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Coronavirus e sicurezza nei lavori pubblici: le problematiche relative alla sicurezza e le funzioni e responsabilità dell’appaltatore, della Direzione Lavori, del RUP e del Coordinatore per la Sicurezza in fase di esecuzione. Riflessione sull’applicazione del protocollo per i cantieri edili

Premesse

L’emergenza sanitaria ha posto il tema della sicurezza – da garantirsi con specifici presidi – e, anche di conseguenza, del ritardo nell’ambito dell’esecuzione dei lavori pubblici. Si affronterà la problematica nell’ottica delle figure che operano all’interno dei cantieri, con l’obiettivo di segnalare una possibile “procedura”, anche per ispirare misure di contenimento alle altre categorie e si commenterà la Circolare del Ministero dell’Interno 19 maggio 2020 sulle verifiche da effettuarsi nella c.d. “Fase 2”.

La difficile enucleazione ed applicazione delle misure di sicurezza nella c.d. “Fase 1”

La recente e ben nota situazione di emergenza sanitaria ha comportato la necessità di ripensare in tempi assai brevi le misure di sicurezza c.d. “da rischio biologico” contenute negli Allegati XLII e XLVII al D.Lgs n. 81/2008 (dedicati, in verità, alle “specifiche misure di contenimento e livelli di contenimento” del rischio biologico).

L’intero impianto del D.Lgs. n. 81/2008, basato sui pilastri fondamentali della informazione e prevenzione e della proceduralizzazione delle misure di contenimento, ha mostrato la sua labilità di fronte ad un evento/agente di rischio tanto sconosciuto, quanto, ormai, ineluttabilmente diffuso.

In tal modo, quindi, l’obiettivo della normativa emergenziale è stato quello – da un lato – di preservare la continuità di alcune filiere produttive (anche con riferimento a servizi, in primis quelli sanitari), mentre – dall’altro lato – si rendevano “generali” le misure di prevenzione e protezione applicabili solitamente a contesti assai ridotti e già “formati ed informati” dei rischi specifici.

Si è posto, inoltre, il problema dell’acquisizione e dell’utilizzo dei dispositivi di prevenzione e protezione in quantità e qualità tali da garantire ad una platea assai ampia di lavoratori – quindi, non solo a quelli esposti “tradizionalmente” al rischio biologico – la necessaria sicurezza nell’espletamento delle attività; tutto ciò, naturalmente, garantendo anche che tali presidi fossero effettivamente compatibili con il tipo di attività svolta e non creassero, in definitiva, intralcio (e, quindi, potenziale pericolo) nel loro utilizzo massivo e generalizzato.

Di fronte a tale situazione emergenziale, il cui improvviso manifestarsi ne ha acuito la vulnerosità, la scelta primaria è stata quella di chiudere ogni attività ed imporre misure di contenimento tipiche del rischio biologico ad imprese rappresentative di settori che tale rischio non lo avevano – per loro natura – mai affrontato.

Così, dopo aver enucleato un gruppo di attività (individuate dai corrispondenti codici ATECO) considerate “essenziali” – anche tra gli operatori economici impegnati nei lavori pubblici -, la cui operatività andava comunque garantita anche durante il lockdown, si è predisposto un Protocollo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID 19 negli ambienti di lavoro (il 14 marzo 2020).

Tale regolamentazione, tuttavia, essendo applicabile “a tutti i settori produttivi“, necessitava di idonea specificazione di settore, con riferimento ai cantieri edili pubblici e privati: da qui, il nuovo protocollo di settore in data 24 aprile 2020, integrato da un accordo sindacale recepito, in pari data, dal MIT.

Il protocollo per i cantieri edili e l’accordo sindacale del 24 aprile 2020

La guida normativa di rango regolatorio per i cantieri edili, quindi, si è delineata compiutamente con il protocollo e l’annesso accordo sindacale del 24 aprile 2020, a circa un mese e mezzo di distanza dall’avvio del lockdown (e dall’indicazione favorevole all’apertura per le attività – anche edili –  c.d. “essenziali”).

