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Il tema del regime applicabile agli appalti pubblici in materia di responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore per crediti contributivi e retributivi è stato di recente affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 7 luglio 2014, n. 15432, che ha fatto chiarezza in ordine alle norme applicabili ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
La questione, di particolare complessità, è stata oggetto di ampi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza, i quali tuttavia lasciavano estraneo il giudice di legittimità, che, con la pronuncia in esame, interviene ponendo nel nulla gli orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza di merito.
1. Il contesto normativo
La responsabilità solidale nell’ambito degli appalti privati trova il proprio fondamento nella disciplina civilistica, ai sensi della quale “Coloro che, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto loro è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono a domanda” (art. 1676 codice civile).
Il principio con specifico riguardo alla corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali è stato poi introdotto dall’art. 29, comma 2, del D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (“Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30”), ai sensi del quale – in caso di appalto di opere o di servizi – il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, i contributi previdenziali ed i premi assicurativi dovuti in relazione all’attività prestata nell’appalto[1].
Con la L. 27 dicembre 2006, n. 296 (“Legge Finanziaria 2007”) si è esteso tale regime ai trattamenti retributivi e previdenziali dovuti ai dipendenti anche di ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, così ulteriormente rafforzando la tutela patrimoniale dei lavoratori.
Delineatasi tale disciplina, si è ben presto posta la questione della applicabilità della stessa agli appalti pubblici e quindi della estensione degli obblighi previsti dall’art. 29 citato anche alle pubbliche amministrazioni.
Ciò in quanto in materia di appalti pubblici esiste una specifica disciplina, quella dettata dall’art. 118, comma 6, del Codice dei Contratti (D. Lgs. n. 163/2006), ai sensi del quale “L’affidatario e’ tenuto ad osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni; e’, altresì, responsabile in solido dell’osservanza delle norme anzidette da parte dei subappaltatori nei confronti dei loro dipendenti per le prestazioni rese nell’ambito del subappalto.”.
A tal fine la menzionata disposizione prevede l’obbligo dell’affidatario e dei subappaltatori di trasmettere alla stazione appaltante la documentazione attestante il rispetto delle suddette normative, prescrivendo che “L’affidatario e, per suo tramite, i subappaltatori, trasmettono alla stazione appaltante prima dell’inizio dei lavori la documentazione di avvenuta denunzia agli enti previdenziali, inclusa la Cassa edile, assicurativi e antinfortunistici, nonché copia del piano di cui al comma 7.”.
La ratio della disciplina in esame è chiaramente ravvisabile nella esigenza di tutela dei dipendenti del subappaltatore, la quale giustifica l’attribuzione in capo all’affidatario della responsabilità in ordine al rispetto delle norme della contrattazione collettiva applicabile riguardanti i trattamenti economici, contributivi e retributivi.
Numerose sono state le modifiche apportate alla materia, da ultimo per effetto dell’art. 31, comma 2, lettera b), D.L. n. 69 del 2013 (Decreto “del fare”)[2], che ha introdotto nel testo dell’art. 118 cit. l’obbligo della stazione appaltante di acquisire d’ufficio il DURC anche in relazione a tutti i soggetti subappaltatori (“Ai fini del pagamento delle prestazioni rese nell’ambito dell’appalto o del subappalto, la stazione appaltante acquisisce d’ufficio il documento unico di regolarità contributiva in corso di validità relativo all’affidatario e a tutti i subappaltatori.”).
Ad integrare la disciplina del Codice intervengono gli articoli 4 e 5 del Regolamento di cui al D.P.R. n. 207/2010, che prevedono la responsabilità solidale, sia contributiva che retributiva, introducendo l’intervento sostitutivo delle stazioni appaltanti in caso di inadempienze contributive dell’appaltatore e/o del subappaltatore.
