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( vote)1. Overview: la norma ed il suo contesto di riferimento
Il 23 giugno 2017, sul supplemento ordinario n. 31 alla Gazzetta ufficiale n. 144, è stata pubblicata la legge 21 giugno 2017, n. 96, con la quale è stato convertito, con modificazioni, il D.L. n. 50/2017, recante
“Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure perlo sviluppo” (c.d. “manovrina”). Il testo normativo reca misure volte al miglioramento dei conti pubblici, sia operando una correzione del disavanzo di bilancio per il 2017 (per circa 3,1 miliardi), sia favorendo il rilancio dell’economia e gli investimenti nel settore pubblico ed infrastrutturale.
Tra i settori di sviluppo previsti dalla manovrina, spiccano gli investimenti pubblici nel settore dello sport; sono previsti, infatti, interventi puntuali necessari per assicurare l’organizzazione di particolari eventi – le gare mondiali di sci alpino a Cortina (previste per il 2020) e la RyderCup (nel 2022) -, ma anche interventi di semplificazione “a regime”, come l’art. 62 – che qui si esamina – dedicato alle misure di natura autorizzatoria e urbanistica volte ad agevolare la finanza di progetto nell’ammodernamento degli impianti sportivi pubblici.
Questa norma, nata quasi contemporaneamente alla fase di definizione delle procedure per la realizzazione del nuovo stadio di Roma, è stata molto discussa, nell’ambito dei lavori parlamentari e più volte rimaneggiata. In realtà, la discussione sulla fattibilità del nuovo impianto della Capitale si può vedere, in un certo senso, come il “banco di prova” delle norme previgenti, che ha indotto il legislatore a riflettere sulla portata del procedimento di semplificazione e sullo stesso sistema di incentivazioni previsto per il settore.
Resta il fatto che l’art. 62 della L. n. 96/2017 conserva tracce proprio delle discussioni svoltesi per lo stadio romano – ciò si nota soprattutto nei passaggi relativi al divieto di includere nel progetto la realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale e nella previsione di un esame delle istanze concorrenti in conferenza di servizi preliminare, finalizzata alla definizione dei contenuti del progetto definitivo -, ma si tratta, comunque di una norma di carattere generale ed acceleratorio, che novella l’art. 1, comma 304 L. n. 147/2013. Quest’ultima disposizione, infatti, costituisce il precedente tentativo del legislatore di rilanciare gli appalti pubblici nel settore sportivo, con l’obiettivo di apportare i necessari miglioramenti alle numerose infrastrutture già presenti nel Paese.
Poiché l’art. 1, comma 304 della Finanziaria 2014 non aveva sortito gli effetti sperati, in termini di reviviscenza degli appalti pubblici nel settore sportivo – complice forse l’incertezza del quadro normativo sulle concessioni pubbliche, nel passaggio fra il codice attuale e quello previgente – il legislatore ha forse pensato di riprovare ad incentivare il settore, intervenendo anche a chiarire i termini degli incentivi assentibili al concessionario.
2. Una concessione “atipica”?
A questo punto, occorre subito premettere una criticità di natura normativa: né l’art. 62 della Legge n. 96/2017, né l’art. 1, comma 304 della Legge n. 147/2013 fanno riferimento allo schema giuridico delle concessioni pubbliche; questa assenza di riferimenti normativi che disciplinino la realizzazione di tali infrastrutture rende senz’altro critico l’uso dello strumento di semplificazione approntato dal legislatore.
Le uniche indicazioni presenti nella norma consistono in riferimenti allo studio di fattibilità, che è alla base della “proposta di intervento”, al concetto di “sostenibilità”, al riferimento al “proponente” e – solo nell’art. 1, comma 304, lett. d) della Legge n. 147/2013 -, il rinvio alle “previsioni del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (all’epoca vigente – n.d.a.) in materia di finanza di progetto”, subito temperato dalla clausola “in quanto compatibili”. Nella novella in commento, invece, l’unico riferimento al Codice appalti è quello contenuto nel comma 4, ove è previsto che “il soggetto proponente deve essere in possesso dei requisiti di partecipazione previsti dall’articolo 183, comma 8, del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”.