Nel periodo intermedio, quindi, l’attivazione e concretizzazione delle misure di sicurezza è stata affidata ad un protocollo generale – applicabile ad attività assai eterogenee fra loro – e, soprattutto, alla sinergia fra datore di lavoro, coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, direttore dei lavori e – per i lavori pubblici – al RUP.

Tale azione combinata fra le “figure-chiave” del cantiere aveva come obiettivo quello di delineare misure “ad hoc” che potessero garantire l’operatività in sicurezza che, come si ricorderà, veniva auto-certificata anche al fine di ottenere il benestare prefettizio al prosieguo dell’attività di impresa.

Nel contesto di cui precede, inoltre, va ricordata anche la carenza endemica – almeno per il periodo tra metà marzo e fine aprile – dei più comuni presidi di sicurezza, quali tute, mascherine, prodotti igienizzanti, ecc. il cui reperimento sul mercato ha richiesto tempi e sforzi prolungati.

L’iniziativa e la primaria responsabilità nell’ambito della sicurezza sul lavoro gravano, come noto, sul datore di lavoro e sul lavoratore: il primo deve apprestare i presidi necessari e deve assicurare la formazione ed informazione, mentre il secondo deve formarsi adeguatamente ed utilizzare correttamente e continuativamente i dispositivi approntati ed attenersi alle procedure indicate per il suo settore produttivo e per lo specifico luogo di lavoro.

In tale contesto, per il settore dei lavori edili ed in particolare per il settore dei lavori pubblici, si inseriscono le competenze e responsabilità del Direttore dei Lavori, del RUP e – in primis – quelle del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione.

A quest’ultimo, principalmente, sono indirizzate le misure regolatorie indicate nel protocollo del 24 aprile 2020 ed annesso accordo sindacale.

 La sospensione dei lavori

Il protocollo apre con l’ampia premessa in cui ribadisce l’obbligo per il datore di lavoro di formazione ed informazione, di  agevolazione dello smart working, dell’applicazione delle procedure di distanziamento ed igienizzazione indicate il 14 marzo 2020 e della fornitura dei presidi di sicurezza – ed il conseguente obbligo dei lavoratori di attenersi a tali disposizioni ed a attivare misure di auto-isolamento in caso di sospetto contagio -.

Subito, poi, si ricorda che “Per gli ambienti dove operano più lavoratori contemporaneamente potranno essere assunti protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile in relazione alle lavorazioni da eseguire rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, siano adottati strumenti di protezione individuale. Il coordinatore per la sicurezza nell’esecuzione dei lavori, ove nominato ai sensi del Decreto legislativo 9 aprile 2008 , n. 81, provvede ad integrare il Piano di sicurezza e di coordinamento e la relativa stima dei costi. I committenti, attraverso i coordinatori per la sicurezza, vigilano affinché nei cantieri siano adottate le misure di sicurezza anticontagio; … Oltre a quanto previsto dal il DPCM dell’11 marzo 2020, i datori di lavoro adottano il presente protocollo di regolamentazione all’interno del cantiere, applicando, per tutelare la salute delle persone presenti all’interno del cantiere e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro, le ulteriori misure di precauzione di seguito elencate – da integrare eventualmente con altre equivalenti o più incisive secondo la tipologia, la localizzazione e le caratteristiche del cantiere, previa consultazione del coordinatore per l’esecuzione dei lavori ove nominato, delle rappresentanze sindacali aziendali/organizzazioni sindacali di categoria e del RLST territorialmente competente.”.

Si nota, quindi, che il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione viene normativamente obbligato ad adeguare il PSC – implementando di conseguenza i costi per la sicurezza e, quindi, di fatto disponendo una variante ex lege al contratto -.

Al tempo stesso “il committente” viene onerato della vigilanza circa l’applicazione delle misure di sicurezza; ed è proprio in questo inciso che si è letto l’obbligo del RUP di provvedere alla sospensione dei lavori sino a quando il PSC non fosse effettivamente aggiornato e le misure ivi previste non venissero concretamente applicate (ad esempio, acquistati i dispositivi di protezione individuale e completata la formazione ed informazione dei lavoratori, anche sull’uso dei dispositivi stessi).

