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( votes)Il vulnus ai principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione e la colpa dei soggetti agenti per la P.A. Riflessi sulla responsabilità dei pubblici funzionari derivanti dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 24 novembre 2011, nella causa n. C 379/10
1. Premessa
Il tema che ci proponiamo di trattare riguarda l’ardua questione irrisolta del fondamento di una azione della Procura contabile che postuli la sussistenza di una fattispecie di danno erariale eziologicamente connessa ad un provvedimento illegittimo della P.A., ancorché non fatto oggetto di una (previa) cognizione del Giudice amministrativo. In quest’ultimo caso, infatti, l’azione erariale concernerebbe, semmai, il pacifico e consolidato “danno indiretto” da rivalsa conseguente all’eventuale condanna risarcitoria inflitta dal medesimo Giudice nella materie di sua competenza esclusiva, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7, comma 5 e 30 del novello Codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. n. 104 del 2 luglio 2010[1].
La fattispecie, oggetto della presente trattazione, è invece quella propria di un “danno diretto”, concepito quale vulnus al buon andamento ed all’imparzialità della P.A.
Si tratta, cioè, del fondamento stesso di una azione contabile che faccia riferimento alla sussistenza del postulato danno erariale, fatto assertivamente consistere nell’emanazione di un provvedimento illegittimo, comportante una spesa ingiustificata (sine titulo) per la P.A.
2. I presupposti della responsabilità provvedimentale della P.A. e dei suoi agenti. Il danno indiretto
Il nucleo attorno al quale ruota da sempre la giurisdizione della responsabilità amministrativa-contabile – ordinariamente risarcitoria e solo talora sanzionatoria, in presenza di qualificata fonte normativa primaria che delinei tassativamente le fattispecie e le sanzioni applicabili dal Giudice – è costituito dal pregiudizio patrimoniale (comunque) sofferto dalle finanze pubbliche per atti, provvedimenti o comportamenti dei soggetti da essa intercettati[2].
Non si possono, in vero, assecondare interpretazioni che giungano a disancorare l’azione di responsabilità erariale dalla causazione di un danno, poiché questa forma di responsabilità richiede, come presupposto indefettibile, la dimostrazione di un pregiudizio economico concreto per l’erario. Solamente quest’ultimo, d’altronde, consente al Giudice contabile di attivarsi per la verifica (incidentale) dell’efficienza, dell’efficacia e della correttezza dell’attività amministrativa; non certo la generica violazione dei principi costituzionali richiamati dall’art. 97 Cost.[3].
Inoltre, a ben vedere, il comportamento illecito da valutare è il medesimo in entrambi i casi, posto che è sempre dalla condotta degli agenti pubblici che promana l’atto illegittimo, sebbene, com’è noto, la giurisprudenza prevalente, seguendo l’indirizzo della sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione, faccia riferimento ad una “colpa d’apparato”, che si configura quando l’atto illegittimo sia stato posto in essere in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Tuttavia, poiché la stessa giurisprudenza ammette la rilevanza dell’errore scusabile, di fatto finisce col riportare al centro dell’attività di accertamento la condotta del funzionario agente.
Non si può ignorare, poi, la forte concordanza che è possibile riscontrare tra l’elemento soggettivo della responsabilità provvedimentale della P.A. e quello della responsabilità erariale del dipendente pubblico, almeno se si rimane sul terreno giurisprudenziale.
Infatti, la pressoché unanime giurisprudenza amministrativa esclude la colpa della P.A. quando l’errore è scusabile. E per i giudici amministrativi l’errore è considerato «scusabile» quando l’amministrazione (rectius: i suoi agenti) è chiamata a risolvere questioni particolarmente difficili, quando si trova in presenza di una normativa equivoca, di contrasti giurisprudenziali, di novità delle questioni, o quando è stata indotta in errore dal comportamento del privato (si vedano, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 13 novembre 2001, n. 5829; Id., sez. VI, 4 novembre 2002, n. 6000; Id., sez. VI, 19 luglio 2002, n. 4007; Id., sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012; Id., sez. V, 13 aprile 2010, n. 2029; TAR Lazio, Roma, sez. III, 2 febbraio 2011, n. 974). Sicchè, utilizzando l’istituto dell’errore scusabile si finisce, di fatto, per innalzare la soglia di punibilità della colpa grave, intesa quale colpa cosciente. Difatti, escludere la colpevolezza dell’amministrazione nelle ipotesi di errore scusabile, così come fa il Giudice amministrativo, significa condannare la P.A. soltanto allorché il suo comportamento sia affetto da un vizio grave; solo quando, cioè, il soggetto pubblico abbia emanato un provvedimento illegittimo, pur trovandosi in presenza di una normativa certa e chiara, di un’uniformità di indirizzo a livello giurisprudenziale, di una attività amministrativa routinaria e non complessa, e così via. Casi in cui, cioè, l’errore poteva essere evitato attraverso l’applicazione della normale diligenza del prestatore d’opera professionale ad instar dell’art. 2236 c.c.
