Questo articolo è valutato
( votes)Nota a CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sez. V, sentenza 10 ottobre 2013, in causa C 94/12
“Gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, letti in combinato disposto con l’articolo 44, paragrafo 2, della medesima direttiva, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale come quella in discussione nel procedimento principale, la quale vieta, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese” (La Corte di Giustizia U.E., Sez. V, sentenza 10 ottobre 2013, in causa C‑94/12).
1. Il caso
La Provincia di Fermo bandiva una procedura di aggiudicazione per l’appalto di lavori di ammodernamento ed ampliamento di una strada provinciale. Nell’ambito di detta procedura i concorrenti dovevano dimostrare le relative capacità tecniche e professionali, presentando un’attestazione SOA corrispondente alla natura e all’importo dei lavori oggetto dell’appalto. La mandataria di un raggruppamento temporaneo di imprese partecipante, al fine di soddisfare il requisito relativo alla classe di attestazione SOA necessaria, si avvaleva delle attestazioni SOA di due imprese terze. La Stazione appaltante provvedeva all’esclusione dell’RTI sulla scorta del divieto generale di avvalimento plurimo all’interno della medesima categoria di qualificazione, codificato dall’articolo 49, 6 co., del d.lgs. n. 163/2006 e s.m.i. (d’ora in poi “Codice”). Avverso la propria esclusione l’RTI proponeva ricorso al TAR Marche, il quale sospendeva il giudizio e sottoponeva alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Se l’articolo 47, paragrafo 2 della direttiva [2004/18] debba essere interpretato nel senso che osti, in linea di principio, ad una [norma] di uno Stato membro, come quella (…) di cui all’articolo 49, comma 6, del decreto legislativo n. 163/2006, la quale vieta [agli operatori economici partecipanti ad una gara per l’aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori], tranne casi particolari, di avvalersi di più di un’impresa ausiliaria (…) per ciascuna categoria di qualificazione[, fatta salva la circostanza che il] bando di gara può ammettere l’avvalimento di più imprese ausiliarie in ragione dell’importo dell’appalto o della peculiarità delle prestazioni (…)».
2. L’avvalimento nei lavori pubblici ante pronuncia
Con riferimento all’avvalimento nel settore dei lavori pubblici, l’art. 49, co. 1, del Codice ammette l’avvalimento in occasione della singola gara anche per i lavori pubblici, consentendo il ricorso all’attestazione SOA di un altro soggetto.
Il successivo co. 6, primo periodo, del richiamato art. 49 del Codice stabiliva, almeno fino all’interevento della Corte di Giustizia, che “Per i lavori, il concorrente può avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione”, salvo che il bando di gara ammetta l’avvalimento di più imprese ausiliare a causa dell’importo dell’appalto o della peculiarità delle prestazioni (cfr. secondo periodo dello stesso comma 6 dell’art. 49). La medesima disposizione, inoltre, specifica che resta fermo “il divieto di utilizzo frazionato per il concorrente dei singoli requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di cui all’articolo 40, comma 3, lettera b), che hanno consentito il rilascio dell’attestazione in quella categoria”.
Sulla base di tale disposizione, è stato, quindi, ritenuto[1] che il divieto di utilizzo frazionato dei requisiti debba essere interpretato sia come divieto di avvalersi di più imprese ausiliarie per ciascuna categoria di qualificazione sia come divieto di frazionamento del singolo requisito fra impresa ausiliata ed ausiliaria. Con la conseguenza che non potevano essere utilizzate più imprese ausiliarie per provare cumulativamente una categoria, fatta salva l’eccezione prevista dalla norma.
Si riteneva, dunque, che l’avvalimento incontrava dei limiti per così dire oggettivi: nell’ambito della possibilità per l’impresa principale di ricorrere ad un’impresa ausiliaria in ordine a determinati requisiti di cui era sprovvista, non era possibile avvalersi di più imprese ausiliarie sommando così i relativi requisiti. Secondo detto ragionamento, diversamente opinando, la stazione appaltante non avrebbe potuto disporre di alcun soggetto integralmente qualificato per eseguire la prestazione.
