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( vote)Le procedure di evidenza pubblica, segnatamente quelle per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, sono regolate da norme di natura speciale, attesa la particolarità degli interessi perseguiti. Per tale motivo, i criteri adottati per la scelta degli operatori economici nelle procedure di gara sono preventivamente individuati in maniera tassativa. Dimodoché la Stazione Appaltante sia immediatamente in grado di selezionare i soggetti astrattamente idonei ad eseguire la prestazione contrattuale.
L’art. 38 del codice dei contratti pubblici contempla le cause di esclusione soggettive dei partecipanti alle procedure di gara pubblica e, tra i c.d. criteri di selezione, elenca i requisiti di ordine generale o di moralità che ciascun partecipante alle dette gare deve possedere.
Gli obblighi dichiarativi imposti dalla norma speciale hanno la evidente finalità di verificare la idoneità degli operatori economici sotto il profilo della professionalità, solidità economica e moralità.
Il tema appena introdotto rappresenta una delle questioni più dibattute in ambito nazionale e comunitario ed è stato oggetto di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali, a causa proprio della valenza dell’interesse di natura pubblica conseguito dalla specifica disciplina degli appalti.
Vi è chi ha ritenuto causa autonoma di esclusione dalla gara la semplice dichiarazione non veritiera, atteso che l’art. 75 del D.P.R. 445/00 (Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa) stabilisce in maniera chiara che : “…qualora dal controllo di cui all’art. 71 emerga la non veridicità del contenuto delle dichiarazioni, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguiti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Secondo questa interpretazione rigorosa delle norme in esame, una impresa è esclusa dalla possibilità di partecipare alla gara indipendentemente dalla effettiva sussistenza in capo ad essa dei requisiti richiesti. Né può ricorrere al soccorso istruttorio ex art. 46 del codice dei contratti pubblici, poiché questa norma trova applicazione solo quando gli atti -tempestivamente prodotti- siano già in grado di fornire alla amministrazione pubblica sufficienti indizi circa il possesso dei requisiti richiesti per la partecipazione ad una procedura e occorra solo che la impresa fornisca meri chiarimenti o precisazioni.
In tal senso si è espressa la Sez. III del Consiglio di Stato che, con sentenza n. 123 del 15.01.2014, ha sottolineato che “…..la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente, anche in ossequio al principio del buon andamento della amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara; conseguentemente una dichiarazione che è inaffidabile perché, al di là dell’elemento soggettivo sottostante, è falsa od incompleta…deve ritenersi di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che la impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara….”. Ha aggiunto il Collegio che “la dimostrazione dell’assenza di elementi ostativi in capo ad uno degli amministratori costituisce elemento essenziale dell’offerta (o comunque è dovuta ai sensi del comma 2 dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006) sì che la sua mancanza produce l’esclusione automatica ai sensi del comma 1-bis dell’art. 46 del D. Lgs. Cit……”. Ha precisato, inoltre, che in tal caso la esclusione “è rispettosa dei principi di par condicio in materia..”, che sarebbero stati lesi se si fosse ammessa la possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio. Quest’ultimo istituto trova applicazione solo quando le dichiarazioni richieste “siano già state effettivamente rese, senza che con ciò sia possibile integrare elementi essenziali mancanti od omessi”. In quest’ultimo caso “..l’omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione non può essere considerata alla stregua di una irregolarità sanabile in applicazione dell’art. 46 del codice appalti…”….. Quanto poi al c.d. falso innocuo, il Consiglio ha rilevato che trattasi di istituto che non può essere invocato in caso di carenza di dichiarazione “di assoluto valore ai fini della valutazione della onorabilità della impresa e della stessa possibilità di contrarre con la stazione appaltante”.
Suddetto indirizzo del Consiglio di Stato è in aperto contrasto con quello definito sostanzialista e privilegiante il c.d. favor partecipationis delle imprese. Secondo questo orientamento, invero, “solo l’insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione previste dall’art. 38 citato comporta, “ope legis”, l’effetto espulsivo”. Quando, invece, il partecipante risulti in possesso dei requisiti legislativamente richiesti è ammesso alla gara, atteso che la “omissione non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un’ipotesi di “falso innocuo”, come tale non suscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa… a fondare l’esclusione..” (cfr. Cons. Stato , Sez. V. 24.11.11 n. 6240).
