Questo articolo è valutato
( votes)Chi valuta l’utilità di un’opera pubblica? Sui piccoli interventi, di routine o di manutenzione, tutto va in automatico: la strada è rotta, si ripara; la piazza è decadente, si ristruttura. Tutti d’accordo. Ma quando un progetto prevede interventi che richiedono grandi investimenti o lo stravolgimento di un territorio, o entrambi? I contribuenti sono interessati a sostenere una spesa aggiuntiva per realizzare opere pubbliche che gravano sulla comunità e di cui probabilmente si potrebbe fare a meno, mentre esistono situazioni irrisolte da decenni? Piccole cose, come una scuola mai terminata in un quartiere di periferia. Piccole al cospetto dei grandi numeri messi in campo dalle grandi opere ma che sono tutt’altro che indifferenti per chi vive certe realtà cittadine. La vita vera è lì in quelle infrastrutture di cui alcuni quartieri sono ancora privi e non nel ponte sullo stretto di Messina. Pensiamo a risolvere i piccoli problemi di ogni piccolo giorno. Quando tutto sarà al suo posto passiamo ad un altro livello. Torniamo alla domanda iniziale: chi valuta l’utilità di un’opera pubblica? Risposta: Governi, Ministeri, ingegneri, industriali… E i cittadini? Viviamo l’era della condivisione, del “mi piace”. I social network hanno diffuso l’opportunità di espressione. Non se ne può restare indifferenti. I cittadini vogliono partecipare. Prendere parte in prima persona alle decisioni che li riguardano. Il dovere civico nell’epoca del web. Una riunione condominiale all’ennesima potenza. La tecnologia potrebbe dotarci di strumenti in grado di realizzare questa gigantesca riunione in pochi click e codici HTML. Il Governo Monti ci aveva provato. Sul numero 8/2012 di Mediappalti avevamo parlato della “consultazione pubblica sulle grandi opere”. Il titolo del nostro articolo era “Débat Public all’italiana”: ma che fine ha fatto? Ecco cosa scriveva il Sole 24 Ore il 31 ottobre dello stesso anno: “Il Governo manda in Parlamento la proposta di istituzione della consultazione pubblica per le grandi opere. È il confronto istituzionalizzato sul territorio di derivazione francese, il débat public, che dovrebbe aiutare a ridurre i tempi di approvazione delle infrastrutture e contrastare l’effetto Nimby, cioè la ribellione delle popolazioni locali contro la realizzazione delle infrastrutture”. Una delle questioni che avevano portato ad immaginare l’introduzione di questo strumento era la TAV Torino Lione. La consultazione pubblica avrebbe ufficializzato la posizione di chi si oppone alla realizzazione della tratta. E invece è tutto ancora lì. I cantieri da una parte, la protesta dall’altra. I tempi si allungano e luce in fondo al tunnel non si vede.
I tempi. Opere come queste richiedono lunghi anni di lavoro, anni che potrebbero vanificare i progetti. Cambiano le tecnologie, cambiano le necessità. Un’opera che un tempo poteva sembrare la migliore soluzione per tutti, al taglio del nastro inaugurale potrà essere obsoleta. Risultato: l’investimento di ingenti capitali per qualcosa che nasce ed è già superara. Inutile. E’ il rischio che la TAV (ad esempio) porta dentro se stessa. La stampa francese avverte che “dopo vent’anni, il traffico tra Lione e Torino è fermo o addirittura in declino. Le ragioni sono tante: la deindustrializzazione dei due paesi, la fine della crescita, la costosa apertura dei tunnel ferroviari svizzeri e una maggiore efficienza della linea stradale. Motivi – scrive Remy Prud’homme di Les Echos- che non sono destinati a scomparire nei prossimi anni”.
Chi valuta l’utilità di un’opera pubblica? Chiunque sia (Governi, Ministeri, ingegneri, industriali, cittadini) deve imparare ad essere lungimirante. A proiettarsi nel futuro. A valutare tutte le possibili scelte a “non escludere troppo presto l’alternativa del miglioramento della linea esistente” come affermava nell’estate del 2012 la Corte dei Conti francese, sempre in tema TAV.