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Il tema del ricorso al modello dell’in house providing (fornitura da società in house) è stato soggetto ad una marcata attenzione da parte della giurisprudenza amministrativa, che ha progressivamente definito ed affinato i tratti caratterizzanti di tale istituto, sino alla recente definizione normativa conservata all’interno del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica di cui al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
È importante tuttavia ricordare che gli affidamenti a società in house sono stati soggetti ad un’analisi approfondita anche da parte della giurisprudenza penale, con particolare riguardo al tema dell’eventuale applicabilità, ai dipendenti delle società partecipate, delle disposizioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione commessi dagli incaricati di pubblico servizio. Si tratta di un tema delicato e, nel contempo, denso di interrelazioni tra le fattispecie penali ed i più recenti approdi della giurisprudenza amministrativa e costituisce, nel contempo, un ambito di indagine sul quale, prevedibilmente, si andrà sempre più a concentrare l’attenzione del Giudice penale.
Il presente contributo costituisce un approccio di sintesi a tale complesso tema, all’interno del quale l’attenzione verrà concentrata, in particolare, sulle pronunce edite dalla Suprema Corte di Cassazione in materia di abuso d’ufficio commesso dai dipendenti della società in house – con una precisa distinzione, tuttavia, a seconda che la società partecipata operi o meno nell’esercizio di poteri autoritativi – ed in tema di applicazione delle norme sull’affidamento degli appalti pubblici anche, “a cascata”, da parte delle società partecipate.
1. Società in house: i casi in cui è configurabile il reato di abuso d’ufficio
In alcune recenti pronunce la Suprema Corte ha affermato, con estrema fermezza, che le società in house costituiscono articolazioni della pubblica amministrazione, con la conseguenza che i relativi organi sono legati all’amministrazione da un rapporto di servizio e rispondono dei reati propri che da tale specifica figura possono essere commessi contro la pubblica amministrazione.
Particolarmente significativo appare, a tale proposito, il caso esaminato da Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16 aprile 2018, n. 16855, nel quale agli amministratori di una società pubblica (operante in regime di monopolio di fatto nel servizio di interesse pubblico di raccolta di rifiuti urbani) era imputato il reato di cui all’articolo 323 del codice penale, per aver proceduto all’acquisto diretto di un terreno sul quale doveva sorgere un impianto di stoccaggio e trattamento dei rifiuti e per aver disposto il conseguente affidamento dei lavori di realizzazione dell’impianto senza il preventivo esperimento di una gara pubblica che – nella tesi accusatoria – sarebbe stata invece necessaria tenuto conto della natura di organismo pubblico della società.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha sottolineato come sia ormai consolidata, a partire dalla giurisprudenza sovranazionale europea, l’ammissibilità per l’ente pubblico di non provvedere all’adempimento di compiti legalmente imposti attraverso una “gestione diretta” o “gestione in economia”, ma attraverso l’esternalizzazione del servizio oppure, in ulteriore alternativa, attraverso l’affidamento diretto del servizio ad una società riconducibile al modello dell’”in house providing”.
L’affidamento diretto alla società partecipata è consentito solo se l’organismo affidatario è equiparabile ad un ufficio interno dell’amministrazione affidante
In tale cornice, anche la giurisprudenza amministrativa ha da tempo riconosciuto il principio della natura ordinaria dell’affidamento eseguito con modalità diverse dalla gara pubblica, purché tale affidamento avvenga nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza, legittimo affidamento e non discriminazione[1]: sono stati in tal modo tracciati i principi generali in base ai quali l’affidamento diretto di appalti e concessioni (senza ricorso a procedure di evidenza pubblica) è consentito tutte le volte in cui si possa affermare che l’organismo affidatario, dotato di una autonoma personalità giuridica, presenti tuttavia connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un ufficio interno dell’amministrazione affidante, poiché in tali casi non vi si configura un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale rispetto all’amministrazione. Non si tratterebbe, peraltro, di un vero e proprio ricorso al mercato – benché l’affidamento venga disposto a favore di un soggetto con veste formalmente societaria – quanto piuttosto di una forma di autoproduzione o, comunque, di erogazione di servizi pubblici effettuata direttamente ad opera della stessa Amministrazione pubblica, non direttamente, ma attraverso gli strumenti propri dell’“in house providing”.