L’indirizzo sostanzialista appena citato è di derivazione comunitaria. L’art. 45 della direttiva 2004/18/CE è informato su una verifica sostanziale della sussistenza dei requisiti richiesti per la partecipazione alle gare e fa conseguire l’esclusione dalle gare “alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di false dichiarazioni, non rinvenibile nel caso in cui il concorrente non consegua alcun vantaggio in termini competitivi, essendo in possesso di tutti i requisiti previsti”. (cfr. Cons. Stato , Sez. V. 24.11.11 n. 6240)
Per dare attuazione alle disposizioni della Unione Europea, gli operatori del diritto amministrativo hanno mutuato un istituto di elaborazione penale, quello appunto del “falso innocuo”.
E’ opportuno, a tal proposito, per comprendere meglio i contrastanti orientamenti del Consesso amministrativo sulla applicabilità dell’istituto appena citato nelle procedure di evidenza pubblica, analizzare la suddetta ipotesi di falso non punibile e, in maniera breve ma puntuale, la condotta incriminatrice che ne è alla base.
Attesa la specificità della materia che si sta trattando, le argomentazioni di impronta penale che verranno espresse avranno come oggetto solo la falsità in atti pubblici.
Punto di partenza è che dichiarare il falso è un reato, che trova una sua specifica disciplina nel Titolo VII del Libro II del Codice penale.
Oggetto della tutela penale è la fede pubblica intesa in senso ampio. Se, infatti, in origine la norma ricollegava al concetto di fede pubblica solo la “fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori, tra cui i documenti a cui l’ordinamento attribuisce particolare importanza” (cfr. Relazione illustrativa del codice vigente), nel tempo, l’ampiezza insita nel concetto di pubblica fede, ha indotto dottrina e giurisprudenza a riconsiderare l’interesse tutelato, ricollegandolo a quello più specifico della genuinità materiale e della veridicità ideologica di determinati atti, quali mezzi di prova. Facendo ricadere il reato nella categoria di quelli c.d. “plurioffensivi”. Dalla norma in commento, viene tutelato, ora, sia l’interesse rappresentato dalle fede pubblica, in capo alla Stato- collettività, sia l’interesse specifico leso dalla falsità, con la conseguenza che anche il soggetto privato, sulla cui sfera l’atto era destinato a incidere concretamente, riveste la qualifica di persona offesa dal reato. (cfr. Cass. Pen. Sez. Un. 25.10.07 n. 46982)
La condotta incriminata è identificata con la falsità materiale o ideologica dell’atto. La prima consiste nella contraffazione: formazione in tutto o in parte di un atto falso o nella alterazione di un atto vero: aggiunta, sostituzione, soppressione di un elemento dell’atto dopo la sua definitiva formazione. La seconda, invece, attiene alla veridicità delle attestazioni contenute nell’atto stesso. (cfr. commento Cod. Pen. IPSOA II Ed.)
Trattasi, invero, di una condotta ingannatoria del soggetto agente, tesa a produrre un falso convincimento nella vittima.
Relativamente alla nozione di atto pubblico, rilevante ai fini dei delitti in esame, si precisa che essa ha una accezione più ampia rispetto a quella fornitaci dal codice civile, il quale definisce “pubblico” .. “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio, o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato” (art. 2699). E, infatti, ricadranno nella detta nozione anche le dichiarazioni sostitutive rilasciate da privato. Trattandosi, invero, di atto avente per disposizione di legge la specificità funzionale probatoria della veridicità delle asserzioni in esso contenute, e di atto destinato, nella aggiudicazione degli appalti, ad essere trasfuso in quello pubblico.
Sul punto, i Giudici di legittimità hanno previsto che “la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ricorre qualora il privato attesti falsamente in un atto pubblico fatti che l’attestante ha il dovere giuridico di esporre veridicamente e dei quali l’atto era destinato a provare la verità” (cfr. Cass. Pen. sez. II 89/5211).
La sede di trattazione non consente la disamina delle molteplici fattispecie delittuose contemplate dal codice penale e impone un fugace richiamo solo a quelle che possano rappresentare un concreto interesse per chi opera con la pubblica amministrazione, atteso che “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità è punito con la reclusione fino a due anni”. (art. 483 c.p.)
