Questo articolo è valutato
( votes)1. Premesse
Il “verso” del rapporto che lega il Giudice Amministrativo e l’Autorità Antitrust è stato delineato dal legislatore delle procedure giurisdizionali come inequivocabilmente unidirezionale: le pronunce dell’Autorità possono infatti essere impugnate dinanzi al G.A. ed in particolare dinanzi al TAR del Lazio, alla cui cognizione risulta attribuita competenza funzionale inderogabile ai sensi dell’art. 135 del Codice del Processo Amministrativo.
Assai invasivo e penetrante risulta, invero, essere il vaglio giurisdizionale di cui è capace il G.A. sulle pronunce dell’Antitrust, più volte scandito secondo le seguenti regole generali: “nel controllo sull’operato dell’Autorità il giudice non incontra alcun limite, tenuto conto che, anche nel modello impugnatorio, il sindacato giurisdizionale è oggi particolarmente penetrante e si estende sino al controllo dell’analisi economica compiuta dall’Autorità (potendo il giudice sia rivalutare le scelte tecniche da essa compiute sia applicare la corretta interpretazione di concetti giuridici indeterminati alla concreta ed esaminata fattispecie), salvo il limite del divieto di sostituzione del giudice all’Autorità”[1].
Più di recente l’orientamento anzi ricordato ha subito dei temperamenti.
La giurisprudenza ammnistrativa, nel tempo, si è mostrata propensa ad avallare una parziale ridimensione dell’ampiezza di tale sindacato, in un assetto di mutati equilibri costituzionali, in cui l’autorevolezza delle Autorità indipendenti veniva acquisendo maggior peso.
Autorevole dottrina ha diffusamente ricordato che “il Consiglio di Stato esclude che il controllo di legittimità possa precludere al giudice amministrativo la verifica della verità del fatto posto a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità, in quanto a seguito del progressivo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto al rapporto controverso (pretesa fatta valere, secondo alcuni) deve ormai ritenersi superato quell’orientamento che negava al giudice amministrativo l’accesso diretto al fatto, salvo che gli elementi di fatto risultassero esclusi o sussistenti in base alle risultanze procedimentali. Sulla base di tale orientamento, quindi, i fatti posti a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità possono senza dubbio essere pienamente verificati dal giudice amministrativo sotto il profilo della verità degli stessi; ciò presuppone la valutazione degli elementi di prova raccolti dall’Autorità e delle prove a difesa offerte dalle imprese senza che l’accesso al fatto del giudice possa subire alcuna limitazione. Alla fine, quindi, il giudice amministrativo esercita sulle valutazioni tecnico-discrezionali dell’Autorità un sindacato intrinseco riutilizzando le stesse regole specialistiche utilizzate dall’Autorità), ma non sostitutivo, limitandosi a verificare se la soluzione tecnica individuata dall’Amministrazione sia attendibile, id est se rientri nell’ambito dei margini di elasticità consentiti dal concetto giuridico indeterminato. Tale tecnica di controllo era stata inizialmente qualificata, dalla stessa giurisprudenza amministrativa, in termini di controllo “debole”, quasi a ipotizzare l’esistenza e la possibilità di un controllo “forte”, che il giudice si rifiutava, tuttavia, di esercitare. Ė evidente che la contrapposizione tra “controllo debole” e “controllo forte” presentava elementi di ambiguità, lasciando ipotizzare appunto la possibilità di un sindacato giurisdizionale più intenso ma non esercitato. Proprio prendendo atto di questa ambiguità la più recente giurisprudenza amministrativa ha successivamente specificato che sindacato esercitato sull’attendibilità tecnica della valutazione effettuata dall’Autorità non è affatto “debole”, ma è l’unico consentito al giudice, traducendosi, infatti, l’ipotizzato “controllo forte” in una inammissibile sostituzione del giudice all’Amministrazione.”[2]
Tali considerazione generali non toccano però quanto preliminarmente ricordato in merito al “verso” del rapporto tra Autorità Indipendenti e sindacato del G.A., da sempre, come sopra ricordato, unidirezionale.
