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Ormai da tempo sentiamo ripetere un mantra, quello delle centrali di committenza quale modello in grado di coniugare le esigenze di celerità ed economicità del procedimento, nonché delle prestazioni che da questo conseguono,  con l’applicazione di criteri di professionalità e competenza specifica  che si manifestano sempre più impellenti in relazione agli interessi che ruotano attorno agli appalti pubblici.

Niente di più difficile da verificare operativamente per chi, come chi scrive tutti i giorni opera in trincea con imprese e pubbliche amministrazioni, referenti delle commesse e responsabili del procedimento.

Ne ho tratto conferma dalla copiosa convenzione studiata dall’ANCI, testo pregevole, per chi come me è un cultore del procedi mento amministrativo e dei rapporti tra enti e tutte le forme collaborative anche di partnerariato pubblico, ma difficile da calare nella realtà comunale italiana che non è fatta da citta metropolitane, ma piccoli Comuni, senza risorse umane e senza risorse economiche.

In primo luogo è difficile ricostruire compiutamente la normativa costituita da un coacervo non di norme, non di disposizioni ma misure “salva-Italia”, “cresci- Italia” , “spending review 1,2,3,” tutte  tese a razionalizzare la spesa pubblica, misure economiche con le quali  il Governo ha introdotto una forma di accentramento della gestione delle gare ad evidenza pubblica, ritenendo che tale previsione possa eliminare taluni costi inutili connessi alla frammentazione tra i piccoli Comuni della fase procedimentale di acquisizione di lavori, servizi e forniture.

Il modello della centrale di committenza trova esplicita disciplina nella Direttiva 2004/18 che ne fornisce una definizione (art. 1, par. 10) e rimette la scelta di prevedere tali soggetti agli Stati membri (considerando 16). L’istituto è stato recepito nel Codice dei contratti che definisce la centrale di committenza una amministrazione aggiudicatrice che:

  • acquista  forniture o servizi destinate ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori;
  • aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori.

L’istituzione della centrale di committenza, in termini generali, risponde alle esigenze di specializzazione nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, nella necessità di programmazione la spesa pubblica, anche mediante l’accorpamento degli appalti, nel rispetto dei principi di economicità e trasparenza delle procedure, nel rispetto della tutela dei lavoratori e delle forme di contrasto alla criminalità organizzata.

La funzione principale della centrale che è quella di evitare la parcellizazione degli appalti, non sembra impedire che la sua attività si manifesti anche in relazione a singoli appalti  che vengono “commissionati” dagli enti che costituiscono la centrale medesima, sulla base dei propri atti di di programmazione sia di lavori, che eventualmente di servizi e forniture.

Elementi importati dai quali si ricavano sia il contenuto dei rapporti tra centrali di committenza ed enti che vi aderiscono, che le attività ed i servizi che possono essere forniti da detto organismo, sono contenuti nel DPCM 30.6.2011, emanato in attuazione dell’articolo 13 della legge 136/2010, recante il piano straordinario contro le mafie. I rapporti tra centrale ed enti aderenti sono regolati dalla convenzione che, in caso coinvolga più enti deve manifestarsi con contenuti identici in relazione agli aspetti su cui si manifesta l’attività della centrale. L’articolo 4 del DPCM, prevede poi gli elementi essenziali della convenzione, mentre l’articolo 3 individua le attività ed i servizi della Stazione unica appaltante (SUA) che vanno dalla collaborazione alla redazione di capitolati generali ed anche speciali, alla definizione, d’intesa con i singoli enti delle modalità di svolgimento delle procedure di gara, alla loro gestione, alla cura di eventuali contenziosi, ed al supporto ai fini della stipula del contratto. Inoltre, l’articolo 6 dello stesso DPCM prevede la possibilità per l’ente aderente di delegare l’attività di verifica del progetto, di cui all’articolo 112 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche competente per territorio laddove in possesso dei requisiti previsti dal comma 5 del citato articolo 112, con oneri a carico dell’ente aderente che può altresì avvalersi del supporto del medesimo Provveditorato per l’esame di eventuali proposte di varianti. Quindi sinora la centrale di committenza aveva un carattere facoltativo e ben circoscritto, quasi delimitato, disciplinato in apposite normative speciali con disciplina propria certo non estendibile tout court a tutte le centrali esistenti né a quelle da costituirsi.

Ben si comprende però la diversa ratio della Stazione Unica appaltante – No mafia, rispetto alle semplici centrali di committenza che a qualsiasi latitudine del Paese ci consentano di acquistare un temperino ad un Euro.