Tale conclusione sembrava confermata dalla circostanza che allorquando il legislatore ha voluto ammettere il frazionamento dei requisiti tra più soggetti ha introdotto una specifica disciplina, corredata di adeguate cautele per la stazione appaltante. A tal proposito, si richiamavano gli istituti del raggruppamento temporaneo di imprese e dei consorzi ordinari, in cui la ripartizione dei requisiti è sottoposta a regole stringenti e in cui, soprattutto, è disciplinato un regime di responsabilità delle imprese raggruppate o consorziate nei confronti della stazione appaltante che offre a quest’ultima adeguate cautele rispetto all’adempimento delle prestazioni previste nel contratto.
Se ne deduceva, poi, che il frazionamento dei requisiti non poteva ammettersi in assenza di una simile disciplina specifica, come nel caso dell’avvalimento. Si rilevava, pertanto, che l’avvalimento plurimo avrebbe potuto costituire una elusione proprio di quelle regole stringenti in tema di raggruppamenti e consorzi che il legislatore ha dettato quando ha voluto consentire il frazionamento stesso[2].
L’istituto dell’avvalimento, nella concezione precedente alla sentenza della Corte di Giustizia, non consentiva a soggetti singolarmente non in possesso dei requisiti sufficienti all’esecuzione dell’integrale prestazione di sommare le classifiche possedute in modo da “creare” un soggetto qualificato.
La logica sottesa a tale conclusione era quella di tutelare la stazione appaltante, dandole la certezza di selezionare un operatore privato in grado di eseguire correttamente il contratto posto a base di gara.
3. Il dictat della Corte di Giustizia
La decisione della Corte di Giustizia, con la asciuttezza che caratterizza le pronunce della Curia, ha spazzato via le poche certezze acquisite in tema di avvalimento.
Essa segna ancora una volta l’”errato” recepimento da parte del legislatore italiano della Direttiva europea in materia di appalti pubblici.
Si ricorda infatti che l’attuale formulazione dell’art. 49, co. 6, prima del sindacato della Corte di Giustizia nella sentenza del 10 ottobre 2013, è stata il frutto di un adattamento dell’originaria previsione del Codice degli Appalti ai dettami europei.
La “versione originaria” della norma, escludeva tout court l’utilizzo dell’avvalimento plurimo con riferimento sia agli appalti di lavori, che di servizi e forniture. Sicché la Commissione Europea con la procedura di infrazione prot. n. 2007/2309 del 30 gennaio 2008 aveva stigmatizzato tale disposizione, stante l’incompleta trasposizione delle direttive comunitarie nel Codice ed aveva espresso tutte le perplessità del caso sulla compatibilità comunitaria dell’art. 49, nella parte in cui consentiva ad un’impresa di avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascun requisito o categoria.
In particolare aveva rilevato che «gli articoli 47, par. 2 e 48, par. 3, della Direttiva 18/2004/CE, nonché l’art. 54, par. 5 e par. 6, della Direttiva 17/2004/CE, riconoscono agli operatori economici il diritto di avvalersi della capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami. Nessuna limitazione é prevista, e dunque consentita, da dette direttive, la sola condizione essendo quella di permettere all’amministrazione aggiudicatrice di verificare che il candidato/offerente disporrà delle capacità richieste per l’esecuzione dell’appalto».
Il legislatore italiano, con l’art. 1, co. 1, lett. n), n. 1 del d.lgs. n. 152/2008 (c.d. «Terzo decreto correttivo al Codice»), aveva provveduto a modificare la disposizione incriminata, prevedendo il divieto di avvalimento plurimo (vale a dire della possibilità di avvalersi di più imprese per una stessa categoria di qualificazione) ai soli appalti di lavori.