E’ infatti il G.A. che, secondo l’assetto positivo del nostro ordinamento giuridico, gode del potere di sindacare sulle pronunce dell’Autorità con latitudine variabile, salva l’invalicabilità del confine del riparto di attribuzione costituzionali tra poteri dello Stato, secondo cui “il giudice amministrativo può sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell’indagine e il processo valutativo mediante il quale l’Autorità applica al caso concreto la regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla base di una corretta applicazione delle regole tecniche sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto diversamente vi sarebbe un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, titolare del potere esercitato”[3]
Il Consiglio di Stato con la pronuncia della Quinta Sezione n. 6256 del 27 dicembre 2013, ha per una volta invertito il “verso” del rapporto tra Giudice e Autorità, ponendo a presupposto della motivazione della propria sentenza una intervenuta pronuncia dell’Autorità con cui si sanzionava la ricorrente per abuso di posizione dominante.
2. Il caso di specie
La pronuncia in esame muove da una impugnativa promossa dall’incumbent ed attuale gestore del servizio di distribuzione del gas avverso il bando di gara indetto dal Comune di Prato finalizzato alla selezione, previo confronto concorrenziale, di un nuovo gestore del suddetto servizio pubblico.
In estrema sintesi, la ricorrente, a mezzo della propria impugnativa, si era lamentata, inter alia, dall’illegittimità in radice dell’avvio della procedura ad evidenza pubblica da parte del Comune, dal momento che l’ente locale non avrebbe potuto esperirla in ragione di specifiche norme in tema di riparto territoriale delle gestione del servizio, dall’applicazione delle quali discenderebbe una “moratoria” degli affidamenti fintanto che non siano bandite le gare per gli affidamenti da parte dei bacini ottimali (Atem) di cui all’art. 46-bis del d.l. n. 159 del 2007 e smi.
E’ di palmare evidenza quale fosse il fine ultimo dell’impugnativa, tesa quindi a procrastinare quanto più a lungo possibile (almeno fino all’indizione della gara da parte degli Atem) la permanenza dello status quo, cioè la proroga del proprio affidamento.
Tale intento dilatorio si è rivelato non di poco conto, divenendo invece dirimente per il definitivo giudizio sulla controversia.
In tema di proroghe degli affidamenti in essere, in effetti, il legislatore ha sovrapposto negli anni una frastagliata normativa di carattere transitorio che ha legittimato ondivaghe interpretazioni sull’argomento, con conseguente disorientamento sia per gli enti locali che per gli operatori economici del settore.
Il legislatore ha messo un punto nel 2011 allorquando con la modifica l’art. 24 comma 4 del D.Lgs. 93 del 2011 ha stabilito jure imperii che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto le gare per l’affidamento del servizio di distribuzione sono effettuate unicamente per ambiti territoriali di cui all’articolo 46-bis, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222.”.
La gara oggetto della controversia al vaglio di Palazzo Spada, d’altro canto, era stata indetta precedentemente a tale norma e prima di tale “stop” previsto dal legislatore (moratoria del tutto legittima dal punto di vista costituzionale[4]), il Consiglio di Stato, con la pronuncia oggi in commento, ha chiarito che “una volta scaduto il periodo di proroga della gestione unitaria del servizio di distribuzione del gas, il comune di Prato ha riacquistato per intero il più ampio spazio di libertà politica ed amministrativa in ordine alla scelta di gestione unitaria o collettiva del servizio in questione”.
E’ bene però sottolineare che un siffatto pronunciamento in odine alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio dalla ricorrente, avrebbe potuto essere del tutto omesso da parte del Consiglio di Stato, dal momento che l’intera impugnativa, a detta del Supremo Consesso Amministrativo, risulta essere affetta da improcedilità per carenza di legittimazione ad agire.