Per la Suprema Corte, tale equiparazione è possibile in presenza dei seguenti presupposti, i quali hanno a loro volta ispirato la recente normativa contenuta all’interno del d.lgs. n. 175/2016:
- esistenza del c.d. “controllo analogo”, ovverosia di una situazione di fatto e di diritto nella quale l’ente pubblico sia realmente in grado di esercitare sulla società partecipata un controllo analogo a quello che il medesimo ente può esercitare sui propri “servizi interni”, nonché:
- necessità che la società svolga la parte più importante della propria attività nei confronti dell’amministrazione affidante.
L’Amministrazione aggiudicatrice deve essere, pertanto, in grado di esercitare un’influenza determinante sugli obiettivi e sulle decisioni della società affidataria ed il controllo su quest’ultima esercitato dovrà essere effettivo, strutturale e funzionale. È dunque possibile considerare ormai ben delineati nell’ordinamento i connotati qualificanti della società in house, costituita per finalità di gestione di pubblici servizi e definita da alcuni requisiti imprescindibili: la natura pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici[2].
L’Amministrazione aggiudicatrice esercitare un’influenza determinante sugli obiettivi e sulle decisioni della società in house
In questa luce, la pronuncia in esame ha rilevato come sia stato costante insegnamento della medesima Corte di Cassazione che i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio ogni volta in cui l’attività della società controllata sia disciplinata da una normativa pubblicistica e la medesima società persegua finalità pubbliche benché facendo ricorso a strumenti di natura privatistica[3]: con la conseguenza che le società in house hanno, della società, soltanto la forma esteriore ma costituiscono, in realtà, articolazioni della pubblica amministrazione dalla quale promanano, con l’ulteriore corollario che gli organi di tali società, assoggettati a “vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione”, non possono essere considerati ‒ a differenza di quanto accade per gli amministratori delle società che sono sì a partecipazione pubblica, ma che non rivestano la veste di organismo in house ‒ come dotati di un mero munus privato. Gli organi delle società in house sono preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione sostanzialmente interna alla stessa Pubblica Amministrazione, di talché essi sono personalmente legati alla predetta p.a. da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente di ciò che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. Tali principi hanno improntato costantemente numerose pronunce della medesima Corte di Cassazione, nelle quali è stato riconosciuto che anche gli enti dotati di formale struttura privatistica, purché caratterizzati dai requisiti tipici dell’in house più volte ricordati, assumono connotazione di fatto pubblicistica, ed agli amministratori viene così riconosciuta la qualifica di incaricati di pubblico servizio[4].
2. Se la società partecipata non esercita poteri autoritativi, l’amministratore non è incaricato di pubblico servizio
Corollario dei principi espressi all’interno della sopra richiamata pronuncia resa dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 16855/2018 è quello per cui non tutte le società partecipate dalla pubblica amministrazione sono, di per sé soltanto, riconducibili al modello dell’“in house providing”, con la conseguenza che ‒ ove società partecipata operi senza l’esercizio di poteri autoritativi e certificativi ‒ ci si troverà di fronte ad un soggetto di diritto privato ed i suoi amministratori non rivestiranno la qualità di incaricato di pubblico servizio.
È questo, in particolare, il tema esaminato da Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 13284 del 22 marzo 2018, con riguardo alla qualifica soggettiva del Presidente e dei componenti del Consiglio di Amministrazione di una società partecipata dal Comune, con specifico riferimento all’affidamento, ad una ulteriore società integralmente privata, dell’appalto della pulizia della Stazione Aereoportuale di Catania.