Il che conferma il fatto che il Giudice amministrativo per valutare l’errore scusabile mutua gli stessi parametri utilizzati dalla giurisprudenza contabile, che, com’è noto, deve scrutinare la colpa grave ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994[4].
Il Giudice amministrativo, peraltro, fa esplicito ricorso anche agli indici elaborati dalla giurisprudenza comunitaria. Infatti, ispirandosi alle indicazioni della Corte di giustizia europea, esso recepisce una nozione «oggettiva» di colpa che tiene conto della “gravità della violazione commessa dall’amministrazione” (Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169; Id., sez. VI, 18 dicembre 2001, n. 6281; Id., sez. V, 18 novembre 2002, n. 6393; Id., sez. VI, 4 novembre 2002, n. 6000)[5]. Inoltre, va segnalato che i Giudici amministrativi ritengono applicabile all’illecito civile della P.A., per analogia, la disciplina di cui all’art. 2236 c.c., che, com’è noto, limita la responsabilità del professionista che deve risolvere problemi di speciale difficoltà al dolo e alla colpa grave (si vedano, tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2005, n. 478; Id., sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32; TAR Lazio, sez. I-bis, 10 febbraio 2005, n. 1236; Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012)[6].
Ma vi è di più: si arriva, infatti, ad affermare apertis verbis che per l’imputazione della responsabilità alla P.A. occorre dimostrare che essa “abbia agito con dolo o con colpa grave”, precisando che “è necessario che il difettoso funzionamento dell’apparato pubblico sia riconducibile o ad un comportamento gravemente negligente; o ad un’intenzionale volontà di nuocere; ovvero si ponga in radicale contrasto con le regole di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost…” (così TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, 31 marzo 2008 n. 2704; Cons. Stato, sez. IV, 11 ottobre 2006, n. 6059; TAR Lazio, Roma, sez. II, 31 maggio 2007, n. 5035; Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2005, n. 4153; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 15 giugno 2007, n. 2623; Cons. Stato, sez. V, 13 aprile 2010, n. 2029).
Si può, allora, conclusivamente affermare che emerge una identità, pressoché assoluta, dell’elemento psicologico della responsabilità provvedimentale della P.A. con quello della responsabilità amministrativa dei suoi agenti, oltre che con quello dell’illecito civile del dipendente pubblico verso i terzi, anch’esso parametrato sulla colpa grave. Sicché, i singoli funzionari che hanno concretamente posto in essere l’azione (o l’omissione) provvedimentale «gravemente» illegittima dovranno rispondere innanzi al Giudice contabile del danno erariale «indiretto» derivante dalla condanna della P.A. L’amministrazione, infatti, una volta che ha corrisposto il risarcimento del danno al terzo deve farsi promotrice di un’azione di rivalsa contro i dipendenti responsabili, o agendo per suo conto, o denunciando il fatto dannoso alla Procura regionale della Corte dei conti, la quale, peraltro, può attivarsi anche d’ufficio, qualora venga autonomamente a conoscenza della notitia damni (v. artt. 20 e 22, comma 2, del d.p.r. n. 3 del 1957).
Quanto detto, si badi bene, non significa che a seguito di ogni condanna della P.A. al risarcimento del danno debba scaturire sempre una condanna a titolo di responsabilità amministrativa-contabile dei funzionari preposti all’attività provvedimentale illegittima e, tra l’altro, per espressa indicazione legislativa, la colpa grave non si configura nei casi di atti che abbiano superato il vaglio del controllo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo (art. 17, comma 30-quater, del d.l. n. 78/2009, convertito dalla l. n. 102 del 2009, come modificato dall’art. 1 del d.l. n. 103/2009, convertito dalla l. n. 141/2009)[7].
