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Nel numero anno IV – numero 2 della rivista, si affrontava in particolare il tema dell’ammissibilità della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando e dell’abusato ricorso all’estrema urgenza quale causa giustificatrice della procedura scelta.

Prima di entrare nel vivo del presente contributo, mi sia consentito riassumerne i tratti salienti per meglio rappresentare le problematiche successive.

In questo lavoro si vogliono evidenziare, infatti, le conseguenze giuridiche di un appalto affidato illegittimamente senza gara.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 401/2007, ha precisato che la tutela della concorrenza si concretizza, in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici nel rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Si tratta di assicurare l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica che garantiscano, quindi, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza.

La selezione della migliore offerta, attraverso una procedura comparativa, assicura la piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione.

La procedura negoziata, quindi, costituisce una modalità eccezionale di scelta del contraente, che sacrifica i principi di trasparenza e concorrenza, alla presenza dei presupposti normativi tassativamente previsti.

Da ciò consegue che la procedura negoziata rappresenta un sistema residuale, in quanto ad esso può farsi ricorso solo in ipotesi marginali ed è soprattutto un sistema derogatorio, in quanto costituisce eccezione ai sistemi generali, basati sulla gara.

Infine, proprio l’aspetto derogatorio impone l’obbligo per la stazione appaltante di una motivazione dettagliata e puntuale sul ricorso a tale procedura. Anche la Corte dei Conti non manca di ribadire che la mancanza assoluta di motivazione rende di per sé sola illegittimo l’affidamento del contratto; la motivazione deve essere puntuale, circostanziata e sorretta da adeguata dimostrazione dei presupposti di fatto che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere alla trattativa: il mero riferimento alla norma di legge che in astratto consente eccezionalmente di ricorrere alla trattativa privata è del tutto insufficiente ad offrire ragione dell’applicazione della norma medesima, quando non sia data esplicita dimostrazione delle condizioni fattuali concrete che realizzano la fattispecie.

Quindi, qualora la stazione appaltante deroghi alla concorrenza, attraverso un affidamento con trattativa privata, non trovandosi nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 57 del Codice oppure non ne abbia dato evidenza con un’adeguata motivazione l’affidamento è illegittimo.

L’impostazione tradizionale e più risalente della giurisprudenza civile[1] riteneva che il contratto stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima fosse annullabile ai sensi dell’art. 1425 o dell’art. 1427 c.c., sulla considerazione che le norme prescrittive della procedura  ad evidenza pubblica sono garanzia della corretta formazione e manifestazione della volontà del contraente pubblico, sicché la loro violazione implica un vizio della volontà o del consenso. Sarebbe stata quindi imputabile alla sola Pubblica amministrazione la legittimazione alla proposizione della domanda di annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1441 c.c..

Tale orientamento ha ritenuto di non potersi spingere fino alla nullità del contratto per ragioni riconducibili alla natura del vizio, che inciderebbe non sull’accordo contrattuale in sé, ma sul procedimento formativo della volontà.

Altri orientamenti giurisprudenziali hanno fatto riferimento alla categoria più estrema della nullità sia pure sotto profili diversi. Secondo un primo orientamento, il venir meno dell’atto di aggiudicazione, farebbe venir meno un elemento essenziale del contratto, vale a dire il consenso della pubblica amministrazione[2].

Un diverso orientamento, pur muovendosi nell’ambito della nullità, ha preferito la tesi della violazione di norme imperative[3]. Ciò perché le norme sull’evidenza pubblica sarebbero indisponibili e a tutela di interessi generali e avrebbero sempre valenza imperativa anche per imposizione costituzionale e comunitaria.

Un diverso orientamento della Cassazione, invece, ritiene nullo il contratto affidato senza gara, qualora integri gli estremi di reato.[4]

Il d. lgs. n. 53/2010 di recepimento della “direttiva ricorsi” (2007/66/Ce) ha modificato il Codice dei contratti pubblici inserendo importanti disposizioni sui poteri del giudice in relazione al contratto stipulato all’esito di una procedura ad evidenza pubblica illegittima. Le disposizioni del Codice dei contratti pubblici inserite dal d.lgs n. 53/2010 sono transitate poi nel Codice del processo amministrativo (artt. 121 e ss.).