Il giudice di merito aveva, nel caso specifico, osservato che la natura pubblica del gestore dell’aeroporto di Catania – con la conseguente qualifica di incaricati di pubblico servizio dei relativi amministratori – erano dimostrati:
- dalla circostanza che l’ENAC aveva affidato alla società partecipata, previa concessione, la progettazione, lo sviluppo, la realizzazione, l’adeguamento, la gestione, la manutenzione e l’uso degli impianti e delle strutture aeroportuali dell’Aeroporto di Catania;
- dalla circostanza che il precedente contratto di pulizia era stato preceduto da una gara pubblica e, nel contempo, dal fatto che il contenzioso sorto a seguito della stipula del contratto di appalto dei servizi di pulizia dalla precedente concessionaria era stato svolto innanzi al competente Tribunale amministrativo regionale;
- dall’osservazione, in punto di fatto, che sia il Consiglio di Amministrazione della società partecipata, sia il relativo legale rappresentante erano tutti convinti della natura pubblica della medesima società.
Se la partecipata opera senza l’esercizio di poteri autoritativi e certificativi ci si trova di fronte ad un soggetto di diritto privato ed i suoi amministratori non rivestono la qualità di incaricato di pubblico servizio
La Cassazione ha osservato che il tema era stato già oggetto di plurime decisioni da parte della medesima Corte di legittimità, e ciò:
- sia con riferimento specifico alle attività svolte dal gestore dell’aeroporto di Catania;
- sia con riferimento, più in generale, alle attività in concessione dei servizi aeroportuali.
La Cassazione aveva infatti già avuto modo di escludere la sussistenza della qualità di incaricato di pubblico servizio del componente dell’azienda speciale aeroportuale di Catania, in quanto la stessa aveva come scopo sociale quello di incrementare le attività turistiche e commerciali collegate a tale specifico scalo, tenuto altresì conto della natura privatistica del gestore e dell’assenza, in capo a quest’ultimo, di poteri autoritativi e certificativi[5]. Con riferimento ad un’altra società concessionaria di servizi aeroportuali e alla qualifica soggettiva del Vicepresidente della stessa, la stessa Corte di legittimità aveva evidenziato, inoltre, che la attività oggetto di concessione rivestivano natura pubblicistica esclusivamente per quanto concerne le attività inerenti i servizi di cui al decreto legislativo n. 18/1999[6], e, pertanto, con esclusione di tutte le altre attività di carattere commerciale, ancorché svolte in ambito aereoportuale, alle quali deve invece essere attribuita natura esclusivamente privatistica[7].
Nel caso oggetto di esame nella pronuncia resa dalla Cassazione con la sentenza n. 13284/2018 cit., i servizi oggetto di concessione erano effettivamente limitati alla realizzazione di condotte ed attività (progettazione, sviluppo, realizzazione, adeguamento, gestione, manutenzione, uso) direttamente riferibili agli impianti ed alle infrastrutture aeroportuali, mentre l’attività concreta per la quale era stato affidato ad una società terza – senza ricorso a procedure di evidenza pubblica – era costituito dall’appalto per la pulizia (non degli aeromobili) ma dei soli locali della stazione aeroportuale, con lo svolgimento, quindi, di un’attività oggettivamente priva di carattere pubblicistico e sostanzialmente estranea rispetto alla concessione aeroportuale. In conclusione, secondo la Suprema Corte, da un lato il gestore dell’aeroporto di Catania aveva natura di soggetto di diritto privato e, conseguentemente, i componenti del relativo Consiglio di Amministrazione non potevano rivestire la qualità soggettiva di incaricati di pubblico servizio e, dall’altro lato, l’attività concretamente appaltata a favore della società terza (trattandosi di pulizia dei soli locali della Stazione Aeroportuale di Catania) risultava comunque priva di profili e ricadute pubblicistiche, con analoghe conseguenze per quanto concerne la non configurabilità della qualifica soggettiva di incaricati di pubblico servizio in capo ai componenti del predetto Consiglio di Amministrazione.