Innanzitutto rileva la circostanza che “chiunque” riveste la qualifica di soggetto attivo del reato. Non ci troviamo, come nelle ipotesi di cu agli artt. 476- 481 c.p., di fronte a un c.d. “reato proprio”, laddove per reato proprio deve intendersi quello che può essere commesso solo da chi ricopre una specifica qualifica o funzione, come quella di pubblico ufficiale o esercente un servizio di pubblica necessità.
Ciò comporta che chiunque partecipi ad una gara pubblica, attestando il falso, oltre ad essere escluso dalla partecipazione alla gara stessa, consuma il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, il reato di tentata truffa e il correlato illecito amministrativo ex D. Lgs. n. 231 del 2001. (cfr. Cass. Pen. Sez. V n. 14359 del 25.01.2012, nel caso di specie l’imputato, socio accomandatario e legale rappresentante della società, è stato ritenuto responsabile dei reati puniti dagli artt. 483, 56 e 640 del c.p. nonché del correlato illecito amministrativo ex art. 26 D.Lgs. 231/01, per avere falsamente attestato, in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata presso un Ente pubblico, necessaria per partecipare ad una gara di appalto, di essere in regola con gli obblighi riguardanti le dichiarazioni e i versamenti in materia di contributi sociali e con gli obblighi fiscali. Il prevenuto, così agendo, ha posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore i funzionari dell’Ente preposti alla gara d’appalto per ottenere indebitamente l’aggiudicazione dell’appalto, in pregiudizio dello stesso Ente e delle altre ditte partecipanti).
Una volta chiarito quale può essere la condotta incriminata è possibile esaminare le ipotesi di elaborazione giurisprudenziale secondo le quali le condotte in oggetto, seppure ricadenti in astratto nella fattispecie penale, nella realtà sono prive di lesività.
E’, infatti, possibile escludere la punibilità nei reati di falso allorché ci si trovi di fronte a: falso grossolano, falso inutile e falso innocuo.
La falsificazione è grossolana quando è immediatamente riconoscibile da parte di chiunque, secondo una valutazione ex ante, e rende, pertanto, impossibile l’evento costitutivo dell’inganno della pubblica fede. Il falso grossolano è evidente, ricade sulla materialità dell’atto e non richiede indagini per il suo accertamento.
E’ inutile il falso che ricada su un atto non richiesto o incapace di influire per esempio su una decisione di competenza della P.A..
E’ innocuo il falso quando non è immediatamente riconoscibile ma, a seguito di concreta valutazione, esso risulti ex post comunque inidoneo a ledere l’interesse tutelato.
Esplicativa per tale ultima ipotesi è una pronuncia giurisprudenziale che qui di seguito si trascrive.
“In tema di falso innocuo in atto pubblico, l’innocuità non va riferita all’uso che dell’atto si faccia, ma alla idoneità di questo ad ingannare comunque la fede pubblica, potendosi versare nella fattispecie del falso innocuo nei soli casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso, e siano, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto si intendevano raggiungere”. (cfr. App. Aquila 09.05.2013; ex plurimis Cass. Pen. 7875/87)
Dunque, secondo una concezione “realistica” del reato non è punibile il falso quando l’azione, benché sussistente, sia innocua, ovvero inidonea a ledere l’interesse tutelato della genuinità del documento e incapace a conseguire uno scopo antigiuridico.
I casi di non punibilità appena descritti si possono sussumere nella figura del reato impossibile disciplinata dal secondo comma dell’art. 49 c.p..
Per dovere di informazione si aggiunge che parte della giurisprudenza riconduce al reato impossibile solo la figura del falso grossolano e non anche quella del falso innocuo, poiché, mentre nel primo caso, il falso è riconoscibile da chiunque sia dotato di normale diligenza ictu oculi, ovvero nel momento stesso in cui l’azione viene posta in essere, nella ipotesi di falso innocuo, invece, l’azione, in prima istanza, raggiunge l’effetto di ingannare e, solo a seguito di particolari indagini, risulta inoffensiva.
L’avere chiarito la condotta incriminatrice del reato di falso e i casi in cui lo stesso non si configura ci consente di comprendere la vera essenza delle pronunce della giustizia amministrativa e di operare un parallelismo tra l’istituto del falso innocuo appena spiegato e quello richiamato dal Consiglio di Stato.