Il quadro normativo esistente, infatti (eccezion fatta per le norme regionali che disponevano la generalizzata sospensione delle attività), non prevedeva, all’art. 107 D.Lgs. n. 50/2016, una simile fattispecie a giustificazione della sospensione c.d. “necessaria” dei lavori: in tal senso, quindi, al coordinatore per la sicurezza, a tenore dell’art. 92 D.Lgs. n. 81/2008 non sarebbe stato possibile altro che “informare” il committente ed adottare provvedimenti di sospensione che, però, non avrebbero avuto rilevanza sulla tempistica del contratto di appalto.

La citata disposizione andava a colmare anche una criticità nelle funzioni del Direttore dei Lavori che – anche ai sensi e per gli effetti del D.M. MIT 7 marzo 2018, n. 49 (recante “Approvazione delle linee guida sulle modalità di svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione”) – si trovava nella posizione di non poter disporre una sospensione dei lavori legata al “rischio Covid”, poiché all’art. 2 si precisa che i compiti di vigilanza sulla sicurezza non sono propri della Direzione Lavori e che la stessa può attivare la sospensione solo nei casi previsti dalla legge o su ordine del RUP.

Va notato, comunque, che la sospensione è riferita non “ai lavori” o “alle attività oggetto del contratto di appalto”, ma “alle lavorazioni”: tale infelice dizione – forse non voluta – evoca la possibilità di far proseguire lavorazioni compatibili con il “rischio Covid” e di sospendere solo quelle incompatibili … lasciando indefinito il titolare della responsabilità di scegliere quali lavorazioni sospendere.  

 Le criticità operative

Oltre alle precedenti considerazioni in tema di eterointegrazione normativa, il protocollo ed annesso accordo sindacale del 24 aprile 2020 presenta anche alcuni risvolti di criticità.

Innanzitutto, nell’attribuire al coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione la responsabilità di aggiornare il PSC allo specifico “rischio Covid”, implicitamente si ritiene che il professionista possa essere in grado di definire quali misure siano efficacemente opponibili – nell’ambito e con le peculiarità dei cantieri edili e, soprattutto quelli inerenti i lavori pubblici – al virus.

In altri termini, quindi, coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dovrebbe essere in grado di indicare quali mascherine, quali tute, quali procedure siano concretamente idonee – lavorazione per lavorazione – a garantire la sicurezza dei lavoratori e – nello specifico settore dei lavori pubblici – fornire indicazioni per la “variante sicurezza” e per segnalare l’opportunità di procedere alla sospensione dei lavori.

Tale responsabilità, che nell’immediato implica conoscenze mediche che non sono usualmente esigibili dal coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione e che – peraltro – sembrano dividere anche la comunità medica, rendono di fatto difficilmente applicabile la disposizione in esame.

Al coordinatore per la sicurezza, dunque, si chiede una sorta di best effort nel tradurre le “misure di precauzione” individuate – genericamente – dal protocollo del 24 aprile 2020 in “misure di prevenzione” vere e proprie – con la medesima impostazione del D.lgs. n. 81/2008 – da applicarsi in tutti i casi in cui le lavorazioni possano essere standardizzate per “tipologia di rischio”: tale ambizioso obiettivo – come vedremo di difficile concretizzazione – è comunque sintomatico dell’esigenza di predisporre “una procedura di emergenza” che possa essere replicabile e che aiuti nella riflessione sulla sicurezza anche altre categorie di operatori che, sinora, non hanno mai affrontato rischi specifici di natura biologica.

Il “rischio Covid”, infatti, non deriva direttamente dall’esecuzione di attività di cantiere, ma anche nell’ambito di tali attività può presentarsi quale “rischio generale ed esterno” e, quindi, le misure sanitarie di contenimento enucleate dal coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dei lavori edili possono assumere portata più generale ed essere adattate – con idoneo intervento normativo – anche ad altre categorie di lavorazioni che presentano le stesse problematiche (ad esempio, la necessaria contiguità, l’utilizzo di luoghi comuni, l’alternanza di fornitori, ecc.).