3. Gli amministratori della società in house sono punibili per il reato di peculato
Un ulteriore aspetto di rilievo penale è stato esaminato dalla Cassazione penale, sezione sesta, con la recente sentenza n. 58235 del 21 dicembre 2018. Nel caso di specie erano stati in particolare contestati alcuni ripetuti episodi di peculato, punito ai sensi dell’art. 314 del codice penale, per un consistente valore monetario complessivo (pari a circa 1.800.000,00 di Euro) perpetrati dal consulente amministrativo e finanziario di una società in house del Comune di Pavia. Le condotte appropriative si erano realizzate secondo uno schema ricorrente, consistente nell’emissione, da parte della società in house, di note di credito apparentemente rese in favore del Comune di Pavia, il cui corrispettivo veniva tuttavia veicolato (attraverso l’emissione di assegni bancari e/o postali e/o disposizione di bonifici bancari) su conti correnti intestati direttamente agli amministratori della partecipata o, in altri casi, a società ad essi riconducibili.
Ai fini della configurabilità del reato proprio di peculato, la Suprema Corte sottolinea che, nel caso di specie, la società in house era una società partecipata in misura del 96% dal Comune di Pavia e, per la restante parte del capitale, da Comuni minori limitrofi, ed era incaricata della gestione dell’intero ciclo idrico in ambito comunale o inter-comunale (erogazione acqua, funzionamento fognatura, depurazione scarichi ecc.), dell’igiene ambientale nonché della gestione dei parcheggi. Nello svolgimento di tali compiti la società si avvaleva di un’ulteriore società, della quale aveva l’intero controllo, alla quale era demandato anche il compito di recuperare fabbricati del patrimonio edilizio comunale nonché di effettuare la manutenzione tecnica della sede operativa della società partecipante.
Con la citata sentenza n. 58235 del 2018 la Cassazione affronta il tema della qualificazione giuridica delle condotte di peculato e, nel contempo, dell’attribuzione di funzioni pubbliche in capo alla società partecipata “a cascata” dalla società in house, evidenziando che gli elementi addotti dagli imputati per escludere la rilevanza pubblicistica dei compiti affidati della società partecipata “a cascata” ‒ ovverosia la mancata gestione di denaro pubblico nonché la veste formale di società di diritto privato che svolgeva attività di natura privatistica quale l’installazione e la manutenzione di impianti di riscaldamento ‒ risultavano del tutto irrilevanti ai fini dell’inquadramento giuridico della società stessa, inquadramento che doveva invece essere condotto in base alle finalità dell’attività dalla società espletata e tenuto conto dell’attinenza dei compiti svolti, in via diretta o immediata, con lo svolgimento di un pubblico servizio, in vista della conseguente attribuzione al relativo vertice operativo della qualità di soggetto incaricato di un pubblico servizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 del codice penale.
Agli affidamenti disposti dalle società in house sono applicabili le procedure ad evidenza pubblica previste per gli enti pubblici ed è pertanto configurabile il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 del codice penale
La difesa degli imputati, peraltro, aveva citato diverse sentenze del giudice civile e amministrativo che nel corso del tempo avevano riconosciuto la completa autonomia tra ente partecipante e società partecipata operante in regime privatistico, sostenendo la tesi per cui l’art. 358 del codice penale sarebbe applicabile soltanto quando l’attività della partecipata sia disciplinata da normativa pubblicistica ed allorché la stessa persegua finalità pubbliche, benché con il ricorso a strumenti privatistici[8]. Tale tesi viene tuttavia ritenuta dalla Suprema Corte come infondata, posto che l’approccio concreto alla questione, richiesto dal tenore dell’art. 358 del codice penale, imponeva piuttosto di verificare quali fossero ‒ al di là della veste giuridica formale e della disciplina normativa applicabile all’attività corrente ‒ i compiti svolti dalla società completamente partecipata dall’in house ed incaricata di provvedere alla manutenzione tecnica della sede operativa della società controllante. Per la Suprema Corte, infatti, se è vero che si trattava di compiti apparentemente circoscritti ad un ambito squisitamente tecnico-operativo, era tuttavia innegabile il fatto che la controllante era pur sempre una società in house del Comune di Pavia e di altri enti minori geograficamente limitrofi, che in diversa percentuale partecipavano al suo capitale sociale. La Cassazione soggiunge, inoltre, che, con riferimento alle società in house ‒ intese come aziende pubbliche costituite in forma societaria il cui capitale è detenuto in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, da un ente pubblico che affida loro attività strumentali o di produzione ‒ la giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene ormai da tempo applicabili le procedure ad evidenza pubblica prevista per gli enti pubblici[9] e considera pienamente configurabile, di conseguenza, il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 del codice penale[10]. La configurabilità del reato di abuso d’ufficio presuppone, a sua volta, la veste di incaricato di pubblico servizio in capo al legale rappresentante di dette società[11]: la specificità della fattispecie affrontata dalla pronuncia n. 58235 del 2018 impone unicamente di aggiungere che una società interamente controllata da una società in house condivide con la prima la funzione di svolgere un pubblico servizio, con la conseguenza che il suo rappresentante legale può essere definito a tutti gli effetti ‒ a prescindere dalla veste giuridica formale del sodalizio o dal fatto che esso operi e sia regolamentato nel suo funzionamento da disciplina di natura privatistica ‒ come soggetto incaricato di pubblico servizio ai sensi dell’art. 358, comma 1 del codice penale.
