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Con la sentenza del 17 luglio 2012, n. 199 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.L. 13.8. 2011, n. 138 (“Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”), convertito, con modificazioni, dalla L. 14.9.2011, n. 148, sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive e numerose modificazioni che, sia pure nel giro di pochi mesi, tale articolo ha subito.
Alla citata disposizione il legislatore statale aveva affidato, – trascorsi pochi mesi dall’abrogazione per via referendaria dell’art. 23-bis D.L. n. 112/2008 s.m.i (12 e 13 giugno 2011) -, la disciplina generale in tema di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, improntandola al perseguimento di obiettivi di liberalizzazione e di riduzione dei casi di affidamento “in esclusiva” del servizio[1]. La “nuova” normativa, tuttavia, a dispetto della stessa rubrica “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”, lungi dal tener conto dell’esito referendario, riproduceva quasi integralmente (differenziandosene principalmente per l’esclusione del servizio idrico integrato) il contenuto della disposizione abrogata (art. 23-bis cit.), suscitando sin da subito perplessità sul piano del rispetto dei principi costituzionali[2].
L'”ardua sentenza” giunge ben presto, censurando la condotta del legislatore statale e spazzando via l’ennesimo tentativo di dettare una disciplina generale, unitaria e “prevalente” per il settore.
In particolare, la pronuncia della Corte Costituzionale in commento determina una situazione analoga a quella creatasi all’indomani dell’abrogazione dell’art. 23-bis cit.: all’assenza di una disciplina statale di carattere generale (quale era quella dettata dall’art. 4 cit.) si sopperisce tramite il richiamo ai principi generali dell’ordinamento comunitario e alla preesistente legislazione di settore, riguardante i singoli servizi pubblici locali.
1. Le motivazioni della pronuncia
Con la sentenza in esame la Corte si pronuncia sui ricorsi presentati dalle regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna, che, sulla base di diverse motivazioni, impugnavano la disciplina di cui all’art. 4 cit.[3].
Il principale motivo di impugnazione, poi condiviso, peraltro, dalla Corte, si incentra sulla riproduzione nell’art. 4 cit., da parte del legislatore, delle norme che erano state sottoposte a referendum abrogativo e che, in conseguenza dello stesso, erano state oggetto di abrogazione (art. 23-bis cit. e relative disposizioni attuative).
Tale modus procedendi del legislatore costituisce, secondo la Consulta, piena violazione del divieto di riproposizione delle norme abrogate tramite referendum, desumibile dall’art. 75 della Costituzione[4], disciplinante l’istituto del referendum popolare abrogativo. Il legislatore statale, con l’art. 4, ha quindi leso indirettamente le competenze costituzionali attribuite alle regioni in materia di servizi pubblici locali.
A tale riguardo, la Corte specifica che il vincolo in questione, non codificato bensì dedotto in via interpretativa dall’art. 75 citato, si giustifica “in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto”[5].
L’art. 4 D.L. 138/2011 s.m.i., recante la disciplina generale e “prevalente” dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, è illegittimo per violazione dell’art. 75 della Costituzione in tema di referendum popolare (Corte Costituzionale n. 199/2012).
Nel caso di specie, in particolare, la Corte ritiene fondata la questione d’illegittimità proposta in quanto, a distanza di poco meno di un mese dalla pubblicazione del D.P.R. dichiarativo dell’abrogazione dell’art. 23-bis cit.[6], l’impugnato art. 4 ha dettato una disciplina “che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni“.
Nonostante l’esclusione dall’ambito di operatività della riforma del servizio idrico, risulta evidente, a parere della Corte, l’analogia delle due discipline e l’identità della ratio ispiratrice, con conseguente violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 della Costituzione sopra menzionato.