Lo scenario è peggiorato decisamente con la “Spending Review 3” nella quale sono addirittura usciti enti aggregatori abilitati dall’ANAC. Non si vuole ricostruire cosa sia una centrale di committenza, un ente aggregatore, una SUA e tratteggiarne le differenze, esercizio, peraltro, già tentato dall’ANAC con la determinazione n. 5/2015 con estrema difficoltà nell’individuare le differenze tra centrali di committenza ope legis (quali siano si possono intuire, ma non sono elencate) e quelle che avranno la patente di ente aggregatore, per un numero inverosimile di 35 per tutta Italia, ma piuttosto evidenziare la impossibilità di pensare una corretta razionalizzazione della spesa sia in chiave giuridica che economica, imponendo un modello organizzativo che porterà alla parcellizzazione degli appalti con creazione di micromercati territoriali, all’aumento del frazionamento artificioso ovvero accorpamento artificioso, entrambe nocivi per un sano sviluppo della concorrenza e alla impossibilità di far eseguire in modo corretto i contratti.

Non può negarsi come la vita e la forma delle centrali di committenza unica siano rimesse alla specifica disciplina che la potestà regolamentare delle Unioni e le previsioni degli accordi consortili conferiranno loro.

In primo luogo, deve rilevarsi come il vincolo di gestione associata introdotto dal legislatore statale possa porre dei problemi territoriali. L’art. 23, 4° comma, d.l. n. 201/2011e s.m.i. ha sempre imposto, infatti, il suddetto vincolo ai Comuni siti nella medesima provincia (ambito per un breve periodo venuto meno ora ristabilito in sede di conversione del decreto Spending Review 3 n.66/2014). E’ stato giustamente osservato che tale delimitazione territoriale rischia di entrare in conflitto con la mancanza di tale delimitazione per le Unioni ex art. 32 TUEL e per le Unioni obbligatorie ex art. 16 d.l. n. 138/2011 e s.m.i.. Non sembra peregrina la ipotesi in cui la gestione associata delle funzioni venga esercitata da una Unione composta da Comuni vicini, ma siti in territori provinciali diversi. In tal caso, qualora tali Unioni siano costituite prima dell’originario 31.3.2013, potrebbero porsi dei problemi per i Comuni non appartenenti al territorio della maggioranza dei Comuni dell’Unione, visto che i primi, per assurdo, si vedrebbero costretti a costituire una ulteriore Unione ai fini della gestione della gare. Pertanto. sembra immaginabile che la speciale previsione relativa alla centralizzazione della committenza possa produrre i propri effetti (indiretti) anche sulla conformazione delle Unioni, che i Comuni tenderanno a costituire con altri Enti della medesima provincia.

In secondo luogo deve rilevarsi come la costituzione di una centrale di committenza unica, che è “tenuta all’osservanza” del Dlgs. n. 163/2006 (come previsto dall’art. 33, 2° comma, Dlgs. n. 163/2006), non sottragga ai Comuni la totalità delle proprie competenze in materia di contratti pubblici. Spetta, infatti, alla suddetta stazione appaltante centralizzata la fase che va dal bando all’aggiudicazione definitiva della gara, rimanendo in capo agli Enti locali sia la fase (“a monte”) della programmazione e della scelta discrezionale dei lavori, delle opere e delle forniture da acquisire, sia la fase (“a valle”) della stipulazione del contratto, salvo una espressa delega anche di quest’ultima fase.

Questa logica “unificante” può potenzialmente razionalizzare la spesa pubblica, evitando la parcellizzazione delle gare, certamente diseconomica per le difficoltà di gestione soprattutto in relazione ad alcuni adempimenti. Si pensi, a titolo esemplificativo, al momento di redazione dei capitolati tecnici e all’effettuazione dei controlli dei requisiti ex art. 38 Dlgs. n. 163/2006.

Non può negarsi, però, come la brevità della disposizione in commento non risolva il vero problema connesso alla concreta operatività della centrale di committenza, ovvero quello delle risorse umane e materiali. Pertanto soltanto una volta congegnata la disciplina regolamentare e convenzionale dell’istituto e soltanto una volta applicata potrà realmente apprezzarsi l’impatto razionalizzante sulla spesa pubblica. Deve precisarsi in ogni caso come nell’ambito dell’Unione tutte le suddette competenze dovrebbero spettare al Servizio istituito, mentre nell’ambito degli accordi consortili all’organo gestionale all’uopo costituito o comunque all’ufficio di uno dei Comuni delegati. Tuttavia in entrambi i casi dovrà essere nominato un responsabile del procedimento.