Quanto ai profili sostanziali, l’inefficacia del contratto può dipendere anzitutto dai vizi considerati dalla direttiva, che il decreto qualifica come “gravi violazioni”. Si tratta, in primo luogo, di fattispecie di aggiudicazione senza previa pubblicazione del bando di gara, laddove invece è richiesto dalla normativa comunitaria e nazionale. E’ compresa, in particolare, l’indizione della procedura negoziata senza bando o dell’affidamento in economia (art. 121, comma 1, lett. a) e b)). Vengono, poi, in rilievo fattispecie di violazione del termine dilatorio previsto per la stipulazione del contratto o del termine sospensivo per il caso di proposizione del ricorso giurisdizionale. In questi casi la violazione delle norme indicate deve essere accompagnata da vizi propri dell’aggiudicazione in modo tale da giustificare l’annullamento della stessa.

Il giudice stabilisce se la dichiarazione di inefficacia sia retroattiva o operi per le prestazioni ancora da eseguire. Il legislatore nazionale non si è dunque avvalso della possibilità riconosciuta dalla direttiva (art. 2-quinquies, par. 2) di predeterminare le conseguenze dell’illegittimità dell’aggiudicazione, ma ha rimesso tale valutazione all’apprezzamento del giudice, il quale deciderà ‘in funzione delle deduzioni delle parti, della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto‘ (art. 121, comma 1).

La scelta del giudice tra i vari rimedi a disposizione dipendono da una valutazione delle circostanze del caso concreto e degli interessi in gioco. Fuori dai casi di “privazione degli effetti” previsti dalla direttiva (omessa pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea e violazione del termine sospensivo per la stipula del contratto), il giudice valuta, per un verso, i motivi di annullamento dell’aggiudicazione e, per altro verso, lo stato di esecuzione del contratto e l’interesse reciproco al subentro.

La procedura negoziata senza bando è presa specificamente in considerazione dalle nuove disposizioni. Infatti, tra le ipotesi specifiche in cui si deve procedere alla declaratoria di inefficacia del contratto di appalto v’è il caso dell’aggiudicazione definitiva che sia avvenuta con procedura negoziata senza bando fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione e’ prescritta dal Codice dei contratti pubblici.

L’ordinamento comunitario persegue il fine di una giustizia rapida ed effettiva avverso gli atti di gara illegittimi principalmente attraverso strumenti processuali di tutela reale e pienamente ripristinatori (annullamento dell’aggiudicazione con efficacia ex tunc e subentro nel contratto). Il risarcimento è previsto, invece, come alternativa.

Nel regime processuale disegnato dal Codice del processo amministrativo, in applicazione della normativa comunitaria, si può dire che la tutela risarcitoria per equivalente svolge una funzione sussidiaria che si esplica quando non sia possibile la tutela reale. In alcuni casi la tutela risarcitoria per equivalente svolge una funzione integrativa allorché la tutela reale non sia idonea a ristorare tutti i danni subìti dal ricorrente.

Tuttavia la tutela reale di inefficacia e subentro nel contratto illegittimamente aggiudicato può risultare  impossibile per due ragioni.

In una prima ipotesi l’impossibilità della tutela reale è determinata d’ufficio dal giudice stesso. L’art. 124, comma 1, secondo periodo, dispone che ‘Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato‘. Si tratta, dunque, dei casi in cui, pur avendo l’interessato chiesto la tutela reale, il giudice ha deciso di non accordarla sulla base del potere discrezionale che gli è riconosciuto.

In una seconda ipotesi l’impossibilità della tutela reale è determinata dalla volontà dell’interessato che non esercita la relativa azione in giudizio. L’art. 124, comma 2 del Codice del processo amministrativo prevede a tal riguardo che ‘la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1 [la domanda di conseguire l’aggiudicazione], o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 del codice civile”.

In tal caso è facile attribuire all’omissione dell’interessato un significato negativo di negligenza capace di determinare il ridimensionamento della tutela risarcitoria. Il ricorrente non è dunque libero di scegliere la forma di tutela preferita nella situazione concreta, ma è posto nella condizione di dover giustificare perché non ha esperito alcune delle azioni previste dall’ordinamento.

La tutela specifica finisce per acquisire così una priorità su quella risarcitoria.[5]

In caso di tutela risarcitoria per equivalente, per la determinazione del danno bisogna tener conto delle seguenti voci:

1) Perdita di chance.