Quasi timidamente, dunque, si evocano – per la realizzazione delle opere di che trattasi – le norme sulle concessioni pubbliche, tanto da far dubitare che la vera semplificazione della novella stia, in realtà, non tanto nella previsione di procedure abbreviate per l’approvazione dello studio di fattibilità e del progetto (scandite dai commi 1, 2 e 2 bis dell’art. 62 della manovrina), ma soprattutto in una generale deroga rispetto alle norme sulle concessioni pubbliche, così come individuate nel vigente Codice dei contratti pubblici.
E infatti, sarebbe stato utile un chiarimento – da parte del legislatore – sulle norme regolatrici della materia, laddove egli ha unito ed integrato due norme, nate in tempi diversi e in vigenza di diverse norme regolatrici per i contratti pubblici; ciò, soprattutto pensando che l’attuale D.Lgs. n. 50/2016 è dotato di una “parte III”, interamente dedicata alle concessioni pubbliche e di una “parte IV”, riservata agli altri strumenti di partenariato pubblico-privato.
La sensazione, leggendo la norma in esame è che il legislatore abbia mutuato le norme in materia di convenzioni urbanistiche (cui, infatti, si riferisce spesso ed apertamente, ad esempio nel comma 2, lett. a), in cui richiama l’art. 28 bis D.P.R. n. 380/2001) e le abbia assunte ad istituto “atipico” per regolamentare quel particolare tipo di concessioni afferenti gli impianti sportivi.
Si è creato, così, un “mix normativo” in cui i richiami al codice dei contratti pubblici (ad esempio, al comma 1, per lo svolgimento della conferenza dei servizi ed al comma 2 per la definizione dello studio di fattibilità) vengono inseriti in un contesto proprio della disciplina urbanistica degli Accordi di Programma finalizzati alla realizzazione di opere in variante.
In tal senso, quindi, il legislatore sembra allontanarsi dalle disposizioni tipiche delle concessioni di lavori (definite dall’art. 3, lett. uu) D.Lgs. n. 50/2016 come “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano l’esecuzione di lavori ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire le opere oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere”) o della finanza di progetto (in particolare, quella disciplinata dall’art. 183, comma 15 D.Lgs.n. 50/2016, che prende l’avvio da un’istanza del “proponente”, corredata da un “progetto di fattibilità”), per creare un modello più evoluto di Accordo di Programma. In altri termini, una procedura urbanistica in cui il “proponente” viene garantito dall’applicazione di procedure trasparenti in sede di conferenza di servizi preliminare, in relazione ai contenuti dello studio di fattibilità (si richiama l’art. 23, commi 5, 5 bis e 6 D.Lgs. n. 50/2016) e del Piano Economico e Finanziario.
Per il resto, come detto, non vi sono riferimenti espliciti alla procedura, o ai limiti, o ai contenuti degli strumenti contrattuali pubblici tipizzati dal codice appalti.
3. Prima deroga rispetto al Codice Appalti: i criteri di redazione dello “studio di fattibilità”
Ad esempio, in tema di progetto di fattibilità non sono richiamati i criteri di redazione e di valutazione indicati dall’art. 23, comma 6, ultima parte D.Lgs. n. 50/2016, laddove la norma prescrive di indicare “le caratteristiche prestazionali, le specifiche funzionali, le esigenze di compensazioni e di mitigazione dell’impatto ambientale, nonché i limiti di spesa, calcolati secondo le modalità indicate dal decreto di cui al comma 3, dell’infrastruttura da realizzare ad un livello tale da consentire, già in sede di approvazione del progetto medesimo, salvo circostanze imprevedibili, l’individuazione della localizzazione o del tracciato dell’infrastruttura nonché delle opere compensative o di mitigazione dell’impatto ambientale e sociale necessarie”. L’art. 62 L. n. 96/2017, invece, dopo aver genericamente enunciato, al comma 1, “Lo studio di fattibilità … predisposto ai sensi dell’articolo 23, commi 5, 5-bis e 6, del codice dei contratti pubblici …”, si affretta a specificarne i contenuti, distinguendoli da quelli tipizzati dall’art.23 D.Lgs. n. 50/2016, affermando che tale livello di progettazione “può comprendere, ai fini del raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa o della valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici, la costruzione di immobili con destinazioni d’uso diverse da quella sportiva, complementari o funzionali al finanziamento o alla fruibilità dell’impianto sportivo, con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale. Tali immobili devono essere compresi nell’ambito del territorio urbanizzato comunale in aree contigue all’intervento di costruzione o di