolo)
I danni
Giudice civile: Danni materiali – Perdite “pecuniarie”
Giudice amministrativo: Perdite “pecuniarie”
Giudice contabile: Diretto alla PA – Indiretto agli “altri”