Tale è il tratto essenziale della sentenza, poiché la suddetta pronuncia di rito, come anticipato in premessa, prende le mosse e trova invero fondamento da una intervenuta pronuncia (delibera n. 23243 del 25 gennaio 2012, pubblicata nel Bollettino n. 4 del 13 febbraio 2012) dell’Antitrust in forza della quale il ricorrente è stato sanzionato “per abuso di posizione dominante, in relazione alla procedura oggetto del presente giudizio, condannandole al pagamento della pena pecuniaria di euro 276.132,00 (tale delibera non risulta sospesa o annullata)”.
Non di poco rilievo si appalesa una tale pronuncia, dal momento che, questa volta, è il giudice che, prendendo atto dell’esistenza di una provvedimento dell’Autorità indipendente su un aspetto rilevante della controversia ad esso devoluta, ne da per presupposti i contenuti, quale grimaldello per sindacare la legittimità della pretesa giurisdizionale azionata dal ricorrente.
3. La tutela degli interessi legittimi
In via generale, il Consiglio di Stato ha osservato che l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali (titolo, interesse ad agire, legittimazione attiva/passiva) che, valutate in astratto con riferimento alla causa petendi della domanda e non secundum eventum litis, devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione finale.
La Quinta Sezione aggiunge poi che la prima delle condizioni dell’azione, ovvero il c.d. titolo o possibilità giuridica dell’azione, cioè la posizione giuridica soggettiva configurabile in astratto da una norma come di diritto soggettivo o interesse legittimo, che ricomprende, secondo la comune opinione, la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo.
Soprattutto in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto e affidamenti di servizi, il tema della legittimazione al ricorso (o titolo) è declinato nel senso che tale legittimazione deve essere correlata alla circostanza che l’instaurazione del giudizio non appaia finalizzata a tutelare interessi illegittimi (cfr. da ultimo, sul principio generale e sulla sua applicazione in materia di gare di appalto, Cons. St., sez. V, 23 ottobre 2013, n. 5131; sez. V, 23 maggio 2011, n. 3084; sez. V, 12 febbraio 2010, n. 746; sez. V, 7 settembre 2009, n. 5244, cui si rinvia a mente degli artt. art. 74 e 120, co. 10, c.p.a.).
Tanto premesso in fatto, il Consiglio di Stato ha osservato che “Nella vicenda odierna, già sul piano astratto dell’ordinamento di settore, si coglie appieno il venir meno dell’interesse al ricorso proposto in appello dalle società: nessuna posizione di interesse legittimo è enucleabile dall’esame della causa petendi del ricorso delle due società perché essa si risolve, all’evidenza, nella richiesta di tutela di un interesse materiale contra ius, se messo in relazione alle norme ed ai principi comunitari e nazionali che tutelano i valori del libero mercato e della concorrenza, così come accertato dall’Autorità antitrust“.
Conclude poi il Collegio: “la disciplina europea e nazionale in materia di contratti pubblici mira alla tutela della libertà di impresa e di stabilimento e, per tale via, alla creazione di un mercato unico e non certo a favorire gli operatori già presenti sul territorio e affidatari di appalto o servizi senza gara, evitando di scoraggiare, se non di impedire, l’accesso al mercato da parte di nuovi competitori”.
4. Considerazioni conclusive
Dalla ricostruzione dell’iter argomentativo seguito dai Giudici di Palazzo Spada è agevole ritrarre alcuni innovativi insegnamenti di carattere sistematico e generale, dalla cui esegesi emergono importanti segni di mutamento degli assetti costituzionali che reggono i poteri dello Stato.
E’ innegabile che nel tempo le sempre maggiori competenze attribuite alle Autorità Indipendenti abbiano fatto il paio con la necessità di devolvere ad amministrazioni indipendenti, all’uopo costituite, la valutazione di aspetti economico/legali particolarmente complessi.
Le istruttorie condotte da tali autorità sono tese a emettere pareri e, se del caso, sanzionare comportamenti che siano in contrasto con il bene giuridico di cui la singola autorità è incaricata di tutelare.