In particolare, il Regolamento, al titolo 2°, relativo alla “Tutela dei lavoratori e regolarità contributiva“prevede:
- all’art. 4 la disciplina in materia di “Intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva dell’esecutore e del subappaltatore (D.M. LL.PP. n. 145 del 2000, art. 7)“[3];
- all’art. 6 la disciplina del “Documento unico di regolarità contributiva“, che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento;
- all’art. 5 la disciplina in materia di “Intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza retributiva dell’esecutore e del subappaltatore (D.M. LL.PP. n. 145 del 2000, art. 13)“, secondo cui in caso di ritardo nel pagamento delle “retribuzioni” dovute al personale dipendente dell’esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all’art. 118, comma 8, ultimo periodo, del Codice dei Contratti Pubblici, impiegato nell’esecuzione del contratto, il responsabile del procedimento debba invitare il soggetto inadempiente, ed in ogni caso l’esecutore, a provvedervi entro i successivi quindici giorni; decorso infruttuosamente il suddetto termine, ove non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine sopra assegnato, i soggetti di cui all’art. 3, comma 1 lett. b) del Codice, possono pagare, anche in corso d’opera, direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto ai sensi degli 37, comma 11, ultimo periodo, e 118, comma 3, primo periodo del Codice[4].
2. Il caso di specie
La controversia di cui alla sentenza in esame origina dalla richiesta, proposta dal dipendente della società affidataria dell’appalto dinanzi al Tribunale di Pinerolo avente ad oggetto il pagamento delle somme a titolo di differenze retributive e indennità di mancato preavviso previste dalla legge in caso di dimissioni per giusta causa.
Il Tribunale, accogliendo la domanda del dipendente, condanna la società appaltatrice – in solido con il Ministero della Giustizia, quest’ultimo nella qualità di committente dell’appalto – al pagamento delle suddette somme.
Avverso la sentenza di primo grado propone appello il Ministero della Giustizia dinanzi alla Corte d’appello di Torino, sostenendo l’inapplicabilità al caso di specie del D.lgs. n. 276 del 2003, in tema di responsabilità solidale tra committente e appaltatore poiché la volontà del legislatore sarebbe quella di escludere dal campo di operatività del decreto de quo sia il personale delle pubbliche amministrazioni sia le pubbliche amministrazioni in quanto tali.
La Corte d’appello respinge le tesi del Ministero, osservando in sintesi che:
a) l’art. 29, comma 2, del D. Lgs. n. 276 del 2003, nella specie applicabile, non fa alcuna distinzione tra committenti privati e committenti pubblici né tra contratto pubblico di appalto di servizi (disciplinato dal D. Lgs. n. 163 del 2006) e contratto di appalto di diritto comune (disciplinato dall’art. 1655 c.c. e segg.);
b) d’altra parte, l’art. 1, comma 2, del citato D. Lgs. n. 276 del 2003, secondo cui: “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, deve essere interpretato alla luce della legge delega, per salvaguardarne la conformità con l’art. 76 della Costituzione e ciò porta a concludere che l’espressione ivi contenuta “pubbliche amministrazioni …. e il loro personale” sia da considerare “come una endiadi” che equivale all’espressione “il personale delle pubbliche amministrazioni“, in conformità della Legge di delega n. 30 del 2003, art. 6;
c) tale ultima disposizione escludeva l’applicabilità delle disposizioni dei precedenti artt. da 1 a 5 “al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate” con la conseguenza che il richiamo del suddetto D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2 alle pubbliche amministrazioni deve essere inteso come da riferire a tali amministrazioni nella loro qualità di datori di lavoro pubblico e in tale veste esse non possono utilizzare le forme contrattuali flessibili introdotte dallo stesso decreto se non sono espressamente richiamate, come accade per esempio nell’art. 86, comma 9, per la somministrazione di lavoro a tempo determinato;
d) diversamente da quel che sostiene il Ministero appellante, la suddetta locuzione non può invece intendersi riferita alle pubbliche amministrazioni nel loro ruolo istituzionale, visto che in tale veste le amministrazioni non possono dirsi escluse tout court dall’applicazione del D. Lgs. n. 276 cit.;
e) d’altra parte, avendo le pubbliche amministrazioni la veste di datrici di lavoro del personale assunto nelle forme del rapporto di lavoro pubblico, anche da questo punto di vista esse si devono considerare ricomprese nell’ambito di applicabilità del D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, che fa riferimento al “committente imprenditore o datore di lavoro“;
f) la suindicata interpretazione della normativa in oggetto è da preferire in quanto diversamente vi sarebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione, derivante sia dalla posizione di ingiustificato privilegio che verrebbe riservata alle pubbliche amministrazioni committenti rispetto ai committenti privati, sia dalla situazione di obiettivo svantaggio in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore occupato nell’ambito di un appalto intercorso con un committente pubblico.