Nonostante l’oggettiva difficoltà del coordinatore per la sicurezza di assumere decisioni “medico-sanitarie”, tale impostazione viene replicata negli articoli inerenti l’organizzazione del cantiere, l’accesso dei fornitori (peraltro, con possibili interferenze con le competenze e responsabilità della Direzione Lavori) e, soprattutto, con riguardo ai dispositivi di protezione individuale.

Emblematica di tale difficoltà è la responsabilità del coordinatore per la sicurezza nella scelta della tipologia di mascherine anti-contagio, in un momento storico in cui la scarsità dispositivi certificati imponeva utilizzare tipologie “corrispondenti alle indicazioni dell’Autorità sanitaria“ (vds., in tal senso, anche le Linee Guida INAIL del 23 aprile 2020 recanti “Validazione in deroga DPI Covid-19. Elenco dei dispositivi autorizzati”).

Nello stesso senso vanno le misure in tema di “distanziamento sociale”, che – nell’impossibilità del rispetto della distanza di un metro, nel caso di lavorazioni che richiedano necessaria contiguità personale (si pensi alle saldature) – il coordinatore per la sicurezza è onerato di definire “altre soluzioni organizzative conformi”, anche utilizzando i dispositivi di protezione “corrispondenti alle indicazioni dell’Autorità sanitaria“, di cui si è detto.

Il coordinatore per la sicurezza, inoltre, deve definire percorsi e luoghi protetti sia per i fornitori, sia per i soggetti sospetti di contagio e deve – se del caso – integrare e suggerire al datore di lavoro misure più stringenti di sanificazione e di turnazione nei luoghi comuni (es. mensa, spogliatoi, bagni).

Si potrebbe obiettare che, in tale responsabilità, il professionista possa ben essere affiancato dalla figura del “medico competente”, di cui all’art. 25 D.Lgs. n. 81/2008: tuttavia, in mancanza di idonea disposizione normativa, non è possibile affermare una condivisione degli effetti legali delle misure adottate dal professionista preposto alla vigilanza sulla sicurezza nel cantiere.

Inoltre, il dialogo con il “medico competente” è reso difficoltoso non solo dall’oggettiva mancanza di indicazioni mediche univoche sulle cause e modalità di contenimento del virus “Sars COV2”, ma anche dalla circostanza che il professionista medico è scelto dal datore di lavoro delle imprese – quindi, verosimilmente, opera in maniera “astratta” rispetto alle esigenze delle singole commesse, ma si occupa “genericamente” del rischio proprio connesso all’attività del datore di lavoro – e, anche per questo, è  ben possibile che in un unico cantiere operino tanti medici quante sono le imprese ivi attive – con possibili sovrapposizioni, logicamente incompatibili con la situazione emergenziale -.

Di fronte all’oggettiva difficoltà, per il professionista incaricato della sicurezza, di “governare” un virus semi-sconosciuto e per definizione “ingovernabile”, è ipotizzabile valutare una specifica clausola nell’ambito dell’assicurazione professionale – che tenga conto della circostanza di dover operare “in  emergenza” e “in scienza e coscienza” potenzialmente obnubilabili dal comportamento del virus. 

La cogenza normativa

Volendo qui prescindere dagli effetti penali conseguenti alla violazione delle norme anti-Covid nei cantieri edili – che meriterebbe un approfondimento sotto il profilo della “riserva di legge” per le norme penali – e volendo anche omettere un commento sul difficile coordinamento di norme speciali e “d’urgenza” che si sono succedute nel periodo marzo-maggio 2020, si vuole, invece, focalizzare brevemente il probabile esito del protocollo ed annesso accordo sindacale sui cantieri edili.

Il solo fatto che il Protocollo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID 19 negli ambienti di lavoro (del 14 marzo 2020) abbia dovuto ricevere adeguata integrazione per effetto di un protocollo specifico per i cantieri edili, con allegato un accordo sindacale tematico, denuncia la difficoltà di racchiudere in un testo normativo quei “comportamenti di massima cautela” che sono la struttura portante del D.Lgs. n. 81/2008.

Il “destino preannunciato” di tale norma – il cui posizionamento nella gerarchia delle fonti la pone a confine con la prassi – è, quindi, quello di confluire quale integrazione specifica, appunto, alla norma primaria, cioè al D.Lgs. n. 81/2008.