In tale ottica la norma impugnata è inoltre “potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni”, giacché “la reintroduzione da parte del legislatore statale di una regolamentazione ancor più restrittiva, frutto di un’interpretazione ancor più estesa dell’ambito di operatività della materia della tutela della concorrenza di competenza statale esclusiva” lede la potestà legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici e la relativa competenza regolamentare degli enti locali, che si era, invece, “riespansa” con l’abrogazione dell’art. 23-bis cit..
2. Gli effetti sui rapporti pendenti e futuri
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge è disciplinata dall’art. 136 della Costituzione, ai sensi del quale la norma dichiarata illegittima “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione“[7].
La dichiarazione in parola, dunque, si risolve in un “ordine” al legislatore e agli amministratori di non applicare più la norma illegittima. Secondo consolidata giurisprudenza, la cessazione dell’efficacia comporta la disapplicazione della norma dichiarata incostituzionale, con conseguente caducazione degli effetti “non definitivi” prodottisi antecedentemente e, nei rapporti ancora in corso di svolgimento, degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza, “restando fermi soltanto quegli effetti anteriori che abbiano definitivamente conseguito la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti” (Cass. Civile n. 1384/1975). Sono pertanto fatti solo salvi i “diritti quesiti” e i “rapporti “esauriti”[8], mentre l’art. 4 cit. non troverà più applicazione per i rapporti che sorgeranno in futuro e – retroattivamente – per i rapporti sorti in passato e ancora in essere[9].
Un simile effetto di travolgimento del passato e del futuro fa sì che, in concreto, si verifichi una situazione analoga a quella che si sarebbe verificata “se” l’art. 4 non fosse mai stato adottato, fin dall’origine.
Ciò tanto più se si considera che l’illegittimità – come precisato dalla Corte – si estende anche a tutte le modifiche apportate nel tempo all’art. 4 (quali quelle di cui all’art. 9 L. n. 183/2011, art. 25 D.L. 1/2012, art. 53 D.L. 83/2012), da ritenersi, pertanto, anch’esse venute meno[10].
Al di fuori delle eccezioni sopra viste, gli atti fondati sulla disposizione illegittima possono essere annullati dal Giudice amministrativo, anche d’ufficio, ossia in assenza di specifica eccezione di incostituzionalità da parte dei soggetti interessati (cfr. Consiglio di Stato n. 3997/2009; Tar Puglia – Lecce n. 926/2010[11]).
Stante l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale, secondo giurisprudenza consolidata, i provvedimenti emanati sulla base della disposizione illegittima che siano al vaglio del Giudice amministrativo devono essere annullati, anche in assenza di specifica eccezione di parte.
3. Il quadro normativo attuale
3.1 Principi e norme comunitarie, nazionali, regionali di settore.
Come già osservato dalla Corte Costituzionale, sia pure in relazione al precedente art. 23-bis cit., il venire meno della disciplina statale generale comporta la piena applicazione, nell’ambito dell’ordinamento nazionale, della disciplina comunitaria relativa alle regole concorrenziali “minime” in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica (sentenza n. 24/2011).
La disciplina dei servizi pubblici locali dettata dal legislatore statale (prima con l’art. 23-bis cit., poi con l’art. 4 cit.), infatti, intanto trovava applicazione con prevalenza sulle norme comunitarie meno restrittive in quanto, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 325/2010), si trattava di una disciplina avente carattere “pro-concorreziale”[12].
Venuta meno tale disciplina, in forza della sentenza costituzionale n. 199/2012 in commento, si “riespande” la normativa comunitaria e con essa la preesistente normativa nazionale e regionale di settore.
Non sono, invece, investite dalla sentenza le discipline inerenti la distribuzione del gas, la distribuzione di energia elettrica, il servizio idrico e la gestione delle farmacie comunali – già espressamente escluse dall’applicazione dell’art. 4 cit..
BOX: Venuta meno, in forza della sentenza costituzionale n. 199/2012, la disciplina generale di emanazione statale si “riespande” la normativa comunitaria e con essa la preesistente normativa nazionale e regionale di settore.