Infine, la Corte d’appello ritiene che non avrebbe alcun valore in contrario l’argomento secondo cui la suddetta interpretazione dovrebbe comportare anche l’applicazione agli appalti pubblici della disposizione di cui al comma 3-bis dell’art. 29 cit., introdotto dal D. Lgs. n. 251 del 2004, art. 6, comma 2, secondo cui: “Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’art. 27, comma 2″. Infatti, ad avviso della Corte torinese, tale ultima disposizione opererebbe su un piano diverso rispetto al precedente comma 2, essendo comunque evidente che essa è inapplicabile alle pubbliche amministrazioni le quali, per il reclutamento del personale, sono regolate dalla speciale disciplina di cui al D. Lgs. n. 165 del 2001, sulla base dell’art. 97 della Costituzione.
Le due sentenze di merito pertanto, in accoglimento delle pretese del dipendente, respingono le argomentazioni mosse dal committente pubblico, affermando l’applicabilità dell’art. 29 del citato Decreto del 2003 anche alle pubbliche amministrazioni. La Corte di Cassazione, per contro, travolge radicalmente tale approccio, accogliendo il ricorso del Ministero della Giustizia e cassando la sentenza del giudice di appello favorevole al dipendente.
Le due sentenze di merito, in accoglimento delle pretese del dipendente, respingevano le argomentazioni mosse dal committente pubblico, affermando l’applicabilità dell’art. 29 del citato Decreto del 2003 in tema di responsabilità solidale anche alle pubbliche amministrazioni committenti e non solo ai rapporti tra privati.
3. Il contrasto giurisprudenziale e l’interpretazione “creativa” della Corte torinese
La questione posta all’attenzione della Suprema Corte ed affrontata nella sentenza del 7 luglio 2014, n. 15432 riguarda l’applicabilità anche agli appalti pubblici della delineata disciplina in tema di responsabilità solidale tra committente e appaltatore e, conseguentemente, l’applicabilità degli obblighi posti in capo al committente dal citato art. 29 del Decreto del 2003 nell’ipotesi in cui lo stesso sia una pubblica amministrazione.
Si tratta di una questione, prima d’ora non affrontata dalla Corte, che è stata oggetto di ampi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza, sia ordinaria di merito che amministrativa.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente (seguito, nel caso di specie, dalla Corte torinese) deve ritenersi l’applicabilità dell’art. 29 D. Lgs. n. 276 del 2003 agli appalti pubblici, sul presupposto secondo cui occorre dare una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in esame. In particolare, l’art. 1, comma 2, del decreto, secondo cui “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, dovrebbe essere – stando a tale orientamento – interpretato alla luce della legge delega, per salvaguardarne la conformità con l’art. 76 della Costituzione, che imporrebbe di ritenere che non sia configurabile una totale esclusione delle pubbliche amministrazioni dall’applicazione delle norme del decreto, visto che esse sono esplicitamente contemplate come soggetti attivi di importanti discipline, quali quelle dettate dall’art. 6 (che prevede regimi particolari di autorizzazione allo svolgimento di attività di intermediazione), art. 76 (che indica gli organi di certificazione abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro) e art. 86, comma 9 (ove è prevista una disciplina specifica per le pubbliche amministrazioni per la somministrazione e i contratti di formazione e lavoro).
4. Il chiarimento del Giudice di legittimità
La Corte rigetta l’opzione interpretativa – benché assai argomentata – proposta dal giudice torinese nella sentenza appellata.
Tale tesi risulta invero – a giudizio della Corte – basata su una serie di presupposti non condivisibili e attualmente superati dall’intervento di due fattori decisivi:
a) l’art. 9, comma 1, D.L. 28 giugno 2013, n. 76 – comunque utilizzabile ai fini interpretativi sebbene non applicabile ratione temporis nella specie – secondo cui “Le disposizioni di cui al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 29, comma 2, e successive modificazioni …. non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2“[5];
b) l’ordinanza n. 5 del 2013 della Corte costituzionale, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276 del 2003, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione.