La risarcibilità della chance, la quale consiste nella ragionevole probabilità, già presente nel patrimonio del danneggiato, di conseguire un risultato economico utile, non è subordinata alla produzione di una prova certa, essendo sufficiente che gli elementi addotti in giudizio, in virtù dell’inderogabile principio contenuto nell’art. 2697 c.c., consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa della condotta illecita altrui. La chance costituisce infatti lo strumento concettuale grazie al quale sono ammessi alla tutela risarcitoria aspettative di incremento patrimoniale, proiettate nel futuro, attraverso una attualizzazione della relativa possibilità di conseguirli. Tipica ipotesi nella quale è invocata la perdita di chance è proprio quella di conseguire l’aggiudicazione di un appalto, ed è caratterizzata dall’elemento prognostico-probabilistico, in quanto legato agli esiti non conoscibili di una ipotetica procedura di affidamento.

Nella quantificazione del danno, occorre tener conto del lucro cessante e del danno emergente.

Va sottolineato che, dopo un indirizzo giurisprudenziale che indicava il criterio di liquidazione forfettario del lucro cessante nella misura del 10 % del valore del contratto, ricollegandosi all’art. 345 della legge n. 2248 del 1865, All. F, è subentrato un nuovo indirizzo che richiede un preciso onere per l’impresa di dimostrazione rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, sulla base di quanto stabilito nell’art. 124 c.p.a., il quale subordina testualmente il risarcimento del danno per equivalente alla condizione che questo sia stato “provato” [6].

In particolare, considerata la possibilità per l’impresa di utilizzare in un altro cantiere le maestranze ed i mezzi, predisposti in vista dell’aggiudicazione, sarà a carico dell’impresa provare l’impossibilità della eventuale riutilizzazione di tali fattori: in difetto, questi si vedrà decurtare il compenso, anche in applicazione del principio contenuto nell’art. 1227, II comma, c.c., secondo cui il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno.

2) Danno curricolare.

L’esistenza di tale componente di danno non richiede uno specifico supporto probatorio potendosi ritenere in re ipsa, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto in controversia nell’ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare.

3) Rimborso spese di partecipazione alla gara.

La Cassazione, con sentenza 22370/2007, ha statuito che il giudice di merito debba “valutare se i costi di partecipazione alla gara costituiscano danno emergente o debbano ritenersi coperti dalla reintegrazione dell’utile che la ricorrente avrebbe potuto conseguire in base ad un calcolo di rilevante probabilità”. Il C.d.S., Sez. VI, con sentenza n. 2751/2008, ha precisato che “i costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo qualora l’impresa subisca una illegittima esclusione, perché in tal caso viene in considerazione la pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili. Per converso, nel caso in cui l’impresa ottenga il risarcimento del danno per mancata aggiudicazione, non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione. Il C.d.S., Sez. V, con sentenza n. 3966/2012, premesso che nelle pubbliche gare di appalto all’aggiudicatario non viene riconosciuto il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, ha osservato che nella somma liquidata a titolo di ristoro dell’utile di impresa perduto, è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara stessa[7].

Ma dietro un affidamento illegittimo senza gara si annida anche lo spettro del danno erariale alla concorrenza ovvero quello conseguente proprio ad affidamenti di pubblici lavori, servizi e forniture in assenza di una procedura comparativa tra operatori economici – in violazione delle regole comunitarie e nazionali in materia di par condicio e favor partecipationis – dunque un pregiudizio patrimoniale costituito “dalla differenza tra la spesa effettivamente sostenuta dall’amministrazione e quella (minore) che, invece, avrebbe potuto ottenere assolvendo l’obbligo della procedura concorsuale[8].

In relazione ai valori dell’economicità, dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività, non è più consentito omettere un minimo di confronto concorrenziale per qualsiasi procedura contrattuale ad oggetto pubblico, indipendentemente dall’ammontare delle commesse pubbliche[9].

I contrasti giurisprudenziali su tale tipologia di illecito erariale, ovviamente non vertono sulla configurabilità, che è pacificamente asserita, ma vertono sui presupposti di “consumazione” dello stesso: in particolare ci si chiede se l’omessa indizione di una gara possa costituire di per sé prova del verificarsi del pregiudizio erariale in parola (da considerarsi pertanto in re ipsa) oppure si debba provare in concreto il risparmio di spesa che l’amministrazione avrebbe conseguito qualora fosse stata espletata la procedura ad evidenza pubblica. Con la conseguenza che ove detto onere probatorio non venisse soddisfatto non potrebbe configurarsi alcun pregiudizio per il pubblico erario[10].