4. Falso in atto pubblico nella redazione degli stati di avanzamento lavori
Un’ultima pronuncia ‒ Cassazione penale, sezione quinta, sentenza n. 5183 del 2 febbraio 2018 ‒ ha esaminato le disposizioni applicabili all’esecuzione degli appalti aggiudicati da parte delle società in house.
La Corte di Appello di Torino pronunciava sentenza di condanna nei confronti di alcuni soggetti imputati per il delitto di cui all’art. 479 del codice penale, contestato in relazione alla falsa indicazione all’interno di alcuni stati di avanzamento lavori (SAL) della percentuale della manodopera utilizzata: secondo il giudice di merito, il delitto di cui al menzionato art. 479 risulterebbe infatti integrato anche laddove il pubblico ufficiale attesti, contrariamente al vero, fatti di cui la legge non prescriva espressamente la menzione, a condizione che si tratti di attestazione non superflua nell’economia dell’atto e che si tratti di attestazione incidente sull’emissione dell’atto finale del procedimento.
La Corte prende nota del fatto che il contenuto del SAL è definito dalla norma regolamentare di cui all’art. 194 D.P.R. n. 207/2010[12], norma che non prevedeva in alcun modo l’inserimento di elementi ulteriori rispetto a quelli normativamente previsti, con la conseguenza che, secondo la difesa degli imputati, l’indicazione delle percentuali di manodopera impiegata non avrebbe potuto costituire elemento essenziale dell’atto, rispondendo a finalità del tutto diverse ed estranee alla funzione caratteristica dello stesso: da ciò conseguirebbe, ancora secondo la tesi difensiva, che l’indicazione della percentuale della manodopera, riguardando un elemento di natura dichiarativa il cui inserimento non sarebbe normativamente prescritto, escluderebbe la funzione fidefacente e non sarebbe riconducibile alla nozione di “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” prevista dal menzionato art. 479 del codice penale.