A tale ultimo intervento, in particolare, la Corte di Cassazione ricollega il venir meno della premessa su cui si fonda l’interpretazione – definita come “piuttosto creativa” – fornita dalla Corte torinese in merito al D. Lgs. n. 276 del 2003. Mentre infatti la Corte torinese, come sopra detto, richiamava l’art. 1, comma 2, del citato decreto, secondo cui “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, sostenendo che lo stesso dovesse essere interpretato alla luce della legge delega per salvaguardarne la conformità con l’art. 76 della Costituzione, il Giudice costituzionale nella menzionata ordinanza del 2013 ha sancito che “l’art. 76 Cost. riguarda esclusivamente i rapporti tra legge delegante e decreto legislativo delegato (ordinanze n. 89 del 2009 e n. 150 del 2006)”, sicché essendo la norma in esame frutto di un intervento del legislatore successivo ed estraneo al rapporto di delegazione, “rispetto ad essa il profilo del rispetto della legge di delega non viene in evidenza ed è pertanto fuor d’opera assumere il parametro costituzionale invocato quale stregua del giudizio di legittimità (sentenza n. 218 del 1987; ordinanze n. 253 del 2005; n. 294 e n. 159 del 2004)”.
Ne consegue – argomenta la Corte di Cassazione – che “tale interpretazione … privata del presupposto costituito dalla supposta necessità di “salvaguardarne la conformità con l’art. 76 Cost. risulta del tutto sguarnita di qualsiasi appiglio logico-giuridico, tanto più che lo stesso riferimento all’art. 76 Cost., per come giustificato, risultava comunque poco comprensibile. Infatti, al fine di ritenere – in contrasto con il chiaro dato letterale – che sussista l’obbligo, per l’interprete, di includere le pubbliche amministrazioni nell’applicazione delle norme del decreto – e, in particolare, di quella sulla responsabilità solidale di cui si tratta – non appare certamente decisiva la circostanza che le pubbliche amministrazioni siano, in qualche modo, menzionate negli artt. 6 e 76, trattandosi di richiami che non riguardano la concreta disciplina delle varie tipologie contrattuali, introdotte con la riforma del mercato del lavoro realizzata con il D. Lgs. n. 276 del 2003.”.
Vengono così scardinati anche gli ulteriori argomenti addotti dalla giurisprudenza prevalente onde affermare il suddetto obbligo di responsabilità solidale per l’Ente pubblico. Secondo la Corte, infatti:
a) l’argomento, tratto dalla presenza nel testo dell’art. 29, comma 2, del Decreto del 2003, dell’inciso “committente imprenditore o datore di lavoro“, oltre ad essere contraddittorio rispetto alla interpretazione proposta dell’art. 1, comma 2, cit., è del tutto disancorato da qualsiasi riferimento rinvenibile nell’art. 29 nel suo complesso nonché nel testo D. Lgs. n. 276 del 2003;
b) “la situazione delle pubbliche amministrazioni committenti non è paragonabile rispetto a quella dei committenti privati, tanto che riceve un’apposita e articolata disciplina”;
c) “nell’ambito di tale speciale disciplina, è espressamente prevista una normativa di tutela dei lavoratori occupati nell’ambito di appalti o subappalti intercorsi con committenti pubblici”.
La situazione delle pubbliche amministrazioni committenti non è paragonabile rispetto a quella dei committenti privati, tanto che riceve un’apposita e articolata disciplina, nell’ambito della quale è espressamente prevista una normativa di tutela dei lavoratori occupati nell’ambito di appalti o subappalti intercorsi con committenti pubblici (Corte di Cassazione n. 15432/2014).
La principale censura che così la Corte muove alla sentenza impugnata è quella di non aver considerato né la speciale normativa in materia di appalti pubblici, né la giurisprudenza di legittimità in materia di applicabilità dell’art. 1676 cod. civ. anche ai contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni.
Ai contratti di appalto pubblico si applica invero il D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che tiene in massimo conto le esigenze di tutela dei lavoratori, nonché il relativo Regolamento attuativo di cui al D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207. Ebbene, i soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. b) del Regolamento sono, per l’appunto, “amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti: i soggetti indicati rispettivamente dall’art. 3, commi 25, 26, 29, 31, 32 e 33, del codice“.