3. Il danno diretto
La Corte dei conti, poi, è l’unico Giudice ad intervenire e, quindi, non ci possono essere interferenze, quando da un provvedimento illegittimo discendano dei pregiudizi economici diretti per l’amministrazione (a prescindere cioè da una condanna della P.A. da parte del Giudice amministrativo), come può accadere nel caso di emanazione di un provvedimento illegittimo che comporti una spesa ingiustificata (sine titulo) per l’ente: com’è il caso di provvedimenti attributivi di vantaggi economici non rispettosi del referente normativo rappresentato dall’art. 12 della legge 241/90. Anche in tal caso, però, l’eventuale azione erariale deve risultare congruente – sotto il profilo dell’onere della prova ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. – con l’effettiva sussistenza del postulato danno erariale, che non può essere fatto assertivamente consistere, nel caso concreto, esclusivamente nell’emanazione di un provvedimento illegittimo, dovendosi fornire la dimostrazione di una spesa ingiustificata derivatane all’ente erogatore[8].
Non basta, cioè, in sede giuscontabile, che le scelte operate dall’Amministrazione, nell’esercizio del suo potere discrezionale, si prestino ad essere (incidentalmente) sindacate per violazione dei limiti intrinseci dell’interesse pubblico, della causa del potere esercitato e del rispetto dei principi di logica ed imparzialità e neppure che i mezzi prescelti possano essere ritenuti non adeguati, in ipotesi di assoluta ed incontrovertibile estraneità di essi rispetto ai fini propri dell’amministrazione. Ciò che sarebbe bastevole per il Giudice amministrativo – per gli effetti derivanti dalla pronuncia di sua competenza sul provvedimento – non lo è, altrettanto, per il Giudice contabile che, dall’acclarata inesistenza di un valido titolo giustificativo della spesa sostenuta, non potrebbe trarre tout-court una pronuncia di condanna a carico dei soggetti responsabili, senza il tramite del vaglio della opportunità e proficuità della spesa stessa, tipico di una struttura logica ternaria, quale la seguente: la spesa oggetto del giudizio viola o meno l’art. 97 Cost. (parametro) in quanto posta a raffronto con una più proficua spesa sostenibile (c.d. tertium comparationis).
Altro caso che il Giudice contabile può essere chiamato a giudicare – derivante da un provvedimento illegittimo dal quale si assuma discendere un pregiudizio economico diretto per l’amministrazione (a prescindere, anche in questo caso, da una condanna della P.A. da parte del Giudice amministrativo) – è quello dell’emanazione di un provvedimento illegittimo di aggiudicazione di un contratto di appalto di lavori, servizi o forniture[9].
Il caso concerne la violazione del diritto comunitario della concorrenza (c.d. “danno alla concorrenza”)[10] – influente tanto sopra che sotto soglia europea – che comporti una spesa pubblica ingiustificata (sine titulo) per l’ente appaltante.
4. La giurisprudenza della Corte dei conti sul “danno alla concorrenza”
Da quanto detto, in linea con l’insegnamento della suprema Corte citato nella nota n.10, possono trarsi le seguenti conclusioni:
1) Le norme di evidenza pubblica sulla concorrenza sono imperative.
2) La loro violazione comporta la nullità del contratto.
3) Dalla nullità del contratto discende la non debenza, da parte della P.A., di compensi a favore del privato contraente, se non nei limiti dell’arricchimento senza causa.
4) L’esborso di somme eccedenti tali limiti costituisce danno erariale.
5) Il pubblico funzionario che per dolo o colpa grave espleta una gara (o pretermette con affidamento diretto il suo esperimento) in violazione delle norme imperative e del procedimento di evidenza pubblica connessi alla tutela della concorrenza, con conseguente declaratoria di nullità del contratto, è responsabile del danno erariale conseguente all’indebito pagamento al privato contraente di somme eccedenti l’arricchimento senza causa, costituenti come tali utile non dovuto all’impresa beneficiata da una aggiudicazione illegittima (in una percentuale variabile in genere tra il 5% e il 10% del valore netto dell’appalto)[11].
