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Uno sguardo al recente panorama Giurisprudenziale ci consente qualche riflessione sulle indicazioni ricevute medio tempore a proposito di alcuni aspetti di indubbio interesse concernenti la natura giuridica dei soggetti privati che – tanto nella posizione di stazioni appaltanti, tanto nella veste di operatori economici partecipanti ad un appalto pubblico – gravitano sulla scena operativa, in stretta connessione reciproca.

Il Consiglio di Stato, con le sentenze n. 570 del 30.01.2013 e n. 387 del 23.01.2013, ha perciò aperto una finestra di osservazione non soltanto sulla natura dei soggetti stessi, ma altresì sul loro modus operandi che evidentemente, non può essere decontestualizzato rispetto alle vicende organizzative interne dei soggetti, essendo viceversa, piano di osservazione credibile ed accreditato.

È del 30.01.2013 la pronuncia n. 570 del Consiglio Stato, con la quale si pone l’accento sulle caratteristiche proprie del soggetto privato ai fini della qualificazione propria in termini di organismo di diritto pubblico, indagando se esso soddisfi specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, ed accertando che esso agisca in situazione di concorrenza sul mercato, poiché ciò è un indizio a sostegno del fatto che oggetto della mission aziendale non sia un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale; che detti bisogni siano di regola soddisfatti in modo diverso dall’offerta dei beni o servizi sul mercato e che si tratti di bisogni al cui soddisfacimento, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere una influenza dominante.

Il Consiglio di Stato premette che una società privata va a qualificarsi quale organismo di diritto pubblico se sussistono cumulativamente alcune precise condizioni: 1) che la società sia istituita per soddisfare specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2) che la stessa sia dotata di personalità giuridica; 3) che ancora, la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure alternativamente la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure, ancora alternativamente, il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà sia designata dallo Stato, dagli enti pubblici o da altri organismi di diritto pubblico (C.d.S., sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6835).

E’ stato sottolineato che per stabilire se un organismo soddisfi specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, occorre accertare che esso agisca in situazione di concorrenza sul mercato, poiché ciò è un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale; che detti bisogni siano di regola soddisfatti in modo diverso dall’offerta dei beni o servizi sul mercato e che si tratti di bisogni al cui soddisfacimento, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere una influenza dominante (Cass. Civ. SS.UU. 9 maggio 2011, n. 10068).

Perciò solo la dimostrazione che l’attività della società venga svolta con metodo non economico, senza rischio di impresa, e che la stessa opera in un mercato non concorrenziale, è utile al fine della qualificazione quale organismo di diritto pubblico: la circostanza che in concreto i compiti siano svolti non con metodo economico, ma mediante l’esercizio di una attività che non implichi assunzione del rischio di impresa può desumersi innanzitutto da una connotazione interna dell’assetto societario e – in particolare – dalla esistenza di relazioni finanziarie con l’ente pubblico che assicurano – secondo diverse modalità – la dazione di risorse in grado di consentire la permanenza sul mercato dell’organismo, nonché da un elemento esterno, indiziario, costituito dal contesto in cui l’attività viene esercitata e cioè dall’esistenza o meno di un mercato di beni e servizi oggetto delle prestazioni erogate.

Ovviamente parlare dell’esistenza o inesistenza di un mercato significa guardare alle caratteristiche dei beni e dei servizi offerti, i loro prezzi, nonché la presenza anche solo potenziale di più fornitori.

La Giurisprudenza comunitaria ci insegna su tale ultimo aspetto che quando si accerta l’inesistenza di un mercato concorrenziale idoneo, per le sue oggettive condizioni, ad indurre gli operatori economici a svolgere in quel settore la propria attività, ciò rappresenta certamente un rilevante elemento probatorio circa l’assenza del metodo economico e dunque dell’attività di impresa (cfr., tra le tante, Corte di giustizia CE, 10 maggio 2001, in cause riunite C-223/99 e C-260/99).

Si aggiunga inoltre che la Giurisprudenza comunitaria pur fornendo criteri interpretativi di rilievo nell’indagine che ci occupa (cfr. Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee sentenza 10 novembre 1998, causa C-360/96, Ge. Ar. e. Ge. Rh. co. BF. Ho. BV.), declina ai giudici nazionali la valutazione sull’esistenza o meno di un bisogno avente carattere non industriale o commerciale tenendo conto degli elementi giuridici e fattuali pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro a titolo principale, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonché il finanziamento pubblico eventuale dell’attività in questione (v. sentenza n. 373 del 27.2.2003 causa C-373/00; vedi altresì Cass. sez. un. n. 8225 del 2010).

La normativa vigente – che assieme alle indicazioni Giurisprudenziali è indizio e guida per valutazioni di volta in volta specificamente agganciate al caso concreto – è naturale punto di riferimento e ci suggerisce elementi distintivi di base imprescindibili; ci suggerisce che le «imprese pubbliche» sono le imprese su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante o perché ne sono proprietarie, o perché vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù delle norme che disciplinano dette imprese. Ci evidenziano ancora che l’influenza dominante è presunta quando le amministrazioni aggiudicatrici, direttamente o indirettamente, riguardo all’impresa, alternativamente o cumulativamente detengono la maggioranza del capitale sottoscritto; controllano la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall’impresa; hanno il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di vigilanza dell’impresa. (art. 3, comma 28, d. lgs. 163/2006).