Si è affermato in giurisprudenza, infatti, che il danno alla concorrenza non sussista in re ipsa, ma costituisca un indizio di danno, perché l’assenza di comparazione tra più offerte desta il sospetto che il prezzo contrattuale non corrisponda al minor prezzo ottenibile da una gara.[11]

Altra giurisprudenza, invece, configura l’elusione delle garanzie prescritte dalla legge per tutelare la concorrenza, per la salvaguardia dell’interesse come un danno c.d. in re ipsa per contrarietà a norme imperative, da ciò deriva la nullità del contratto ed il pagamento sine titulo, ovvero una spendita di denaro pubblico non giustificata[12].

Non dimentichiamo che la ratio del principio della pubblica gara non solo è quella di assicurare la par condicio tra tutti i potenziali interessati a contrattare con l’amministrazione, ma anche “consentire all’amministrazione stessa, mediante l’acquisizione di un pluralità di offerte, di contrattare alle condizioni più vantaggiose”.

La stessa normativa di fonte comunitaria ha poi tra i propri principi ispiratori quello della c.d. economicità.

Ma allora l’omessa applicazione dei precetti legali finalizzati a garantire l’interesse pubblico al “miglior prezzo” relativamente ai contratti stipulati dalle amministrazioni  concretizza proprio ciò che il legislatore mirava ad evitare (stipula di contratti a condizioni non affatto vantaggiose per la stazione appaltante).

Quindi, ferma restando la possibilità per la procura regionale di comprovare il danno alla concorrenza “con il ricorso a ogni idoneo mezzo di prova, quale può essere la comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti a seguito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione[13](13) sembra che l’allegazione del mancato rispetto delle disposizioni sulla pubblica gara possa altresì porsi a fondamento di un ragionamento presuntivo ex artt. 2727-2729 c.c. in termini di gravità, precisione, ecc. circa la ricostruzione del “fatto ignoto” ovvero l’essersi effettuato un esborso di pubblico denaro in misura maggiore rispetto a quello che sarebbe stato necessario per l’ipotesi in cui il pubblico affidamento fosse stato preceduto da una selezione comparativa tra una pluralità di operatori economici.[14]

Da quanto detto, in linea con l’insegnamento della suprema Corte, possono trarsi, prima facie, le seguenti conclusioni:

  • Le norme di evidenza pubblica sulla concorrenza sono imperative;
  • La loro violazione comporta la nullità del contratto;
  • Dalla nullità del contratto discende la non debenza, da parte della stazione appaltante, di compensi a favore del privato contraente, se non nei limiti dell’arricchimento senza causa;
  • L’esborso di somme eccedenti tali limiti costituisce danno erariale;
  • Il pubblico funzionario che per dolo o colpa grave autorizza una gara in violazione delle norme imperative sulla tutela della concorrenza, con conseguente declaratoria di nullità del contratto, è responsabile del danno erariale conseguente all’indebito pagamento al privato contraente di somme eccedenti l’arricchimento senza causa.

L’affido senza gara, in assenza dei relativi presupposti di legge, è sottoposto a particolare attenzione da parte dei PM penali e contabili per la sua elevata sintomatologia corruttiva e dannosa per gli interessi erariali. E’ una sorta di area grigia ove i comportamenti, spesso inconsapevoli, sfiorano i confini della legalità.

La Cassazione, con sentenza n. 3672/2010, ha stabilito che se la violazione di dette norme imperative, è stata altresì preordinata alla conclusione di un contratto le cui reciproche prestazioni sono illecite e la cui condotta è penalmente sanzionata nell’interesse pubblico generale – che nel reato di corruzione è il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione – la nullità per contrasto con norme imperative sussiste anche sotto tale ulteriore profilo, e deve essere dichiarata onde impedire che dalla commissione del reato derivino ulteriori conseguenze, per cui non sono dovuti dagli enti i compensi.