ristrutturazione dell’impianto sportivo, al cui interno, ove abbiano una capienza superiore a 5.000 posti, possono essere realizzati anche alloggi di servizio strumentali alle esigenze degli atleti e dei dipendenti della società o dell’associazione sportiva utilizzatrice, nel limite del 20 per cento della superficie utile. I suddetti immobili, nel caso di impianti sportivi pubblici, sono acquisiti al patrimonio pubblico comunale. Lo studio di fattibilità può prevedere la demolizione dell’impianto da dismettere, la sua demolizione e ricostruzione, anche con volumetria e sagoma diverse, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettere d) e f), del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, nonché la sua riconversione o riutilizzazione a fini sportivi. Laddove si tratti di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti, per il raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa, lo studio di fattibilità può contemplare la cessione del diritto di superficie o del diritto di usufrutto su di essi, ovvero la cessione del diritto di superficie o del diritto di usufrutto di altri immobili di proprietà della pubblica amministrazione. Il diritto di superficie e il diritto di usufrutto non possono avere una durata superiore a quella della concessione di cui all’articolo 168, comma 2, del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e comunque non possono essere ceduti, rispettivamente, per più di novanta e di trenta anni.”.
Dunque, la valutazione del primo livello di progettazione – appunto, lo studio di fattibilità – non è basata sulla sostenibilità ambientale, o sul contenimento dei costi, né sull’equilibrio delle opere compensative o sulla migliore modalità di mitigazione dell’impatto ambientale o sociale, ma deve necessariamente porre in equilibrio le anzidette esigenze, con quelle del proponente, espresse in termini di opere ancillari necessarie allo sfruttamento o alla gestione dell’impianto sportivo.
Si noti anche che lo studio di fattibilità non si esprime in merito al carico infrastrutturale ed alle opere di urbanizzazione, necessarie ad adeguare gli standard urbanistici al nuovo dimensionamento dell’impianto sportivo, ovvero alla recettività che tale impianto potenzialmente attrae nell’area e nelle strutture ancillari progettate dal proponente. Tale “omissione” da parte del legislatore, porterebbe a concludere che la valutazione della “sostenibilità del progetto” – inteso nel suo insieme -, deve ricomprendere anche il ponderoso carico delle opere di urbanizzazione: così, il proponente pone a suo carico sia la realizzazione (o ristrutturazione) dell’impianto sportivo, sia la realizzazione delle infrastrutture primarie e secondarie e degli standard opere e – su tale importo complessivo – calcola il corrispettivo atteso.
La sostenibilità del progetto, quindi, diventa assai onerosa e – in questo senso – sembra diluirsi il principio di “rischio di costruzione” che è proprio del concessionario, dal momento che egli costruisce opere di urbanizzazione che servono alla migliore gestione della struttura sportiva, ma ottiene comunque una controprestazione immediata, in termini di sfruttamento delle cubature ancillari.
Specchio di questa tesi è il successivo comma 2 dell’art. 62, laddove si prevede, genericamente, che il proponente e l’ente pubblico dovranno regolare con una convenzione urbanistica (il riferimento è all’art. 28 bis D.P.R. n. 380/2001) la realizzazione delle opere di urbanizzazione che – sia per gli impianti sportivi privati (lett. a) del comma2), sia per gli impianti sportivi pubblici (lett. c) del comma2) -, “precede o è almeno contestuale alla realizzazione … dello stadio”. In altre parole, la realizzazione delle opere di urbanizzazione non condiziona l’esercizio degli altri diritti del proponente – tra i quali, il diritto alle cubature premiali indicate al comma 1 -, ma si configura come un inadempimento rispetto ad una convenzione urbanistica; con l’ulteriore, prevedibile, conseguenza che il mancato rispetto della stessa si riverbera sull’aspetto urbanistico, ma non (o, almeno, non sembra) su quello “concessorio” o “contrattuale”.
4. Seconda deroga rispetto al Codice Appalti: il mancato riferimento all’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016 per gli interventi su proprietà privata
Un altro esempio di criticità della norma consiste nel mancato riferimento ai requisiti morali e professionali in capo al proponente, per quanto concerne gli interventi su proprietà privata: l’art. 62, infatti, non richiede che il proponente sia valutato ai sensi dell’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016.