L’esigenza di rango costituzionale è stata quella di alleggerire i Tribunali della Repubblica da cause che avevano ad oggetto valutazioni non “squisitamente” giuridiche (e che di certo avrebbero condotto il giudice a delegare ogni valutazione ad una Consulenza Tecnica), attraverso l’articolazione di amministrazioni che, adottando procedure istruttorie il più rispettose possibile dei principi di giusto procedimento e contraddittorio, potessero garantire un giudizio maggiormente competente su questioni complesse e spesso intimamente legate alla fenomenologia economica.
Negli anni il “peso” ed autorevolezza giuridica delle pronunce delle varie Autorità Indipendenti ha acquisito maggior peso anche in ragione delle crescenti competenze (non solo nel senso di attribuzioni) che le stesse andavo consolidando.
L’indirizzo ermeneutico ricordato in premessa circa la minore pervasività ed ampiezza che nel tempo il G.A. si è ritagliato circa il sindacato giurisdizionale delle valutazioni compiute dall’Antitrsut è chiaro specchio di un percorso di affermazione costituzionale delle Autorità Indipendenti.
Al crescere delle competenze e della precisione della valutazione della disputa da parte dell’amministrazione, sempre meno il giudice ha necessità di impingere nel merito della questione al vaglio dell’ente indipendente, residuando, in virtù del principio di ragionevolezza e proporzionalità, soltanto la valutazione giurisdizionale circa la corretta esecuzione dell’iter procedimentale e, in ultima istanza, il giudizio circa l’assenza di un arbitrio a base della motivazione del provvedimento conclusivo.
La sentenza oggi in commento, in conclusione, santifica tale indirizzo degli assetti costituzionali.
Legittimata la rilevanza e peso “istituzionale” delle pronunce dell’Antitrust, attraverso la statuizione per la quale un soggetto ricorrente che sia stato sanzionato da parte dell’Antitrust per un comportamento anticoncorrenziale non ha titolo di agire in giudizio per la tutela di un interesse illegittimo (che si sostanzia in una pretesa anticoncorrenziale), il “verso” del rapporto tra G.A. e Antitrust si inverte con quest’ultima che diventa presupposto per il decisum giurisdizionale.
Ciò che in particolare si appalesa come d’avanguardia, perciò stesso innovando il “verso” del rapporto tra Antitrust e G.A., è il presupposto da cui il Consiglio di Stato trae fondamento per la propria decisione: la pronuncia dell’Antitrust che attesta il comportamento anticoncorrenziale della ricorrente, quale realtà storica acquisita e di cui il G.A. deve tener conto per il proprio scrutinio giudiziale in ordine alla legittimità e fondatezza della pretesa azionata.
[1] CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE VI – Sentenza 12 febbraio 2007 n. 550
[2] Roberto Giovagnoli, Autorità indipendenti e tecniche di sindacato giurisdizionale: Testo scritto della Relazione tenuta al Convegno “Le Autorità amministrative indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati”, tenutosi presso la sede del Consiglio di Stato, il 28 febbraio 2013.
[3] Consiglio di Stato – Sez. VI – 13.09.2012 n. 4873
[4] CORTE COSTITUZIONALE – 7 giugno 2013, n. 134: “L’art. 24, c. 4 del d.lgs. 1° giugno 2011,n. 93 (Attuazione delle direttive 2009/72/CE, 2009/73/CE e 2008/92/CE relative a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, del gas naturale e ad una procedura comunitaria sulla trasparenza dei prezzi al consumatore finale industriale di gas e di energia elettrica, nonché abrogazione delle direttive 2003/54/CE e 2003/55/CE), nel prevedere la moratoria temporanea delle gare di affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale su base territoriale diversa dagli ambiti individuati, ai sensi dell’art. 46-bis del d.l. 159 del 2007, risponde alla ratio della delega (L. n. 96/2010), in quanto rende applicabile la nuova disciplina degli affidamenti, evitando il rinnovo delle concessioni su base comunale e, con esse, l’ulteriore frazionamento delle gestioni. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 76 della Costituzione.”