Le strategie di contrasto della corruzione devono contribuire più massicciamente ad assicurare la concorrenza effettiva in un contesto quanto più possibile trasparente. La norma e la prassi non sempre sono adeguate e sufficienti, sfruttando, come abbiamo visto nel citato articolo del precedente numero della rivista, istituti ad alto tasso di manipolazione, come l’urgenza procurata, per poter gestire le gare con un ampliamento abnorme della scelta discrezionale. È chiaro a tutti che  proprio per questo sulle trattative private  possono addensarsi gli interessi dei corruttori, volti a ricercare la partecipazione alle gare pubbliche con il minor numero possibile di concorrenti e, spesso, previo accordo occulto con i pubblici funzionari.

Va da se che la presenza di fenomeni corruttivi costituisca un fattore di forte inquinamento del mercato con effetti distorsivi della concorrenza tra le imprese, al limite costrette ad uscire dal mercato a causa della sistematicità organizzata di queste pratiche.

Una delle maggiori «criticità sistemiche» che contraddistinguono il mercato degli appalti pubblici italiano è costituita dalla legislazione di emergenza[15].

Il ricorso alle procedure di emergenza può essere visto tanto come un «surrogato dell’inefficienza» (119) e delle carenze in fase di programmazione dei tempi di realizzazione delle opere (120), quanto come un modo per celare scambi occulti, non mediati dal diritto, e per aumentare al massimo grado la discrezionalità dell’amministrazione a detrimento della trasparenza e delle garanzie per i terzi.

La collusione e la corruzione sono fenomeni strettamente legati ed aumentano proporzionalmente in relazione al grado di discrezionalità del responsabile del procedimento se questi mira ad ottenere una rendita dalla gara.

Tuttavia, occorre precisare che la corruzione non è naturalmente associata alla collusione, intesa nel senso economico del termine[16] : se è presente la seconda non è necessariamente presente la prima, ma la prima può indebolire i controlli. Se un qualsivoglia settore del mercato è caratterizzato da un elevato grado di concentrazione, gli incentivi al coordinamento e alla collusione sono maggiori.

Le imprese colluse potrebbero, a fronte dei maggiori guadagni percepiti data l’assenza di concorrenti, corrompere i pubblici funzionari per aggiudicarsi gare in futuro o per sanzionare possibili concorrenti, estromettendoli dal mercato, tramite la definizione di requisiti di partecipazione presenti nel bando di gara predisposti ad hoc per favorire solo le imprese appartenenti al cartello.

In conclusione, può affermarsi che lo sviluppo di forme di concorrenza per il mercato degli appalti, utili a ridurre il grado di concentrazione e la possibile collusione tra imprese, è uno dei cardini degli interventi «sistemici» che le istituzioni e gli organismi internazionali considerano basilari per prevenire e combattere la corruzione. La necessità di un ruolo rafforzato dei regolatori nazionali appare, in tale contesto, necessario: la stessa Commissione europea ha infatti riconosciuto[17] che «i committenti pubblici acquistano spesso in mercati caratterizzati da strutture anticoncorrenziali. In questi mercati, l’obiettivo delle norme in materia di appalti pubblici (ossia una concorrenza aperta ed effettiva) potrebbe essere difficile da raggiungere applicando semplicemente le norme procedurali previste dalle vigenti direttive. Le decisioni in materia di appalti adottate senza considerare le strutture del mercato, benché siano del tutto conformi alle norme contenute nelle direttive, comportano il rischio di consolidare o addirittura di aggravare le strutture anticoncorrenziali».


[1] Cfr. Cass. civ., 17 novembre 2000 n. 14901; 8 maggio 1996 n. 4269; 28 marzo 1996 n. 2842 e 26 luglio 1993 n. 8346

[2] Cfr. Cons. St., sez. IV, ordinanza 1 maggio 2004, n. 3355.

[3] Cfr. Cons. St., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218.

[4]In materia di appalti pubblici, il principio secondo cui il negozio concluso è annullabile, per vizi concernenti l’attività negoziale degli enti pubblici, solo ad iniziativa della p.a., non si estende al caso in cui l’omesso svolgimento della gara di appalto, cui deve equipararsi l’espletamento meramente apparente delle formalità previste dalla legge, abbia integrato gli estremi di reato: le norme contenenti un divieto, sanzionato penalmente, allorché siano dirette alla tutela di un interesse pubblico generale, senza possibilità di esenzione dalla loro osservanza, devono infatti essere considerate imperative, con conseguente nullità del contratto per contrarietà ad esse, nella specie, individuate in particolare nell’art. 9, 1º comma, l. 8 agosto 1977 n. 584”  Cass. civ., sez. I, 5 maggio 2008, n. 11031.