La nozione di organismo pubblico, invece, e’ di origine comunitaria. L’articolo 1, lettera b) della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, stabilisce che per “organismo di diritto pubblico si intende qualsiasi organismo: istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale e avente personalità giuridica e la cui attività e’ finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione e’ soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali designati dallo Stato dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico“. Tale nozione e’ stata recepita nel nostro ordinamento giuridico dal Decreto Legislativo 25 febbraio 2000, n. 65, articolo 2  ed, infine, dal Decreto Legislativo 17 aprile 2006, n. 163, articolo 3, comma 26. Perciò le tre condizioni innanzi riportate devono essere soddisfatte integralmente perchè una società si qualifichi organismo di diritto pubblico (sentenza 15 gennaio 1998, causa C-44/96, Mannesman Anlagenbau Austria e a., nonché Corte di Giustizia 10/05/2001 n. 223).

Tra l’altro, qualora la società svolga attività promiscua – amministrativa e di impresa – è necessario assicurare il rispetto del principio di distinzione tra le due attività al fine di evitare che i vantaggi derivanti dall’operare come pubblica amministrazione possano essere trasposti nel settore in cui lo stesso soggetto svolge attività di impresa alterando così il principio di equiordinazione tra imprese pubbliche e private posto a presidio del rispetto delle regole della concorrenza (cfr., sia pure con riguardo a fattispecie diverse da quella in esame, Corte cost. n. 326 del 2008; Cons. Stato, Ad. plen., 4 agosto 2011, n. 17).

Queste riflessioni, potrebbero essere altresì ampliate e completate con la considerazione per la quale gli organismi di diritto pubblico non esauriscono certamente la gamma dei soggetti presenti sullo scenario degli appalti. Si considerino a mero titolo esemplificativo le società con capitale pubblico contemplate dall’art. 32 comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163 del 2006. Soggetto questo, anche non a maggioranza pubblicistica, diverso dall’organismo di diritto pubblico, che si caratterizza per il fatto che oggetto dell’attività è «la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza». L’elemento qualificante per ritenere che la società agisca nell’esercizio di poteri pubblici è in questo caso rappresentato dal fatto che, come risulta chiaramente dalla riportata definizione codicistica, la relativa attività non si inserisce in un mercato concorrenziale.

Con la seconda pronuncia del Consiglio di Stato, la numero 387 del 23.01.2013, i Giudici pongono l’attenzione sulla possibilità spettante all’operatore economico che agisce con assenza di finalità lucrativa, di partecipare o meno ad un appalto pubblico. Anche in tale circostanza l’indagine della Corte si sposta necessariamente sulla natura stessa del soggetto e sul modus operandi dello stesso.

La Corte, riformando la pronuncia di primo grado, rammenta – richiamando agli insegnamenti Comunitari – che l’assenza di finalità lucrative non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici; in particolare l’assenza di fini di lucro non esclude che associazioni di volontariato esercitino un’attività economica e costituiscano imprese ai sensi delle disposizioni del trattato relative alla concorrenza (C. giust. CE, sez. III, 29 novembre 2007 C-119/06).

Tanto più che la legge quadro sul volontariato, nell’elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa. Ecco perciò che appare perfettamente ragionevole l’ammissione delle associazioni di volontariato alle gare pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un’attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, anche se non lucrativa (Cons. St., sez. III, 20 novembre 2012 n. 5882).

I Giudici all’uopo non trascurano le pregresse valutazioni giurisprudenziali effettuate proprio sui contenuti delle norme, osservando che l’art. 5, della Legge n. 266/2001, nell’indicare le risorse economiche delle Onlus, menziona anche “entrate derivanti da attività commerciali e produttive marginali”, con ciò dimostrando di riconoscere la capacità delle Onlus di svolgere attività commerciali e produttive e, dunque, anche quella di partecipare a gare di appalto, quanto meno nei settori di specifica competenza. La norma fa riferimento ad attività imprenditoriali “marginali”, ma occorrerebbe dimostrare che la partecipazione dell’associazione all’appalto non abbia il carattere di marginalità (Cons. St., sez. VI, 30 giugno 2009 n. 4236).

Anche l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, originariamente restìa a favorire la partecipazione delle associazioni di volontariato alle gare di appalto, attesa la gratuità dell’attività di volontariato (Autorità, 31 gennaio 2008 n. 29, parere; Autorità, 29 dicembre 2008 n. 266, parere), ha successivamente modificato orientamento affermando che anche l’operatore economico soggetto senza fine di lucro che operi occasionalmente sul mercato o goda di finanziamenti pubblici può veder legittimamente garantita la propria partecipazione alle gare pubbliche (Autorità, 23 aprile 2008 n. 127, parere; Autorità, 20 ottobre 2010 n. 7, determinazione).

La Giurisprudenza perciò ha vinto l’obiezione che ammettere alle gare di appalto soggetti che fruiscono di finanziamenti pubblici altererebbe la par condicio tra i concorrenti, rilevando che:

a) il diritto comunitario non impedisce la partecipazione agli appalti di enti senza fini di lucro;

b) il diritto comunitario consente che possa partecipare a un gara di appalto un soggetto che fruisce di aiuti di Stato, e che in virtù di tali aiuti sia in grado di proporre un’offerta più bassa di quella di altri concorrenti, a condizione che si tratti di aiuto di Stato lecito (art. 87, c. 5, d.lgs. n. 163/2006); se ne desume che è legittimato a partecipare ad una gara un soggetto che fruisce di finanziamenti pubblici, se lecitamente conseguiti;

c) occorrerebbe la prova concreta che la Onlus sia in una posizione di vantaggio (Cons. St., sez. VI, 30 giugno 2009 n. 4236).

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Giuseppe Croce
Avvocato specializzato in materia di diritto civile e amministrativo, esperto in materia di appalti pubblici
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