Il protocollo, infatti, è atto di per sé pattizio e la circostanza che sia stato incluso in un atto regolatorio ministeriale lo rende, comunque, un fonte sotto-ordinata rispetto al Testo Unico per la sicurezza sul lavoro.

Analogamente, la circostanza che lo stesso protocollo sia stato poi recepito (rectius “richiamato”) dal D.P.C.M.  26 aprile 2020 non modifica la precedente conclusione: anche il D.P.C.M.  è fonte subordinata rispetto al D.Lgs. n. 81/2008 che, pertanto, resta la fonte normativa principale cui il coordinatore per la sicurezza – ma anche il datore di lavoro, il RUP, ed il direttore dei lavori – devono attenersi, anche con riguardo alle conseguenze sanzionatorie.

Se e quando la norma emergenziale verrà recepita quale attuazione – forse sarebbe più opportuno inserirla quale “allegato” – del D.Lgs. n. 81/2008, essa porterà con sé anche il protocollo in esame che, a questo punto, verrà elevato a rango di attuazione di una norma primaria.

In tale ottica, quindi, solo allora si potrà valutare se il protocollo potrà avere valenza più generale – in tutti i casi di emergenza in cui l’attività operativa sia simile a quella dei cantieri edili -, oppure se esso rimarrà quale mera “traccia storica” di un rischio irripetibile (si spera).

Nel frattempo, si ritiene che eventuali controlli possano solo individuare il formale adempimento dell’obbligo di predisporre misure generali anti-contagio e, se del caso, l’adozione di precauzioni specifiche, nell’ambito del PSC – ma ciò, anche per i motivi già sopra illustrati – senza possibilità di entrare nel merito dell’adeguatezza delle misure così individuate.

Ciò, da un lato, per la già ricordata “riserva di legge”, che impone di applicare sanzioni solo nel caso di manifesta evidenza di comportamenti sanzionabili ex lege.

Ma soprattutto nel dubbio che – di fronte alla necessità di convivere con un rischio in gran parte sconosciuto – siano sostanzialmente applicabili a tutti i lavoratori le usuali misure di prevenzione igienica e di distanziamento, non potendosi accertare scientificamente (né, quindi, contestare giuridicamente) l’efficacia di misure alternative applicabili alle singole lavorazioni (nella specie, quelle edili).

Nodale, per il raggiungimento dell’obiettivo del “lavoro in sicurezza”, quindi, sarà la cooperazione fra le figure che operano (nel caso di specie) nel cantiere: si torna, quindi, alla “cooperazione istituzionale” rilevata in apertura di questo elaborato.

In primis, sarà opportuno attivare una efficace comunicazione e diffusione all’interno della categoria delle imprese e professionisti che operano nel settore di riferimento, onde garantire al meglio l’informazione di tutti i soggetti coinvolti – ad esempio sulle novità scientifiche, sulla disponibilità dei presidi di sicurezza, anche innovativi, ecc. -: il che consentirebbe anche di rispettare l’esigenza di celerità dettata dal tipo e diffusione del “rischio Covid”.

In ciò, si rinvengono i primi due pilastri sui quali è concettualmente strutturato il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro: quello dell’informazione e della formazione; ma – per completare il quadro strutturale – occorrerà anche elaborare una procedura di “comportamento di massima cautela” ed attribuire a ciascun soggetto concrete responsabilità, che provengono da un apparato normativo.

In tal senso, è prioritario enucleare specifiche fattispecie di obblighi e comportamenti che – al di là delle esigenze specifiche delle singole commesse, come rappresentate dal PSC -, consentano di definire comportamenti univoci destinati a tutti i lavoratori – almeno per tipologie di lavoro assimilabili.

A seguito di ciò, sarà effettivo il controllo e, di conseguenza, la tutela dei lavoratori – non più affidata solamente alla responsabilità di soggetti obbligati ad assumere decisioni a contenuto interdisciplinare, alle quali non sono in grado di dare la necessaria valutazione professionale -.