Il quadro normativo che ne deriva si caratterizza come meno restrittivo del precedente, specie per quanto riguarda la disciplina dell’affidamento in house e del regime transitorio[13].
Per quanto riguarda l’affidamento in house, ai fini della legittimità di tale modalità di affidamento diretto, è oggi sufficiente la mera osservanza dei requisiti a tal fine richiesti dalla disciplina comunitaria (“controllo analogo” e “attività prevalente”) ed eventualmente dalla disciplina di settore.
Al contrario, l’art. 4 cit. imponeva agli enti affidanti, al riguardo, il rispetto di requisiti ulteriori[14], ammettendo l’affidamento in house solo se:
- il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento fosse non superiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui[15];
- la società affidataria avesse capitale interamente pubblico[16].
Quanto alle altre modalità di affidamento dei servizi, l’affidamento tramite gara resta la modalità ordinaria e privilegiata mentre l’affidamento tramite cd. gara “a doppio oggetto”, in favore di società miste, rimane ammissibile pur tuttavia senza il rispetto del limite minimo di partecipazione, per il partner privato, del 40%, e delle altre prescrizioni in tema di predisposizione del bando di gara invece previste dal decaduto art. 4, comma 12, cit..
Al riguardo e più in generale deve rilevarsi come il venir meno per gli enti locali degli adempimenti relativi alla cd. “delibera quadro” (v. art. 4, commi 1-4, cit.), tra cui quelli relativi al controllo dell’AGCM, comportano non solo una indubbia semplificazione nel sistema degli affidamenti, bensì anche un’inversione del favor legislativo che prima pareva diretto verso la “concorrenza nel mercato” (liberalizzazione piena) ed oggi, invece, pare nuovamente assestato sulla “concorrenza per il mercato” (gara per l’affidamento di diritti di esclusiva)[17].
Si dubita ancora oggi, invece, dell’ammissibilità del ricorso all’azienda speciale se il servizio abbia rilevanza economica, salvo espresse previsioni in tal senso nelle discipline di settore[18].
Per quanto riguarda, invece, il regime transitorio, viene meno la previsione ai sensi della quale gli affidamenti diretti in essere, non conformi alle prescrizioni dell’art. 4 cit., sono destinati a ravvicinate scadenze temporali, operanti ex lege e a prescindere da apposite delibere degli enti affidanti (v. art. 4, comma 32, cit.), con la conseguenza che, allo stato, per la sorte degli affidamenti diretti in essere dovrà aversi riguardo a quanto eventualmente prescritto dalle normative di settore[19]. Certo è che gli affidamenti legittimi a società in house o miste possono proseguire fino alla scadenza naturale senza necessità di alcun adempimento da parte dei Comuni.
Gli enti affidanti perdono inoltre la possibilità di beneficiare della deroga – e né più vi avrebbero interesse – rispetto alle scadenze sopra citate prevista dall’art. 4, comma 32, lett. a), cit., in caso di integrazione operativa entro il 31.12.2012 fra le preesistenti gestioni dirette o in economia, tale da individuare un unico gestore d’ambito ai sensi dell’art. 3 bis D.L. 138/2011 s.m.i..
Con la pronuncia in commento cadono, inoltre, le rigide previsioni relative al divieto di attività extra moenia (art. 4, comma 33, cit.) nonché quelle, in tema di incompatibilità, volte a garantire la separazione tra funzioni di regolazione e funzioni di gestione (art. 4, commi 19-27, cit.).
3.2. Art. 3-bis D.L. n. 138/2011 s.m.i..
Il giudicato della Corte circa l’illegittimità dell’art. 4 D.L. n. 138/2011 s.m.i. non si estende all’art. 3-bis del medesimo decreto che impone a regioni e province autonome di organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica definendo il perimetro degli “ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei” – in modo da creare economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio – e istituendo o designando gli “enti di governo” degli stessi.