[5] Tratto da “La disciplina dei contratti pubblici tra tutela della concorrenza e misure anticrisi” di Giuseppe Urbano

[6] C.d.S. Sez. V sent. n. 2518/2012; Sez. III sent. n. 6444/2012

[7] Per un ulteriore approfondimento, mi sia consentito rinviare ad un mio contributo già pubblicato su MediaAppalti – Anno III, numero 02 “ Responsabilità da atto lecito e differenza con il risarcimento danni negli appalti, alla luce delle fonti normative comunitarie”

[8] Corte Conti, Sez. Giuris. Centrale di Appello, 20 aprile 2011 n. 198

[9]  Corte dei Conti, sez Giuris. Lombardia, sent. n. 447/2006

[10] Tratto da “Danno erariale alla concorrenza e figure affini” di Luigi D’Angelo, Magistrato della Corte dei Conti.

[11]il danno alla concorrenza, non diversamente da qualunque altra tipologia di danno patrimoniale, non può ritenersi sussistente in re ipsa per il solo fatto, cioè, che sia stato illegittimamente pretermesso il confronto tra più offerte. Deve dirsi, piuttosto, che l’omissione della gara costituisce un indizio di danno, in quanto suscita il sospetto che il prezzo contrattuale non corrisponda al minor prezzo che sarebbe stato ottenibile dal confronto di più offerte. Trattandosi, però, pur sempre e soltanto di un sospetto, occorre dimostrare che effettivamente nel caso concreto la violazione delle norme sulla scelta del contraente abbia determinato una maggiore spendita di denaro pubblico; dimostrazione che potrà essere raggiunta con il ricorso a ogni idoneo mezzo di prova, quale può essere la comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti a seguito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione. Ed è ovvio che solo in ipotesi di dimostrata esistenza del danno potrà farsi ricorso alla liquidazione con valutazione equitativa, che – come è ben noto – è prevista dall’art. 1226 c.c. proprio per sopperire alla impossibilità o, comunque, alla particolare difficoltà di quantificare un danno di cui sia, però, certa l’esistenza” Corte Conti, Sez. Giuris. Centrale di Appello, 20 aprile 2011 n. 198; cfr. altresì Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Regione Lombardia, 3 maggio 2012 n. 348

[12]    “l’elusione delle garanzie prescritte dalla legge, dettate a salvaguardia dell’interesse pubblico e regolanti le procedure per l’individuazione del contraente privato più affidabile e più tecnicamente organizzato per l’espletamento dei lavori, comporti (divenendo di per sé circostanza idonea e sufficiente) un danno patrimoniale per l’Ente appaltante, nella elementare considerazione che dalla violazione di norme imperative discende sempre la nullità del contratto, con il conseguente obbligo, per l’amministrazione, di erogare al privato contraente un compenso limitato al solo arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c…. Può (dunque) conclusivamente affermarsi che la maggiore spendita di denaro pubblico (ovvero il danno erariale) non deriva dalla illecita scelta del contraente ma, laddove sia raffigurabile o configurabile una violazione o elusione della normativa dettata in materia di affidamento di lavori pubblici, che per ciò stesso comporta la nullità del contratto, è da configurarsi nell’utile di impresa a sua volta illecitamente corrisposto”   Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Regione Sardegna, 8 novembre 2011 n. 595; sulla stessa linea interpretativa, Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Regione Liguria, 31 luglio 2012 n. 187

[13] Corte Conti, Sez. Giuris. Centrale di Appello, 20 aprile 2011 n. 198 cit

[14] Tratto da “Danno erariale alla concorrenza e figure affini” di Luigi D’Angelo, Magistrato della Corte dei Conti

[15] Tratto da “La corruzione negli appalti pubblici” di Fabio Di Cristina

[16] G. VICICONTE, La protezione multilivello della concorrenza nel settore degli appalti pubblici, in G.F. CARTEI (a cura di), Responsabilità e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, Napoli, Editoriale scientifica, 2008, 165, in part. note 7 e 8.

[17] COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici. Per una maggiore efficienza del mercato europeo

degli appalti, cit., 32.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Angelina Martino
Esperto in materia di appalti pubblici
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