La c.d. “Fase 2”

Come noto, gradualmente ed in coerenza con il contenimento del contagio, con il D.P.C.M. 26 aprile 2020 si è dato corso alla c.d. “Fase2”, consistente, sostanzialmente, nell’apertura scaglionata e graduale di tutte le attività.

Con riferimento ai cantieri edili – anche per quelle attività/codici ATECO inizialmente bloccati dal lockdown – la Fase 2 è stata avviata nel rispetto del già citato protocollo di sicurezza e previa acquisizione ed utilizzo dei dispositivi di protezione individuale.

In altre parole, è stato esteso a tutte le imprese del settore quel compendio di norme e prassi variamente coordinate tra loro, di cui si è già detto, originariamente riservato alle sole imprese operanti nei settori “essenziali”.

Dunque, nessuna novità o specificazione normativa in ordine a modalità e responsabilità nell’attuazione delle misure di sicurezza.

Genericamente, quindi, si è reso necessario adeguare il PSC e rimodulare spazi di lavoro, spazi collettivi, procedure di ingresso in cantiere, anche per i fornitori, il tutto compatibilmente con la natura dei singoli processi produttivi e con le dimensioni del cantiere.

L’attuazione di tali misure, quindi, ancora una volta grava sul coordinatore per la sicurezza che – in caso di manifesta violazione – informa il datore di lavoro ed il committente (il RUP, negli appalti pubblici) e, al più, può disporre la sospensione delle attività sino alla verifica dell’avvenuta messa a norma – ma senza valenza contrattuale nell’ambito dell’appalto -.

A tutti i cantieri edili, ancora, sono state estese le misure anti-contagio stabilite dal coordinatore per la sicurezza ed imposte al datore di lavoro – ma che coinvolgono anche le competenze del direttore dei lavori al quale, però, non compete ex lege di esprimere il proprio parere-.

Si immagini, quindi, il direttore dei lavori di ogni commessa impegnato ad organizzare le lavorazioni onde evitare il sovraffollamento, la turneazione, l’acquisizione di aree ulteriori per fare fronte all’esigenza di ampliamento dei percorsi protetti per fornitori e lavoratori sospetti di contagio, ovvero di accantierare manufatti destinati ad ampliare i locali comuni quali bagni, mensa, ecc.

Ciò anche con riguardo – in particolare per le commesse pubbliche – alla predisposizione di una variante ad hoc, dedicata ai maggiori costi connessi a tali approntamenti.

Così, per ogni cantiere, andrà individuato un percorso dedicato ai lavoratori ed un diverso percorso per i fornitori esterni, con relative procedure di ingresso ed uscita.  

Ma – in un tempo tutto sommato ristretto fra la regolamentazione normativa e l’avvio della Fase 2 – anche i datori di lavoro hanno dovuto mettere in atto le misure di loro competenza.

Infatti, sempre in attuazione del protocollo (e relativo accordo sindacale) ciascun datore di lavoro dovrà attuare le procedure di formazione ed informazione delle maestranze – garantendo, al contempo, la riservatezza sui dati sensibili (incluso, ad esempio, lo stato di salute). Il che, peraltro, impone una ulteriore difficoltà di coordinamento con la previsione – a carico sempre del datore di lavoro – di “collaborazione con le Autorità sanitarie per l’individuazione degli eventuali “contatti stretti” di una persona presente in cantiere che sia stata riscontrata positiva al tampone COVID-19; ciò al fine di permettere di applicare le necessarie e opportune misure di quarantena” e con l’obbligo “di chiedere cautelativamente, a coloro che sono entrati in stretto contatto con l’individuo contagiato, di lasciare il cantiere secondo le indicazioni dell’Autorità sanitaria”.

Altro tema critico è quello dell’acquisizione dei dispositivi di protezione: il datore di lavoro, infatti, per poter garantire la riapertura in sicurezza delle proprie attività ha dovuto acquisire per tutti i lavoratori – nel contesto di incapienza del mercato, di cui si è già detto – gli indumenti da lavoro e gli altri dispositivi di protezione, garantendo adeguate scorte in caso di dispositivi “usa e getta”. 

In mancanza di idonei dispositivi di protezione individuale, le lavorazioni dovranno necessariamente essere sospese ed i lavoratori dovranno essere collocati in Cassa Integrazione Ordinaria, per il tempo necessario al reperimento di idonei dispositivi.