Secondo la Suprema Corte, tuttavia, dalla lettura della pronuncia resa in prime cure era emerso chiaramente che il Responsabile unico procedimento del committente pubblico e l’amministratore della società in house avevano organizzato una precisa metodologia finalizzata ad aggirare le regole della evidenza pubblica in tema di affidamenti di lavori pubblici tramite il sistema dei subappalti: proprio da ciò conseguiva, pertanto, che, pur essendo legittimo il procedimento di affidamento diretto dei lavori disposto a favore della società partecipata (posto che quest’ultima, quale società in house, rappresentava una mera articolazione interna dell’ente pubblico committente, rendendo così legittimo il sistema dell’affidamento diretto senza gara), era altrettanto indiscutibile che non era affatto legittimo l’affidamento disposto dalla società in house a favore di terzi subappaltatori disposto senza il rispetto delle regole dell’evidenza pubblica: da un lato, infatti, tali affidamenti ai subappaltatori avvenivano senza gara (e ciò del tutto illegittimamente, considerato che la società in house doveva essere considerata a tutti gli effetti come una stazione appaltante) e, dall’altro, in tal modo veniva anche ad essere superato il limite del 30% delle opere legittimamente affidabili in subappalto. Più in particolare, era emerso che in un primo momento gli imputati avevano pensato di far “gonfiare” le fatture emesse dalle subappaltatrici, le quali fatturavano in modo fittizio per forniture di materiali non veritiere, in modo tale che tale sovrafatturazione coprisse il pagamento della manodopera in carico alle subappaltatrici che si sostituiva a quella ‒ non sufficiente ‒ a disposizione della società in house per l’esecuzione dei lavori che ad essa erano stati direttamente affidati da parte del soggetto pubblico. Il dato relativo alla falsa fatturazione veniva, poi, riportato nei SAL, che risultavano così falsificati nell’indicazione delle percentuali di manodopera utilizzata dalla società in house. Tale sistema era stato poi abbandonato dagli imputati per abbracciare quello, parimenti illegittimo, dei cd. distacchi apparenti: si faceva così apparire nei SAL che i lavori venivano erano stati direttamente dalla società in house con lavoratori oggetto di distacco (anche in questo caso fittizio), mentre dalle indagini era emerso che i lavoratori formalmente distaccati continuavano a rimanere alle dirette dipendenze delle società subappaltatrici (all’interno dei SAL venivano riportati, anche in questo caso, dati falsi in ordine alla percentuale di manodopera utilizzata).
In tale contesto, secondo la Cassazione la rilevanza penale della condotta descritta dall’art. 479 del codice penale sussiste anche quando la falsità riguardi elementi secondari e ricognitivi dell’atto: è stato infatti da tempo affermato, dalla giurisprudenza della medesima Corte di Cassazione, che il reato di falsità ideologica in atto pubblico è configurabile anche allorché il pubblico ufficiale attesti, contrariamente al vero, fatti di cui la legge non prescriva espressamente la menzione, sempre che l’attestazione non sia ultronea rispetto alla complessiva economia dell’atto, e sempre che tale falsità sia rilevante ai fini dell’emissione dell’atto finale del procedimento[13]. Nel caso di specie era risultato incontrovertibile che l’indicazione corretta, all’interno dei SAL, della percentuale di manodopera era indispensabile ai fini dell’ottenimento, da parte delle società subappaltatrici, del Durc e, pertanto, anche al fine di ottenere il pagamento dei corrispettivi contrattualmente dovuti: in tale cotesto non può dunque affermarsi che l’oggetto della falsificazione, ovverosia la percentuale di manodopera utilizzata, fosse irrilevante ai fini del perfezionamento del procedimento di pagamento e di avanzamento dei lavori. Peraltro, ai fini della configurabilità del reato di falso ideologico è sufficiente il dolo generico, il quale si concreta nella volontarietà della dichiarazione falsa, con la sciente consapevolezza del suo carattere non veritiero, essendo irrilevanti le ragioni che hanno determinato l’agente ad operare l’attestazione e, pertanto, essendo parimenti irrilevante qualsivoglia accertamento in ordine alla sua volontà di favorire sé o altri[14]. Nel caso di specie, il ruolo apicale rivestito dal responsabile del procedimento nominato dall’ente pubblico committente gli aveva certamente consentito di sapere che l’equilibrio finanziario della società in house si reggeva proprio sul sistema dell’affidamento diretto degli appalti a terzi estranei, considerato che la società in house non aveva la struttura organizzativa minima necessaria per poter eseguire tutti i lavori di manutenzione del patrimonio immobiliare dell’ente pubblico: da ciò conseguiva pertanto che il predetto Responsabile del procedimento doveva avere anche la piena consapevolezza sia della necessità del ricorrere al sistema dei subappalti irregolari, sia dell’ulteriore necessità di ricorrere ai predetti escamotage necessari per aggirare i limiti imposti al ricorso ai predetti subappalti (escamotage perpetrato attraverso il predetto sistema delle “fatture gonfiate” e dei distacchi illegittimi).