Ebbene, la Direttiva appalti ha come obiettivo primario la tutela del principio di libera concorrenza, da qui l’esigenza di garantire la massima partecipazione degli operatori nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
In tal quadro, l’avvalimento è il congegno principe per il perseguimento di detta finalità.
Come si legge nel testo della pronuncia sentenza in commento “gli artt. 47, co. 2, e 48, co. 3, della Direttiva n. 2004/18 non pongono alcun limite al suo utilizzo, consentendo espressamente che un concorrente possa “fare affidamento sulle capacità di altri soggetti“.
I Giudici comunitari hanno valorizzato l’uso sistematico del plurale nel testo normativo, concludendo che lo stesso non vieta affatto, in via di principio, di fare riferimento alle capacità di più soggetti terzi per soddisfare i requisiti di qualificazione richiesti dalla stazione appaltante.
“A fortiori – si legge ancora nella sentenza – tali disposizioni non istituiscono divieti di principio relativi alla possibilità per un candidato o un offerente di avvalersi delle capacità di uno o più soggetti terzi in aggiunta alle proprie capacità, al fine di soddisfare i criteri fissati da un’amministrazione aggiudicatrice“.
In proposito si deve osservare, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 18 delle sue conclusioni, che l’uso sistematico del plurale nelle succitate disposizioni indica che le stesse non vietano, in via di principio, ai candidati o agli offerenti di fare riferimento alle capacità di più soggetti terzi per comprovare che soddisfano un livello minimo di capacità. A fortiori, tali disposizioni non istituiscono divieti di principio relativi alla possibilità per un candidato o un offerente di avvalersi delle capacità di uno o più soggetti terzi in aggiunta alle proprie capacità, al fine di soddisfare i criteri fissati da un’amministrazione aggiudicatrice.
Il che già segna il superamento della tesi diretta ad escludere l’uso dell’avvalimento per conseguire il c.d. “cumulo parziale dei requisiti”.
Secondo la Corte di Giustizia è del tutto legittimo il ricorso all’espediente del “cumulo”, essendo possibile sommare le capacità di terzi soggetti ausiliari (uno, o più d’uno) alle capacità dell’impresa concorrente, al fine di soddisfare, attraverso il “cumulo” di referenze singolarmente insufficienti, il livello minimo di qualificazione prescritto dall’ente appaltante nella lex specialis di gara.
La Corte di Giustizia ha tratto un’ulteriore conferma della correttezza di tale approdo ermeneutico dall’art. 4, par. 2, della Direttiva 2004/18/CE, che legittima i raggruppamenti di operatori economici a partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici senza prevedere limitazioni relative al cumulo di capacità.
In tal senso, quindi, la Corte ha smentito per tabulas l’interpretazione nazionale dell’istituto, percorrendo il seguente ragionamento: se il cumulo di requisiti parziali è pacificamente praticabile in caso di raggruppamenti temporanei di imprese, analoga possibilità deve essere riconosciuta anche all’impresa concorrente che scelga il modello partecipativo dell’avvalimento.
La tesi tutta italiana del “divieto di cumulo parziale” è stata sconfessata dalla Corte, che non ha affatto percepito le diversità oggettive tra l’avvalimento e il raggruppamento temporaneo, viceversa rinvenute nei due istituti dai Giudici nazionali e che hanno determinato una diversificazione interpretativa e operativa.
Nell’ottica della Corte, sotto tale punto di vista, si tratta di due istituti aggregativi pro-competitivi, che, avendo in comune la stessa ratio, vanno applicati nella medesima maniera.
La Corte di Giustizia ha pertanto rilevato che, in linea di principio, la Direttiva 2004/18/CE consente senz’altro il ricorso all’avvalimento per ottenere il cumulo delle capacità parziali di più operatori economici e per soddisfare in tal modo i requisiti minimi imposti dall’amministrazione aggiudicatrice. E ciò al fine di assicurare la concorrenza nella misura più ampia possibile e facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese al mondo delle commesse pubbliche.