In tema di danno (alla concorrenza), nel giudizio di responsabilità amministrativa-contabile, il pregiudizio erariale è stato in vero, il più delle volte, dalla giurisprudenza di merito, individuato, per l’appunto, nei pagamenti eccedenti la quota riconducibile all’arricchimento senza causa, sicché l’utile di impresa avrebbe rappresentato la misurazione di tale eccedenza (cfr. ex multis, C. conti, sez. Lombardia, 14 luglio 2006, n. 447; Id., n. 598/2009 e n.109/2011; sulla stessa linea della Sezione Lombardia si sono determinate anche la Sezione Piemonte, con le sentenze 35/2011, 221/2009, 96/2010, 11 e 44/2011 e la Sezione Abruzzo, con la sentenza 23/2011; inoltre, la Sezione I di Appello della Corte dei conti, ha testualmente affermato che “E’ di tutta evidenza che l’asserita violazione della concorrenza provoca maggiori oneri per l’Amministrazione, in quanto, ad esempio (come in fattispecie) determina ribassi di gara inferiori a quelli conseguibili” (cfr. pag. 10 sent. n. 440/10)).
Tuttavia, la Sez. II giur.le centrale, con la recente sentenza n. 198/2011, sull’appello avverso la sentenza della Sezione Lombardia n. 598/2009, nel prosciogliere i convenuti, ha statuito: “Osserva il Collegio che il danno alla concorrenza, non diversamente da qualunque altra tipologia di danno patrimoniale, non può ritenersi sussistente “in re ipsa” per il solo fatto, cioè, che sia stato illegittimamente pretermesso il confronto tra più offerte. Deve dirsi, piuttosto, che l’omissione della gara costituisce un indizio di danno, in quanto suscita il sospetto che il prezzo contrattuale non corrisponda al minor prezzo che sarebbe stato ottenibile dal confronto di più offerte. Trattandosi, però, pur sempre e soltanto di un sospetto, occorre dimostrare che effettivamente nel caso concreto la violazione delle norme sulla scelta del contraente abbia determinato una maggiore spendita di denaro pubblico … solo in ipotesi di dimostrata esistenza del danno potrà farsi ricorso alla liquidazione con valutazione equitativa, che è prevista dall’art. 1226 c.c. proprio per sopperire alla impossibilità o, comunque, alla particolare difficoltà di quantificare un danno di cui sia, però, certa l’esistenza. Non appare appropriato trasporre nel giudizio di responsabilità i criteri elaborati dalla giustizia amministrativa per la quantificazione del danno subito dall’impresa illegittimamente esclusa da una gara. … Non si vede perché la maggiore spendita di denaro pubblico, che può conseguire dall’illegittima scelta del contraente, dovrebbe coincidere – nella stessa misura percentuale e numerica – con la perdita dell’utile riconosciuta all’impresa illegittimamente estromessa”.
In altri termini, in sede di appello si è ritenuto, diversamente che nel giudizio di prime cure, che il danno divisabile all’occorrenza non consistesse “nei pagamenti eccedenti la quota riconducibile all’arricchimento senza causa”, e quindi nello “utile di impresa” che “rappresenta la misurazione di tale eccedenza”, bensì nei maggiori costi derivanti dalle migliori condizioni che l’Amministrazione avrebbe ottenuto da un corretto concorso di più imprese nella gara pubblica, nel rispetto delle norme sulla concorrenza.
Si tratta, come ognun vede, dell’applicazione della medesima struttura logica ternaria di cui s’è detto nel precedente paragrafo, in cui il tertium comparationis sarebbe costituito dal “minor prezzo ottenibile dal confronto di più offerte”.
Dunque, al di là delle ipotesi in cui la illegittimità dell’azione amministrativa concretizzi quel presupposto oggettivo che consente la possibilità di intervento del Giudice contabile, una volta che ci sia stato il risarcimento del danno ai terzi incisi, sussiste la distinta fattispecie, anch’essa rilevante per il Giudice contabile, di un pregiudizio economico direttamente derivante alla P.A. da un provvedimento illegittimo, senza il tramite di una previa condanna del Giudice amministrativo.
5. La colpa
La Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sentenza in data 24 novembre 2011, nella causa n. C 379/10, ha statuito che “la Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado”.
La Corte ha, in sostanza, affermato che il diritto dell’Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per il motivo che la violazione controversa risulti da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da un organo giurisdizionale di ultima istanza. Il nucleo centrale della motivazione è il seguente: “La condizione della «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, … viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente»”.