La principale conseguenza della loro istituzione è lo “spacchettamento” del ciclo degli appalti pubblici così come descritto dal Codice dei contratti pubblici tra due soggetti diversi e due responsabili diversi, da un lato il Rup (responsabile unico del procedimento) dell’ente locale dall’altro la Cdc (Centrale di committenza).

“Per sopravvivere”, laddove non fosse possibile mettere in piedi né una Centrale di committenza né una convenzione a causa di resistenze e/o attriti dei piccoli Comuni di un particolare ambito territoriale, allora rimane pur sempre praticabile una terza via, rappresentata dalla possibilità di effettuare gli acquisti attraverso i mercati elettronici regionali oppure, a livello nazionale, il MePA gestito dalla Consip.

Ma nel caso in cui la verifica di disponibilità di quel bene o servizio presso il MePA abbia esito negativo, dovendosi procedere mediante gara pubblica, si ricade nella centrale, con l’aggravante sotto il profilo procedimentale che i Rup comunali mantengono la titolarità delle fasi a monte della programmazione e della progettazione di lavori servizi e forniture, così come le fasi a valle della stipulazione ed esecuzione del contratto, mentre la fase dell’affidamento diventa di competenza della Cdc.

Infine una breve notazione conclusiva di natura processuale, di particolare importanza in quanto  deve rilevarsi come non sia prevista alcuna sanzione espressa nell’ipotesi in cui un Comune eluda la competenza della centrale unica di committenza e proceda ad un affidamento con gara “propria” (se si esclude la previsione di mancato rilascio del CIG previsione facilmente aggirabile come sanno tutte le stazioni appaltanti che avendo formalmente aderito a centrali di committenza addirittura di privati continuano a prendere Cig in modo autonomo, limitandosi a cliccare “centrale di committenza” sulla famosa schermata CIG nel SIMOG).

Tuttavia, alla luce dei principi generali sul regime processuale dei provvedimenti amministrativi, può ritenersi che i provvedimenti adottati in violazione dell’art. 23, 4° comma, d.l. n. 201/2011 e sm.i. debbano essere ritenuti certamente annullabili e quindi suscettibili di impugnazione entro il termine decadenziale (breve, vista la materia de qua) di 30 giorni di cui all’art. 119, 5° comma, c.p.a. Pertanto, a titolo meramente esemplificativo, un bando adottato e pubblicato da parte un piccolo Comune potrà essere impugnato entro 30 giorni dalla pubblicazione o, più probabilmente, un’aggiudicazione definitiva in seno ad una gara non centralizzata potrà essere impugnata dall’impresa non aggiudicataria nel termine di 30 giorni dalla comunicazione ex art. 79 Dlgs. n. 163/2006.

A nostro avviso, però, gli atti adottati da un piccolo o piccolissimo Comune potrebbero ritenersi nulli e quindi suscettibili di essere oggetto dell’azione di accertamento ex art. 31, 4° comma, c.p.a, esperibile nel termine più ampio di 90 giorni (come desumibile, a stretto rigore, dal dimezzamento ex art. 119 c.p.a. del termine di 180 giorni previsto dal suddetto art. 31, 4° comma, c.p.a.), posto che si tratterebbe di provvedimenti adottati in carenza assoluta di potere (art. 21 septies l. n. 241/1990)

Questo regime processuale deve ritenersi applicabile almeno rispetto alle Unioni di Comuni, ove esistenti, quali amministrazioni competenti, posto che l’art. 2, 1° comma, TUEL le annovera tra gli Enti locali, riconoscendo ad essa un’autonomia istituzionale, funzionale e organizzatoria, che può dirsi, qualora un provvedimento sia adottato da un “altro” Ente, il presupposto stesso della carenza assoluta di potere. In questa logica non sembra irragionevole distinguere tra la nullità (per carenza assoluta) degli atti adottati da un Comune in luogo dell’ Unione competente e l’annullabilità (per incompetenza relativa o più semplicemente per violazione di legge sub specie dell’art. 23, 4° comma, d.l. n. 201/2011 e s.m.i.) degli atti adottati da un Comune in luogo di un Consorzio competente. 

Più realisticamente, fatta eccezione per possibili tentativi fraudolenti di “trattenere” talune gare, alcuni problemi interpretativi potrebbero porsi in relazione alla interpretazione del nomen gare, di cui si è detto nel paragrafo precedente, e alla ricerca di uno spazio di conservazione della funzione appaltante, soprattutto in relazione ad esigenze di urgenza, non specificatamente disciplinate dal legislatore.

In ogni caso un’analisi effettiva di questo nuovo modello potrà essere posta in essere soltanto al momento di concreta attivazione delle centrale uniche di committenza.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Francesca Petullà
Avvocato amministrativista, esperto in contrattualistica pubblica.
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