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( votes)Vivere, in questo mondo, non è equo. Sin dal momento in cui veniamo concepiti. Nascere in un paese invece che in un altro, in una certa regione dello stesso paese, in uno specifico quartiere di una stessa città, in una determinata famiglia di un preciso quartiere, marchia il nostro destino con benefici o disagi che segneranno quasi in maniera indelebile ciò che saremo e faremo.
Secondo un recente rapporto di Oxfam, entro la fine del 2022, 860 milioni di persone si ritroveranno a vivere sotto la soglia di povertà, stimata nella disponibilità di meno di 1,90 dollari al giorno. La pandemia e la guerra in Ucraina stanno aggravando l’emergenza. In questo scenario, potrebbero finire nella fascia di sofferenza più grave 263 milioni di persone in più.
Le disuguaglianze generano flussi di popoli che si spostano verso una terra promessa distante migliaia di chilometri, mesi di sofferenza. Chi fugge da un passato di stenti, attraversa un presente insidioso, faticoso, a volte fatale, per provare a raggiungere un futuro che celato in una coltre di incertezza appare comunque migliore dell’alternativa di restare. Guerre, povertà, prevaricazioni, limitazioni della libertà, dei diritti fondamentali dell’uomo, tracciano le rotte delle migrazioni.
In un mondo fatto di disuguaglianze, chi è più forte deve farsi carico dei deboli. I paesi più ricchi, meta finale delle lunghe vie della speranza, devono tendere una mano. “Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri”, così si pronunciava Papa Giovanni XXIII nell’enciclica “Pacem in terris” del 1963. Ciò che le nazioni, le organizzazioni di volontariato, i singoli soggetti fanno per alleviare le sofferenze, secondo questa lettura non è qualcosa di straordinario. Non è prerogativa di persone eccezionali. L’impegno a favore dei deboli dovrebbe essere insito nella quotidianità della vita sociale. L’essenza dell’esistere in una società è la convivenza, il vivere con, il vivere insieme. E il miglior modo di stare insieme è la condivisione: mettere a disposizione le proprie risorse, il proprio tempo, le proprie competenze, per migliorare l’esistenza di chi vive in un deficit economico, sociale, esistenziale.
Le rotte delle migrazioni cominciano a portare all’Italia, in maniera sempre più consistente, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il dramma di chi approda sulle nostre coste occupa un posto fisso nelle cronache dei giornali. Possiamo ancora parlare di emergenza? La macchina dell’accoglienza, dopo oltre un trentennio, dovrebbe essere ben rodata, dovrebbe funzionare secondo meccanismi certi. Ordinari.
E’ invece in termini di eccezionalità che è gestita l’accoglienza. Secondo i dati esposti da Open polis, il 65,5% dell’accoglienza è oggi affidata ai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Si tratta di una rete di centri che nascendo come risposta immediata a situazioni emergenziali, sono regolati facendo ricorso alle procedure di affidamento diretto. Un sistema che lascia ampio spazio alla discrezionalità, che non pone standard qualitativi e quantitativi alle prestazioni. “Un perfetto sistema di incentivi alla cialtroneria o al malaffare” diceva nel 2015 il Direttore Generale di Oxfam Italia Roberto Barberi intervenendo su La Repubblica.
Conviviamo con le emergenze che dilagano ovunque sulla Terra. Come paese che può godere di un certo livello di benessere dobbiamo essere in grado di offrire il nostro aiuto. Dobbiamo farlo in maniera coordinata e ordinata, secondo una programmazione che non può più basarsi secondo canoni straordinari ed emergenziali. Si deve investire nella realizzazione di centri di qualità sia sul versante strutturale sia su quello dei servizi. L’affidamento diretto che sostiene i CAS deve essere accantonato a favore di appalti e concessioni assegnati secondo le regole che garantiscono trasparenza e legalità. L’emergenza perpetua, ossimoro ormai insostenibile di questa gestione dell’accoglienza deve essere dismesso. È l’accesso all’affidamento diretto che non conviene a nessuno. “Chi ci rimette, oltre agli ospiti, è anche la comunità ospitante, che si troverà a interagire con persone alle quali non sono stati forniti gli strumenti per un’efficace e positiva integrazione”, affermava Roberto Barberi nel 2015. Il rischio concreto è che in questo modo accedano alla rete dell’accoglienza soggetti dediti al business, per i quali lo scopo essenziale è il profitto a discapito della qualità delle strutture e dei servizi.
È invece necessario procedere con le forme di assegnazione che garantiscono trasparenza e legalità. Solo in questo modo l’accoglienza sarà indirizzata verso l’offerta di un sincero servizio di emancipazione. Solo in questo modo potremo porre le basi per un’integrazione reale e una convivenza tra genti che, seguendo percorsi differenti, finiscono per condividere uno spazio e un tempo entro i quali costruire un futuro comune.
La crisi ucraina acuisce drammaticamente la situazione. Sarebbero oltre 100 mila i profughi in fuga dalla guerra, giunti in Italia. Questa nuova emergenza umanitaria oltre a prevaricare il sistema di accoglienza ordinaria (SAI), ha colto impreparata anche la rete dei CAS. È stato necessario attivare un terzo livello di accoglienza: il livello emergenziale affidato alla Protezione Civile con il coinvolgimento della società civile.
In questa sfera ricade l’avviso per l’acquisizione delle manifestazioni di interesse per 15 mila posti da destinare all’accoglienza diffusa, scaduto il 22 aprile scorso. L’assegnazione delle risorse sarà eseguita tramite affidamento diretto al terzo settore. Le risorse dello Stato potranno essere destinate ad attori diversi dalle organizzazioni più strutturate come Caritas e Arci. “Ci si apre a riconoscere che esiste un tessuto di famiglie e realtà territoriali, società civile pura, in grado di collaborare con lo Stato” afferma Gianpaolo Silvestri Segretario Generale di AVSI. Società civile pura, incarnazione delle parole dell’enciclica Pacem in Terris che esortavano “a convivere e operare gli uni a bene degli altri”. Se questa porzione di cittadini organizzati in associazioni o nell’ambito delle proprie famiglie, si adoperano per sostenere lo Stato nella missione dell’accoglienza, sembra doveroso avviare canali di accesso ai finanziamenti pubblici. Potrebbero essere attivate regole ispirate agli appalti per fissare certezze sugli standard dei servizi e delle strutture messe a disposizione e garantire un’accoglienza che sia davvero accogli