[1] Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza n. 257 del 22 gennaio 2015.
[2] Corte di Cassazione, n. 26283/2013 cit.
[3] Corte di Cassazione, n. 16855/2018 cit. che, su punto, richiama Corte di Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 48036 del 14 novembre 2014. Peraltro, già in altre occasioni la medesima Suprema Corte aveva riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio all’amministratore di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche, ma partecipata da un consorzio di enti pubblici ed avente ad oggetto la gestione di un servizio di pubblico interesse quale è lo specifico servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani: Corte di Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 45908 del 16 ottobre 2013.
[4] Corte di Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 28299 del 10 novembre 2015; Corte di Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 1327 del 7 luglio 2015; Corte di Cassazione penale, sezione sesta, sentenza n. 39350 del 3 luglio 2017; Corte di Cassazione penale, sezione seconda, sentenza n. 29480 del 13 giugno 2017. Nella fattispecie oggetto di esame in Cassazione n. 16855/2018 cit., peraltro, è stato disposto che, alla luce dei principi come sopra delineati e sulla base dell’orientamento prevalente espresso dalla Corte di Cassazione, si rendeva necessario qualificare, in maniera più puntuale, il vincolo, nato originariamente come contratto di “appalto”, tra la società di diritto privato a totale partecipazione pubblica operante nel settore della gestione dei rifiuti ed il consorzio dei Comuni committente: occorreva, in particolare, qualificare la natura dell’attività esercitata ‒ verificando se la stessa fosse realmente diretta al soddisfacimento di un “interesse generale” ‒ nonché la natura del “bisogno”, commerciale, industriale o meno, che la stessa andava a soddisfare. Occorreva chiarire, in altri termini, se l’attività di raccolta dei rifiuti fosse attività di interesse generale ‒ riguardante la generalità dei consociati residenti nel territorio nel quale operava la società coinvolta ‒ e verificare, nel contempo, se la predetta società pubblica operasse in condizioni di mercato “monopolistiche” e sottratta a logiche di concorrenza. Per queste ragioni, la Corte di Cassazione ha pertanto disposto la trasmissione degli atti impugnati al competente Tribunale del merito, per nuova deliberazione in punto di fatto.
[5] Corte di Cassazione, sezione sesta, sentenza n. 6427 del 15 gennaio 2010.
[6] Si tratta, in particolare, del d.lgs. 13 gennaio 1999, n. 18, recante l’Attuazione della direttiva 96/67/CE relativa al libero accesso al mercato dei servizi di assistenza a terra negli aeroporti della Comunità.
[7] Corte di Cassazione, sezione sesta, sentenza n. 38921 del 1 giugno 2017.
[8] In senso conforme cfr. Corte di Cassazione penale, Sezione sesta, sentenza n. 49759 del 27 novembre 2012, nonché Sezione sesta, sentenza n. 17372 del 24 aprile 2015 e Sezione sesta, sentenza n. 45908 del 16 ottobre 2013.
[9] Cfr. art. 35 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, richiamato dall’art. 18, comma 1 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 s.m.i., relativo alle società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica, nel cui ambito sono comprese anche le società in esame.
[10] Corte di Cassazione penale, Sezione sesta, sentenza n. 3046 del 10 novembre 2017 e Corte di Cassazione penale, Sezione sesta, sentenza n. 48036 del 14 novembre 2014.
[11] Corte di Cassazione penale, Sezione sesta, sentenza n. 39350 del 3 luglio 2017, in fattispecie di peculato commesso dal legale rappresentante di società privata incaricata da fondazione in house della Regione Calabria dell’erogazione di fondi comunitari destinati al sostegno delle persone in condizioni di difficoltà economica.
[12] Recante il Regolamento di esecuzione del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
[13] Corte di Cassazione penale, sezione quinta, sentenza n. 4324 del 13 gennaio 1978.
[14] Corte di Cassazione penale, sezione quinta, sentenza n. 41172 del 9 luglio 2014.