Inconferente è, secondo la Corte, la circostanza che “la valutazione del livello di capacità di un operatore economico, relativamente all’importo degli appalti pubblici di lavori accessibili per tale operatore, sia predeterminata in via generale nell’ambito di un sistema nazionale di certificazione o di iscrizione in elenchi è priva di rilevanza sotto questo aspetto“: infatti, la facoltà, accordata agli Stati di prevedere un tale sistema può essere attuata dai medesimi nel rispetto delle altre disposizioni di detta direttiva e dunque degli articoli 44, paragrafo 2, 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della stessa.
La Corte, d’altra parte, non nega in radice che si possano manifestare situazioni in cui – in considerazione dell’importo dei lavori o della peculiarità degli stessi – sia necessario prevedere che i requisiti debbano essere posseduti da un unico soggetto (o da un numero limitato di soggetti): si tratta comunque di ipotesi eccezionali che, in quanto tali, dovranno essere attentamente esaminate dalla Stazione Appaltante nel rispetto dei principi di concorrenza, ragionevolezza e proporzionalità che ne regolano l’operato.
A tal proposito si legge nella sentenza che:
“35 È pur vero che non si può escludere l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori. In un’ipotesi del genere l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici, ai sensi dell’articolo 44, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2004/18, laddove siffatta esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto dell’appalto interessato.
36 Tuttavia, poiché tale ipotesi costituisce una situazione eccezionale, la direttiva 2004/18 osta a che la summenzionata esigenza assurga a regola generale nella disciplina nazionale, come invece prevede una disposizione quale l’articolo 49, sesto comma, del decreto legislativo n. 163/2006.
37 La circostanza che, nella fattispecie, la valutazione del livello di capacità di un operatore economico, relativamente all’importo degli appalti pubblici di lavori accessibili per tale operatore, sia predeterminata in via generale nell’ambito di un sistema nazionale di certificazione o di iscrizione in elenchi è priva di rilevanza sotto questo aspetto. La facoltà, accordata agli Stati membri dall’articolo 52 della direttiva 2004/18, di prevedere un tale sistema può infatti essere attuata dai medesimi esclusivamente nel rispetto delle altre disposizioni di detta direttiva, segnatamente degli articoli 44, paragrafo 2, 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della stessa”.
3. Conclusioni
Il recente intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito la natura pro competitiva dell’avvalimento, e ha stigmatizzato l’apposizione di limiti e vincoli non coerenti con la Direttiva appalti.
Ad avviso dei Giudici della Corte di Giustizia la normativa italiana in materia di appalti pubblici è, dunque, contraria al Diritto dell’Unione europea nella parte in cui vieta ad un operatore economico di avvalersi, per eseguire un appalto di lavori, di referenze e requisiti appartenenti ad uno o più soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi.
Alla luce del primauté ovvero dellasupremazia del diritto comunitario (e delle sentenze della Corte che ne forniscono l’interpretazione autentica) sulla norma interna (ritenuta) incompatibile con il diritto europeo – sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria -, si deve concludere che il primo periodo dell’art. 49, co. 6 del Codice dovrà essere necessariamente disapplicato dal giudice nazionale in quanto confliggente con le disposizioni di cui agli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004.
Alla luce del primauté ovvero dellasupremazia del diritto comunitario (e delle sentenze della Corte che ne forniscono l’interpretazione autentica) sulla norma interna (ritenuta) incompatibile con il diritto europeo (sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria), si deve concludere che il primo periodo dell’art. 49, co. 6 del Codice dovrà essere necessariamente disapplicato dal Giudice nazionale in quanto confliggente con le disposizioni di cui agli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004.
[1] Cfr. AVCP, parere 2/2012.
[2] Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2011, n. 3565.