Precisamente, il comma 4 dell’art. 62 recita: “In relazione agli interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti, il soggetto proponente deve essere in possesso dei requisiti di partecipazione previsti dall’articolo 183, comma 8, del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, associando o consorziando altri soggetti laddove si tratti della società o dell’associazione sportiva utilizzatrice dell’impianto.”. E’ lecito dedurne, per sottrazione, che il riferimento all’art. 183, comma 8 del Codice appalti (il quale recita: “alla procedura sono ammessi solo i soggetti in possesso dei requisiti per i concessionari, anche associando o consorziando altri soggetti, ferma restando l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80.”) non sia applicabile alle opere realizzate su proprietà privata.
Questa dicotomia non é condivisibile: infatti, anche gli impianti realizzati su proprietà privata fruiscono delle “compensazioni” in termini di cubature premiali, previste dai commi 1, 3 e 5 bis indifferentemente sia per gli impianti privati, che per quelli pubblici.
Inoltre, sia gli impianti pubblici, che quelli privati fruiscono delle norme di semplificazione procedurale indicate dal comma 2.
Ma – e questo è il disequilibrio di maggior rilievo – la preoccupazione ricade ancora sulle opere di urbanizzazione, spesso di importo assai rilevante: tali opere – che sono in ogni caso “opere pubbliche” (e che, per quanto concerne quelle “primarie” e sotto-soglia sono di competenza del proponente, ex art. 16, comma 2 bis DPR n. 380/2001) -, infatti, in caso di “impianti privati” possono astrattamente essere poste a carico di un soggetto privo dei requisiti morali e professionali richiesti per l’affidamento di lavori pubblici.
Si può intravedere anche in questa dissonanza un presagio di criticità nell’attuazione pratica di questa norma di semplificazione per la realizzazione degli impianti sportivi. Gli enti chiamati ad approvare lo studio di fattibilità ed il progetto, infatti, necessariamente dovranno porsi anche il tema dell’affidamento della realizzazione delle opere pubbliche e degli standard, chiedendosi, quindi, se possano (e, spesso, debbano) affidare tali opere a soggetti ai quali potrebbe essere precluso l’accesso alle gare pubbliche o che, comunque, non sono tenuti a rilasciare le dichiarazioni di cui all’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016.
5. Conclusioni
Il limite della norma di semplificazione in commento è forse quello – insito nella natura della norma stessa – di voler conciliare situazioni giuridiche distanti fra loro: da una lato, impianti sportivi su aree pubbliche ed impianti sportivi su aree private, dall’altro lato, procedure urbanistiche e procedure concorrenziali.
Il risultato è una norma con una portata disciplinatoria assai labile ed a tratti un po’ confusa.
Senz’altro è lodevole lo sforzo del legislatore di riunire in un unico dettato normativo la realizzazione e ristrutturazione di quelle particolari strutture pubbliche che sono gli “impianti sportivi”, prodigandosi per favorirne lo sviluppo, ma l’attuale disciplina si presta a possibili controversie (peraltro, nel caso di “controversie relative agli impianti sportivi pubblici omologati per una capienza superiore a 16.000 posti”, assoggettate dal comma 5 alla disciplina accelerata prevista per le infrastrutture strategiche, di cui all’art. 125 del codice del Processo Amministrativo) e, in definitiva, ad uno scarso utilizzo pratico, proprio per le incertezze di fondo sullo schema contrattuale utilizzabile.
Messo a punto il sistema premiale, in termini di cubature e di opere ancillari – certamente in grado di attrarre interessi imprenditoriali – sarebbe, quindi, auspicabile un ulteriore sforzo per definire le procedure utilizzabili ed allinearle ad uno degli schemi contrattuali tipici contenuti nel vigente Codice dei contratti pubblici. Questo passaggio, forse, si potrebbe attuare tentando di “calare” o “comprimere” nell’ambito di uno schema contrattuale tipico – probabilmente, una forma di partenariato pubblico-privato, anche ad istanza di parte come nel caso dell’art. 183, comma 15 D.Lgs. n. 50/2016 – gli aspetti di semplificazione urbanistica, che costituiscono la vera premialità introdotta dalla norma in commento.