L’art. 3-bis cit., inoltre, contiene disposizioni chiaramente volte a disciplinare l’affidamento del servizio, incentivando il ricorso a mezzi di tutela occupazionale nonché alle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del gestore[20].
La disposizione in oggetto prevede altresì l’assoggettamento delle società in house ai vincoli derivanti dal patto di stabilità interno nonché alle procedure, in tema di acquisito di beni e servizi, di cui al Codice dei contratti Pubblici[21].
Tale disposizione deve pertanto ritenersi pienamente vincolante sebbene:
- nella parte in cui prescrive la costituzione di bacini o ambiti territoriali e la designazione dei rispettivi enti (comma 1), da compiersi entro il termine del 30.10.2012, possa essere derogata da parte delle regioni che abbiano già avviato tali azioni con leggi regionali preesistenti;
- laddove prevede la costituzione di “enti di governo” vada raccordata con quanto previsto al riguardo dalla “Spending review“[22];
- trattasi di una disposizione concepita – anche sotto il profilo temporale – in relazione alla disciplina dettata dall’art. 4 oggi dichiarato illegittimo[23] e non avente espresso carattere “prevalente” (a differenza dell’art. 4 cit.) rispetto alle discipline di settore nonché soggetta, allo stato, ad impugnativa giurisdizionale[24].
L’illegittimità dell’art. 4 D.L. n. 138/2011 s.m.i. non si estende all’art. 3-bis del medesimo decreto che impone a regioni e province autonome di organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica definendo il perimetro degli “ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei” e istituendo o designando gli “enti di governo” degli stessi.
4 Conclusioni
Dall’esame delle argomentazioni poste a supporto della pronuncia costituzionale in commento è agevole desumere che, ai fini della ritenuta illegittimità, decisiva è stata la considerazione del brevissimo lasso di tempo intercorso rispetto all’abrogazione della precedente normativa di cui l’art. 4 cit. riproduceva in contenuto.
All’oggettivo dato temporale si è affiancata, peraltro, la considerazione dell’assenza, in tale breve intervallo, di condizioni politiche o di fatto che avrebbero pure potuto legittimare il legislatore a superare il divieto di ripristino della normativa abrogata.
Il Giudice Costituzionale non “chiude” dunque la porta ad una disciplina generale dei servizi pubblici locali con caratteristiche simili a quella ora dichiarata illegittima, ma, al contempo, ne ammette un’eventuale “ripetizione” solo a distanza di un adeguato arco temporale e, comunque, a seguito di rilevanti mutamenti del quadro politico o regolatorio idonei a giustificare un simile intervento[25].
Almeno nel breve periodo, pertanto, l’auspicio è che il legislatore statale, anche in omaggio ai principi di certezza del diritto – sovente trascurati -, ove intenda intervenire nella materia dei servizi pubblici locali, non si ostini a partorire (e sistematicamente “correggere”) provvedimenti di portata generale – “coraggiosi” ma alla, prova dei fatti, destinati ad esiti fallimentari – per adottare, piuttosto, misure che tengano conto delle specificità di ciascun settore, nonché per predisporre mezzi ed incentivi idonei a garantire l’applicazione concreta di quei principi, a tutela della concorrenza e dell’efficienza gestionale, che l’ordinamento, ormai da tempo, già sancisce.
[1] L’art. 4, oggi dichiarato incostituzionale, nell’ottica della liberalizzazione piena dei servizi, si spingeva sino a privilegiare, nel settore dei servizi pubblici locali, forme di concorrenza “nel mercato” (caratterizzate dall’assenza di “diritti di esclusiva” nella gestione dei servizi), imponendo agli Enti locali competenti l’obbligo di giustificare, tramite apposita “delibera quadro”, i casi in cui si fossero limitati a prevedere meccanismi di concorrenza “per il mercato” (ossia la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento al soggetto aggiudicatario del diritto di gestire in esclusiva il servizio).