Dall’insieme di tali disposizioni si desume che “a garanzia dei crediti retributivi e contributivi dei lavoratori impegnati negli appalti – o nei subappalti – pubblici sono previsti specifici strumenti che, se attivati nei tempi e nei modi prescritti, consentono agli interessati di avere direttamente dall’amministrazione committente il pagamento delle retribuzioni dovute dal loro datore di lavoro anche in corso d’opera.”.
Si tratta di una “tutela speciale” che considera al contempo le esigenze del committente: quest’ultimo può “rivalersi” nei confronti dell’appaltatore inadempiente applicando le opportune sanzioni ed ottenendo così un ristoro pieno del proprio credito per le retribuzioni corrisposte ai lavoratori, obiettivo raggiungibile anche “detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto ai sensi degli art. 37, comma 11, ultimo periodo e art. 118, comma 3, primo periodo, del codice” (v. art. 5 del Regolamento cit.).
Da tutto ciò – si osserva nella sentenza in esame – deve desumersi che “il mancato pagamento delle retribuzioni nell’ambito di un appalto pubblico è, dal legislatore, considerato più grave del mancato pagamento delle retribuzioni nell’ambito di un appalto privato, perché la questione non riguarda solo i lavoratori, ma anche l’appaltatore inadempiente, nel suo rapporto con il committente pubblico.”.
In altri termini, nella materia degli appalti pubblici il disvalore dello scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro – in violazione del principio di cui all’art. 36 Costituzione – non ha rilievo soltanto nel rapporto interno tra privati, ma, a differenza di quanto lasciato intendere dalla pregressa giurisprudenza di merito, comporta anche la lesione degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Il mancato pagamento delle retribuzioni nell’ambito di un appalto pubblico è, dal legislatore, considerato più grave del mancato pagamento delle retribuzioni nell’ambito di un appalto privato, perché la questione non riguarda solo i lavoratori, ma anche l’appaltatore inadempiente, nel suo rapporto con il committente pubblico (Corte di Cassazione n. 15432/2014).
5. La tutela “residuale” di cui all’art. 1676 codice civile
La Cassazione, dopo aver affermato la centralità della disciplina dettata dal Codice dei Contratti Pubblici, volge uno sguardo alla disciplina civilistica, dettata dall’art. 1676 cod. civ., in tema di “Diritti degli ausiliari dell’appaltatore verso il committente”. Tale disposizione, pur riguardando a stretto rigore i rapporti tra privati, in base ad orientamenti consolidati e condivisi dalla Corte, è infatti applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni ed è pertanto comunque invocabile dai lavoratori, i quali non possano o non intendano utilizzare gli strumenti previsti dalla suddetta normativa speciale.
Ai sensi di tale disposizione, “Coloro che, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.
Ai lavoratori impiegati in un appalto pubblico è quindi riconosciuta la possibilità di agire ai sensi dell’art. 1676 cod. civ. ma in via residuale, in quanto l’art. 1676 cod. civ. si applica anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni, trovando tale disposizione un puntuale riscontro nell’art. 357 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, che consente la possibilità di pagamento diretto da parte dell’amministrazione della retribuzione dei dipendenti dell’appaltatore non corrisposta alle previste scadenze; non essendo la disposizione del codice civile incompatibile con la citata L. n. 2248 del 1865, anche in tale materia si configura un rapporto diretto fra gli ausiliari dell’appaltatore e l’ente committente, riguardo ai crediti retributivi dei primi verso l’appaltatore – datore di lavoro; ne deriva che, nell’ambito di tale rapporto diretto, non può assumere rilevanza la normativa relativa all’osservanza delle norme sulla contabilità della pubblica amministrazione, in relazione alla esigibilità del credito dell’appaltatore nei confronti dell’ente committente[6].
Il rimedio di cui all’art. 1676 cod. civ. è tuttavia limitato rispetto alla tutela dettata dal Codice dei Contratti Pubblici in quanto l’azione diretta proposta dal dipendente dell’appaltatore contro il committente per conseguire quanto gli è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al momento della proposizione della domanda è prevista dall’art. 1676 cod. civ. con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza dell’attività svolta per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio oggetto dell’appalto, e non anche con riferimento ad ulteriori crediti, pur relativi allo stesso rapporto di lavoro (principio già sancito dalla sentenza della Corte del 19 novembre 2010, n. 23489). A fronte di tale disciplina, l’art. 29 cit. garantisce al lavoratore un regime di tutela senza dubbio più ampio (al riguardo si parla infatti responsabilità solidale “senza tetto” del committente, invocabile in un più ampio lasso temporale e da parte di una categoria di soggetti più vasta, includendo anche i dipendenti del subappaltatore).