Innanzitutto è possibile riscontrare che la teoria “sostanzialista” in materia di appalti pubblici è assimilabile alla concezione realistica del reato di falso, poiché sia il giudice amministrativo sia quello penale, in tal caso, danno rilievo alla inoffensività della condotta posta in essere dall’agente, che è in concreto inidonea ad aggredire gli interessi tutelati dalle rispettive norme.
Esaminando, invece, l’ultima decisione assunta dalla III Sezione del Consiglio di Stato, la n. 583 del 06.02.2014, è possibile sostenere che le scelte interpretative adottate dal Consesso amministrativo, nel caso di falsa o non corretta dichiarazione ex art. 38, poggiano su interessi diversi rispetto a quelli propri e perseguiti dalla norma penale.
Il Consiglio di Stato ha stabilito che presupposto necessario perché possa applicarsi nella materia degli appalti pubblici l’istituto di derivazione penale del “falso innocuo” è che “la lex specialis di gara non preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni da fornire”. Precisando che l’art. 45, par. 2, lett. g) della dir. N. 2004/18/CE, che fa conseguire l’esclusione dalla gara alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di falsa dichiarazione, trova applicazione nell’ordinamento nazionale e, quindi, nelle procedure di gara, solo qualora l’esclusione da esse non sia sancita, in base all’art. 38,c. 1 del Dlg 163/2006, in modo espresso dalla legge di gara.
Nella materia speciale, la consapevolezza o meno del reato è irrilevante, dimodoché la “dichiarazione non veritiera”, ai sensi dell’art. 38, comporta ex se la esclusione dalla gara. (cfr. Cons. Stato Sez. V 03.06.2013 n. 3045)
La dichiarazione ex art. 38 ha rilevanza oggettiva e non consente una indagine sull’elemento soggettivo del dichiarante. Indagine richiesta, invece, dal legislatore penale, sugli elementi strutturali del reato, che devono esistere perché lo stesso si configuri. Sul punto il Consiglio di Stato ha statuito che “La consapevolezza o meno del reato di falso ideologico, rilevante nel processo penale, non potendosi configurare l’ipotesi di tale reato ove manchi la volontà cosciente e non coartata di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non rileva nell’ambito della disciplina dettata dal D.P.R. n. 445 del 2000, in cui la “dichiarazione sostitutiva non veritiera” preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione, operando come fatto, in cui perde rilevanza l’elemento soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante”.(cfr. Cons. Stato Sez. V 03.06.13 n. 3045)
Nell’ambito dei rapporti amministrativi la P.A. risponde a principi di ordine pubblicistico. Per cui nelle gare pubbliche l’Amministrazione deve innanzitutto garantire la celerità delle procedure di gara non potendo svolgere ricerche sulla sussistenza dell’elemento psicologico del soggetto agente, sulla cui buona fede essa ripone la sua fiducia. Ciò spiega perché, contrariamente a ciò che avviene in ambito penale, la valutazione del carattere innocuo del falso è compiuta ex ante, con la conseguenza che non può essere considerato innocuo il falso in grado di incidere sulle determinazioni dell’Amministrazione. (cfr. Cons. Stato, VI Sez. 08.07.10 n. 4436)
Alla luce di quanto sin qui espresso è possibile concludere che mentre in ambito penale la condotta inizialmente ritenuta falsa è, a seguito di concreta e SUCCESSIVA valutazione, non punibile, perché oggettivamente inoffensiva, tale da non poter giustificare la reazione penale, negli appalti pubblici le dichiarazioni (ex art. 38) incomplete e/o mancanti o difformi non sono comunque sanabili ex post e, conseguentemente, il singolo partecipante alla gara pubblica anche quando sia effettivamente in possesso dei requisiti generali richiesti dalla norma speciale sarà comunque punito con la esclusione alla gara. E NON potrà invocarsi la mera applicabilità della teoria del falso innocuo, nelle procedure di evidenza pubblica, poiché, come detto in precedenza, la completezza delle dichiarazioni ex art. 38 “è già di per sé un valore da perseguire e una dichiarazione inaffidabile .. “ deve ritenersi di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che la impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara”.