Infine, grava sul datore di lavoro il tema della pulizia e sanificazione periodiche: attività che – pur dovendo essere già garantite in condizioni normali – in conseguenza del “rischio Covid” vengono enfatizzate e reiterate, andando così a gravare sui costi dell’Impresa – imprevedibili al momento della presentazione dell’offerta e della stipula del contratto di appalto  e, quindi, ri-assorbibili solo attraverso una specifica variante -.

Consapevole di tali aggravi conseguenti all’adozione del protocollo di sicurezza in tutti i cantieri edili – sia in termini di costi, che di tempistiche – le Organizzazioni ed Associazioni di categoria hanno predisposto modulistica ed iniziative volte a sensibilizzare il governo (ed i committenti privati e le stazioni appaltanti) verso la necessità di una norma ad hoc che consenta di riequilibrare i costi delle commesse, ristorando le spese extra impegnate per la sicurezza – risultando in ciò insufficienti le disposizioni emergenziali (circoscritte ai lavori pubblici) in materia di semplificazione nella liquidazione dei SAL e di incremento della quota di anticipazione per i nuovi lavori  -.

La circolare del Ministero dell’Interno del 19 maggio 2020 ed i controlli sulla sicurezza

Per completare il panorama dell’analisi sulle problematiche relative alla sicurezza, nella fase di emergenza sanitaria, merita un approfondimento la circolare del Ministero dell’Interno del 19 maggio 2020 recante: “Indicazioni applicative sul Decreto legge 16 maggio 2020, n. 33 e sul Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 maggio 2020”.

Si fa’ riferimento alle norme che confermano ed autorizzano l’avvio della Fase 2 e che – analogamente a quanto previsto per i provvedimenti di apertura delle attività durante la Fase 1 – attribuiscono ai Prefetti la vigilanza sulla corretta applicazione delle norme, in particolare quelle relative alla sicurezza.

In ciò si noti un’altra distonia rispetto all’usuale iter stabilito dal D.Lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro: la competenza solitamente attribuita a varie articolazioni amministrative del Ministero del Lavoro o del Ministero della salute, nel periodo di “emergenza Covid” vengono invece devolute alle articolazioni territoriali del Ministero dell’Interno (come se si trattasse di verifiche su aspetti di sicurezza nazionale).

A questo punto, viene da chiedersi se ed in che termini le Prefetture si siano adeguate – anche nel senso della preparazione tecnica – per effettuare le verifiche, anche tendendo conto dell’amplissimo spettro delle attività economiche da valutare.

I Prefetti, infatti, “devono assicurare, informandone preventivamente il Ministro dell’Interno, l’esecuzione delle misure anti Covid-19 e possono avvalersi delle Forze di polizia, eventualmente con il concorso del corpo nazionale dei Vigili del fuoco. Per la tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro, gli stessi Prefetti possono avvalersi dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nelle articolazioni territoriali, e del comando Carabinieri per la tutela del lavoro. Inoltre, possono avvalersi  del personale dei corpi di Polizia locale, muniti della qualifica di agente di pubblica sicurezza, e delle Forze armate.”.

Dalla circolare in esame traspare l’esigenza di riequilibrare i controlli “anti Covid” e di rimodulare l’impiego del personale delle Forze armate, già impiegato nell’Operazione “Strade sicure”; inoltre, “una crescente attenzione dovrà essere rivolta alla possibile ricomparsa di fenomeni delittuosi e di criminalità diffusa e, con la crescita del traffico stradale, sarà necessario intensificare i servizi di sicurezza stradale.”: forse, considerando la preminenza di quest’ultima esigenza, è stato deciso di accentrare al Ministero dell’Interno l’attività di verifica.

Ciò, tuttavia, non toglie che – nell’ambito del panorama normativo (rectius “regolatorio”) già descritto -, il controllo da parte di un Ministero strutturato per eseguire verifiche di altro tipo, rischia di far passare in second’ordine il tema della concreta attuazione delle misure di sicurezza in ogni cantiere e – quindi – di sminuire l’efficacia delle misure stesse.