In ogni caso, come si legge nella sentenza in esame, il ricorso all’art. 1676 cod. civ., pur non consentendo necessariamente un completo ristoro del credito vantato dal lavoratore – a differenza della disciplina prevista dal Codice dei Contratti Pubblici – comunque risponde ad una logica simile a quella della disciplina speciale.
La stessa Corte ha evidenziato che tale normativa, che peraltro consente agli interessati di recuperare – anche in corso d’opera – quanto loro dovuto, è articolata in modo tale da dimostrare che, nell’ambito degli appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti un disvalore, maggiorato dal fatto di considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
In questo senso, mentre l’art. 1676 cit. deve trovare applicazione anche agli appalti pubblici, non così può dirsi per la diversa disciplina di cui all’art. 29 D. Lgs. n. 279 del 2003, che poggia su basi diverse e ha differenti effetti.
In conclusione, agli appalti pubblici “…non è applicabile il D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto stesso sia applicabile “per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale” e come, di recente ha confermato dal D.L. 28 giugno 2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all’art. 1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni“.
Secondo la Corte di Cassazione, ai contratti pubblici di lavori servizi e forniture, in materia di responsabilità solidale, si applica la speciale disciplina prevista dal Codice dei contratti pubblici e dal relativo regolamento di attuazione e, solo in via residuale, la disciplina di cui all’art. 1676 del codice civile.
[1] Ai sensi di tale disposto “.. salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali”.
[2]Ai sensi di tale disposizione, “2. Al codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, sono apportate le seguenti modificazioni: … b) all’articolo 118, comma 6, il terzo periodo e’ sostituito dal seguente: «Ai fini del pagamento delle prestazioni rese nell’ambito dell’appalto o del subappalto, la stazione appaltante acquisisce d’ufficio il documento unico di regolarita’ contributiva in corso di validita’ relativo all’affidatario e a tutti i subappaltatori.»”. Il Decreto in parola ha eliminato la responsabilità fiscale solidale negli appalti relativamente ai versamenti IVA.
[3] Ai sensi del citato art. 4, comma 1, per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, l’esecutore, il subappaltatore e i soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all’art. 118, comma 8 ultimo periodo del Codice, devono osservare le norme e prescrizioni dei contratti collettivi nazionali e di zona stipulati tra le parti sociali firmatarie di contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentative, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, sicurezza, salute, assicurazione assistenza, contribuzione e retribuzione dei lavoratori. Il successivo comma 2 prevede che il responsabile del procedimento, in caso di ottenimento di un DURC che segnali un’inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell’esecuzione del contratto, trattiene dal certificato di pagamento l’importo corrispondente all’inadempienza stessa. L’articolo 4 in commento prevede altresì che il pagamento di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante il DURC è disposto dai soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. b) del Codice direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile. L’articolo 4 prevede, in ultimo, che le stazioni appaltanti, in via cautelativa, operino una trattenuta di garanzia dello 0,50 % sull’importo netto progressivo delle prestazioni; tali ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l’approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, e comunque previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva
[4] Sul punto v. A.V.Sinisi, “La Corte di Cassazione fa il punto sulle norme applicabili, nei contratti pubblici, in tema di responsabilità solidale e intervento sostitutivo della stazione appaltante” in www.appaltiecontratti.it
[5] Con la nuova disposizione citata si è infatti chiarito che l’art 29 non si applica alle pubbliche amministrazioni, intendendosi per tali “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunita’ montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”.
[6] La Corte sul punto richiama la precedente giurisprudenza: Cass. 10 marzo 2001, n. 3559; Cass. 19 aprile 2006, n. 9048; Cass. 9 agosto 2003, n. 12048; Cass. 7 marzo 2008, n. 6208; Cass. 10 luglio 1984, n. 4051.