[2] Il Giudice Costituzionale aveva, infatti, già in passato avuto modo di pronunciarsi sul “divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare” (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 468/1990 e n. 32/1993).
V., al riguardo,F. Scura, La “nuova” disciplina dei servizi pubblici locali nella “manovra di Ferragosto” in http://www.dirittodeiservizipubblici.it/articoli/articolo.asp?sezione=dettarticolo&id=451
[3] Tra i citati motivi di impugnazione si rammentano, in estrema sintesi, i seguenti:
• compressione, ad opera della legge statale, dell’autonomia degli enti locali in materia (artt. 5, 114, 117 e 118 Cost.), con par degli stessi colare riguardo alle potestà di disporre affidamenti in house;
• violazione del principio di neutralità di cui all’art. 345 TFUE e del principio della c.d. preemption, dell’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (che prevede il pluralismo delle fonti);
• violazione della volontà popolare espressa dal referendum.
Per contro, il Governo assumeva che l’art. 4 cit. ha una diversa ratio rispetto all’abrogato art. 23-bis D.L. n. 112/2008: “mentre quest’ultima disposizione mirava alla realizzazione di una sistema di concorrenza per il mercato, il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138 del 2011 sarebbe diretto alla realizzazione di un sistema di concorrenza nel mercato”; evidenziava inoltre la “necessità, condivisa a livello comunitario, di garantire uno sviluppo economico maggiore mediante la promozione della concorrenza e la liberalizzazione delle attività e dei servizi aventi rilevanza economica” cosicché “ha dovuto rimediare al vuoto normativo venutosi a creare con il referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011 (art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008), avendo comunque cura di tutelare settori particolarmente sensibili nel rispetto della volontà popolare”.
[4] Ai sensi della richiamata disposizione, “E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80].
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum.”.
[5] Il Giudice costituzionale aveva già in passato avuto modo di “difendere” lo strumento del referendum popolare, evidenziandone la “peculiare natura (…) quale atto-fonte dell’ordinamento. A differenza del legislatore che può correggere o addirittura disvolere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta una volontà definitiva e irripetibile” (sentenza n. 468/1990).
[6] V. D.P.R. 18.7.2011 n. 113, pubblicato in G.U. 20.7.2011 n. 167, “Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto- legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni , dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni , nel testo risultante a seguito del la sentenza del la Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
[7] Ai sensi dell’art. 136 della Costituzione, “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.”.
[8] V. altresì Consiglio di Stato n. 5479/2009 e n. 8056/2006. Secondo giurisprudenza dominante, possono considerarsi “rapporti esauriti” solo i rapporti definitivamente consolidati, ad esempio per l’intervento di una sentenza passata in giudicato ovvero per lo spirare di un termine di decadenza prescrizione.
[9] Nella prassi si rileva una esigua, se non inesistente, attività di attuazione, da parte degli Enti locali, degli adempimenti disposti dal citato art. 4, posto che i termini ivi previsti a tale fine (ad esempio, quello relativo alla adozione della cd. “delibera quadro”, nonché i termini riguardanti il regime transitorio e, quindi, la cessazione degli affidamenti diretti, ossia assentiti in assenza di procedura ad evidenza pubblica) sono stati più volte prorogati da legislatore statale e, comunque, non erano ancora decorsi al momento dell’adozione della sentenza della Corte Costituzionale in commento.
Considerato, quindi, che il processo di liberalizzazione di cui all’art. 4 era ancora in fase embrionale al momento della dichiarazione di illegittimità costituzionale, sembrerebbe doversi escludere la sussistenza di rapporti o effetti “esauriti” o “definitivi”, cui continuerebbe ad applicarsi l’art. 4 cit., riconoscendo pertanto il più ampio raggio di efficacia della predetta illegittimità con conseguente disapplicazione della norma in oggetto.