Viepiù in un contesto non omogeneo a livello nazionale, in cui è stato previsto normativamente che le Regioni possano adottare misure più stringenti per la prevenzione del contagio nei settori di riferimento – previa adozione di tali protocolli specifici approvati con atti regionali o dalla  Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel rispetto dei principi stabiliti a livello centrale -; solo in mancanza di norme regionali, verranno applicate quelle nazionali.

Il controllo da parte del Ministero dell’Interno sulle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, quindi, avverrà in maniera differenziata da Regione a Regione e spetterà alle Regioni stesse perimetrare concretamente l’ambito dei controlli, mediante l’individuazione di specifiche misure di prevenzione o riduzione del contagio.

La responsabilità del datore di lavoro per infortunio da contagio

Tanto precisato, anche in questo caso è necessario interrogarsi sulle responsabilità dei datori di lavoro in caso di infortunio “da contagio”.

In un panorama normativo e attuativo così parcellizzato, infatti, diventa estremamente difficoltoso distinguere i contagi da virus Sars COV 2 avvenuti “in occasione di lavoro” (tutelati alla stregua di “infortuni sul lavoro” per espressa disposizione dell’art. 42 co. 2 D.L n. 18/2020 c.d. “Cura Italia”, cui consegue la copertura INAIL), rispetto a quelli “per responsabilità del datore di lavoro”, cui fanno seguito le ben note conseguenze civili e penali a carico di quest’ultimo.

Ciò, in particolare, considerando l’acclarata scarsa conoscenza del virus e delle modalità di contenimento dello stesso.

La Fase 2, quindi, impone alle Imprese un adeguato aggiornamento della valutazione dei rischi e un adeguamento del PSC di ciascun cantiere che possa risultare effettivamente adeguato al caso.

Nel caso di contagio di un lavoratore, per effetto del virus Sars COV 2, andrà quindi verificata la effettiva applicazione al lavoratore di tutte le misure previste per il cantiere di riferimento e di quelle nazionali o regionali più stringenti, con riguardo all’attività di riferimento.

Accertata la compliance alle misure regionali e nazionali, si analizzerà il rischio specifico cui il lavoratore è stato sottoposto, con riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’Impresa in cui hanno operato e – da lì – si passerà alla valutazione sulla efficacia delle prescrizioni specifiche contenute nel PSC e delle misure generali approntate dal datore di lavoro nel DVR (tenendo conto che, nella maggior parte dei cantieri edili non viene contemplato il “rischio biologico”, non trattandosi di lavori che per loro natura lo evocano; nel caso di specie, dunque, sarebbe opportuno integrare comunque il DVR anche considerando tale rischio, connesso con il contagio da virus Sars COV 2).

Verificandosi tale evenienza, il datore di lavoro dovrebbe dare prova di aver adottato “tutte le misure idonee e necessarie per tutelare l’integrità fisica del lavoratore”: tuttavia, tale dichiarazione risulta assai labile di fronte ad una platea scientifica che non concorda sulla natura e contenimento del virus, tanto che le “misure” adottate oggi potrebbero verificarsi desuete ed inefficaci un domani.

Di conseguenza, la responsabilità che si prospetta per il datore di lavoro è assai complessa da governare – così come è complesso garantire un univoco indirizzo che consenta l’effettiva protezione di tutti i lavoratori di una determinata categoria.

Di fronte a tale constatazione, quindi, valgono considerazioni già sopra svolte, che inducono a ritenere opportuno, per il datore di lavoro, un costante aggiornamento (per quanto normativamente e scientificamente possibile) sull’avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecniche in relazione al virus Sars COV 2 ed ai connessi rimedi; ciò, al fine di garantire una costante compliance delle policies aziendali e l’adeguamento degli strumenti a disposizione dell’imprenditore (es. il “modello 231”, accordi sindacali) per monitorare e governare il rischio onde condurre la propria attività serenamente e senza perdere di vista la concreta tutela delle maestranze.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Emanuela Pellicciotti
Esperta in infrastrutture e contratti pubblici
mediagraphic assistenza tecnico legale e soluzioni per l'innovazione p.a.