In particolare, venendo meno, a seguito della sentenza n. 199/2012, la prevista procedura sulla cd. “delibera quadro” con eventuale parere dell’AGCM, la stessa risulta irrilevante anche per le amministrazioni che si erano attivate, che stavano inviando le richieste all’Autorità e per quelle che avevano ricevuto i pareri, anche negativi, da parte della AGCM stessa. Cfr. sul punto ANCI, Prime osservazioni sull’affidamento dei Servizi Pubblici Locali di rilevanza economica alla luce della Sentenza della Corte Costituzionale del 20 luglio 2012 n. 199.
[10] Si rammenta in proposito che non si è pervenuti alla approvazione definitiva del Regolamento attuativo dell’art. 4 D.L. n. 138/2011 s.m.i., sia pure essendo stata la relativa bozza in corso di approvazione: rispetto ad essa aveva espresso parere la Conferenza unificata Stato Regioni (19.4.2012) nonché il Consiglio di Stato (11.6.2012). Cfr. Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 33-ter, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, recante i criteri per la verifica della realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, per l’adozione della delibera quadro nonché disposizioni attuative per il progressivo miglioramento, mediante un sistema di benchmarking, della qualità ed efficienza di gestione dei medesimi servizi, ed ulteriori necessarie misure di attuazione, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it/legislazione/provvedimento.asp?sezione=dettprov&id=771
[11] Cfr. Consiglio di Stato n. 3997/2009 secondo cui “… il giudice deve applicare d’ufficio, nei giudizi pendenti, le pronunce di annullamento della Corte Costituzionale, con conseguente possibilità di superare i limiti che derivano dalla struttura impugnatoria del processo amministrativo e dalla correlata specificità dei motivi”. Id., n. 4002/2009.
[12] La stessa sentenza ha precisato che l’introduzione, attraverso il suddetto art. 23-bis, di regole concorrenziali (come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici) più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione europea non è imposta dall’ordinamento comunitario «e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost. […], ma neppure si pone in contrasto […] con la […] normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri».
[13] Si cita al riguardo il caso del trasporto pubblico locale, caratterizzato adesso dalla piena applicazione del Regolamento CE 1370/2007 e del D.Lgs. n. 422/1997, cd. “Decreto Burlando”; ovvero il caso del servizio di gestione dei rifiuti, tornato ad essere disciplinato dal D.Lgs. n. 152/2006, cd. “Codice dell’ambiente”.
[14] Ai sensi del comma 13 dell’art. 4, oggi dichiarato illegittimo, “In deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12 se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione cosiddetta «in house». Al fine di garantire l’unitarietà del servizio oggetto dell’affidamento, è fatto divieto di procedere al frazionamento del medesimo servizio e del relativo affidamento.”.
[15] Tale limite quantitativo persiste, invece, con riguardo alle società che gestiscono servizi strumentali, ai sensi dell’art. 4, comma 8, del D.L. 6.7.2012 n. 95 (“Spending review”) che ha, da ultimo, previsto il citato limite dei 200.000 euro per tutti gli affidamenti “in house” a decorrere dal 1.1.2014, forse proprio con l’intento di uniformare tale disciplina a quella – ormai non più esistente – prevista per i servizi pubblici locali.
[16] Al riguardo si rammenta, invece, come la normativa comunitaria disciplinante l’affidamento dei servizi pubblici di trasporto ammetta la legittimità dell’affidamento in house anche in favore società con capitale misto (v. Reg. CE 1370/2007, art. 5).
[17] Nel caso del trasporto pubblico locale, torna ad essere decisiva l’indicazione contenuta nella disciplina di settore nazionale (D.Lgs. 422/97) e comunitaria (Regolamento 1370/07) che individua nella gara, e dunque nella “concorrenza per il mercato”, la modalità ordinaria di affidamento dei servizi in presenza di obblighi di servizio pubblico, ferma restante la possibilità, sempre esistita per gli enti locali, di optare per un regime di concorrenza piena per alcuni servizi o linee di natura commerciale.
[18] La Corte Costituzionale sembra negare tale possibilità con riguardo ai servizi di rilevanza economica (cfr. sentenza n. 325/2010, secondo cui nel sistema interno vige “il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003) e nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente previsti.)”. Cfr., tuttavia, Consiglio di Stato, 26.1.2011 n. 552, secondo cui: “Nessuna norma obbliga i comuni ad affidare all’esterno determinati servizi (illuminazione pubblica, centri assistenziali, case di accoglienza, case di riposo, case famiglia, assistenza domiciliare per anziani ed handicappati, asili nido, mense scolastiche, scuola-bus, biblioteche, impianti sportivi: tutti servizi che, notoriamente, gran parte dei comuni italiani gestiscono direttamente, senza appaltarli a privati), ove preferiscano amministrarli in via diretta e magari in economia, mentre, nel caso di una differente scelta, il discusso conferimento a terzi deve avvenire tramite gara rispettosa del regime comunitario di libera concorrenza. Né si vede per quali motivi un ente locale debba rintracciare un’esplicita norma positiva per poter fornire direttamente ai propri cittadini un servizio tipicamente appartenente al novero di quelli per cui esso viene istituito.”
[19] Nel caso del trasporto pubblico locale, espunto dall’ordinamento nazionale l’art. 4 cit., non residuano norme interne che disciplinano la fase di transizione verso le modalità di affidamento previste a regime in maniera diversa dalle regole comunitarie dettate dall’art. 8 del Regolamento 1370/07, che prevede la possibilità per gli enti competenti di conformarsi “gradualmente” ai principi concorrenziali entro il 3.12.2019. Allo stesso tempo, le modalità e i tempi entro i quali le autorità competenti possono avvalersi del suddetto periodo transitorio dovrebbero essere opportunamente specificate da ciascuna Regione con propri atti normativi o deliberativi.
[20] Nello specifico l’art. 3-bis ai successivi commi prevede quanto segue:
– “l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione costituisce elemento di valutazione dell’offerta” (comma 2);
– “A decorrere dal 2013, l’applicazione di procedura di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi ai sensi dell’articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111…” (comma 3);
– “Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’articolo 119, quinto comma, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa.” (comma 4).
[21] Trattasi di disposizioni dal contenuto analogo a quelle previste nell’art. 4 D.L. 138/2011 s.m.i. (v. art. 4, commi 15, 16, 17): sotto tale profilo ci si potrebbe, dunque, chiedere se le stesse siano o meno toccate dalla dichiarazione di incostituzionalità in commento.
[22] Cfr. art. 9 D.L. 6.7.2012 n. 95, “Razionalizzazione amministrativa, divieto di istituzione e soppressione di enti, agenzie e organismi“.
[23] A riguardo si rammenta infatti che il ravvicinato termine del 30 giugno scorso (in gran parte non osservato), previsto per l’organizzazione dei servizi in bacini o ambiti e per la designazione dei relativi enti di governo, si giustificava alla luce del percorso previsto dal successivo art. 4 cit. (effettuazione della verifica di mercato e adozione della relativa delibera prevista per il 13.8.2012, cessazione del periodo transitorio prevista dal 31.12.2012).
[24] Sull’art. 3-bis (eccetto il comma 1 relativo all’organizzazione in ambiti o bacini ottimali) pende il ricorso per illegittimità costituzionale depositato dalla Regione Veneto lo scorso 29.5.2012 (ricorso n. 83/2012 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 26 del 27 giugno 2012) con cui si censura la violazione delle norme costituzionali disciplinanti le competenze regionali e locali (artt. 117 e 118 della Cost.).
[25] Come osservato dalla Consulta nella sentenza in commento, “tale vincolo è, tuttavia, necessariamente delimitato, in ragione del suo carattere puramente negativo, posto che il legislatore ordinario, «pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata» (sentenza n. 33 del 1993; vedi anche sentenza n. 32 del 1993)”.