Di conseguenza, alla luce della prefata sentenza la responsabilità non può essere limitata adottando un criterio di “colpa grave” nei confini estremamente angusti delineati dalla Cassazione nelle sentenze riguardanti la responsabilità conseguente all’esercizio dell’attività magistratuale, cioè nei soli casi in cui l’interpretazione delle norme giuridiche abbia “carattere manifestamente aberrante”, essendo sufficiente la “violazione manifesta del diritto vigente”.
Come acutamente osservato da A. Vetro (Presidente On. Corte Conte)[12] sarebbe, quindi, estremamente utile prendere le mosse dalla decisione della Corte di giustizia per rimeditare non solo e non tanto la materia della responsabilità dei magistrati, che contiene profili particolari, riconosciuti nella legislazione di tutti gli altri paesi europei, ma dei pubblici dipendenti in generale, alla cui categoria appartengono anche i magistrati, oltre che dei funzionari onorari e di tutti gli altri soggetti legati agli enti pubblici da un rapporto di servizio.
A quest’ultimo riguardo, si rammenta che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti è limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave[13].
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte indicato i criteri per individuare le violazioni dei doveri d’ufficio connotate da colpa grave. Come ricordato nella recente sentenza n. 630/2011 della Sez. III d’appello, che riprende sul punto la precedente sentenza n. 75/2010 della stessa Sezione, “secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte dei conti, non essendo possibile configurare un generale criterio di valutazione della colpa grave, questa non può essere ricondotta alla semplice violazione della legge o di regole di buona amministrazione, ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell’evento dannoso”. La colpa grave consiste, infatti, “in un comportamento avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti” (Sez. 1^ centr. appello, sent. n. 305/2009), ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento” (Sez. giur. Calabria, sent. n. 763/2005), in relazione alle modalità del fatto, all’atteggiamento soggettivo dell’autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l’evento dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.” (Sezioni riunite, sent. n. 56/1997)”. La giurisprudenza della Corte di giustizia – che ha individuato in senso oggettivo la “colpa grave” nella “violazione manifesta del diritto vigente”, specie quando è ravvisabile un elevato “grado di chiarezza e di precisione della norma violata” – potrebbe, a questo punto, portare ad un ripensamento della consolidata giurisprudenza contabile sopra citata la quale, in sintonia con la giurisprudenza della Cassazione riguardante la responsabilità conseguente all’esercizio della funzione giudiziaria, sconfessata in sede comunitaria, consente in limiti estremamente angusti il riconoscimento della responsabilità dei pubblici dipendenti, con riferimento ad una nozione di colpa normativa caratterizzata dall’elemento psicologico
[1] È indubbio, infatti, che il potere riconosciuto al Giudice amministrativo di condannare l’amministrazione «al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria», per dirla con l’art. 30 del Codice del processo amministrativo, porterà ad un aumento delle fattispecie di responsabilità amministrativa. A seguito della condanna della P.A. si concretizzerà, infatti, un danno erariale indiretto. Inoltre, l’introduzione dell’autonoma azione risarcitoria da lesione di interessi legittimi (da proporsi nel termine di decadenza di 120 giorni decorrente dalla conoscenza del provvedimento, per i danni diretti, dalla data del fatto dannoso, per gli effetti lesivi indiretti) costituisce senz’altro una delle novità più significative del Codice del processo amministrativo. Da questo punto di vista, non è possibile dubitare del rilievo sistematico, rispetto agli assetti strutturali della giustizia amministrativa, della questione del superamento della pregiudizialità di annullamento.
[2] Tutti gli altri elementi caratterizzanti la responsabilità amministrativa-contabile (rapporto di servizio, antidoverosità della condotta, nesso di causalità, elemento psicologico) finiscono per costituire, necessariamente, oggetto di una verifica successiva da parte del Giudice contabile, il quale, prescindendo dal preventivo accertamento della sussistenza del danno nei termini suddetti, finirebbe per dare priorità ad una verifica potenzialmente inutile, pretermettendo all’elemento fondamentale quelli accessori, seppure necessari per l’affermazione della responsabilità in questione.
[3] Naturalmente i due giudizi (quello dinanzi al Giudice amministrativo e quello dinanzi al Giudice contabile) si muovono in piena autonomia e su piani distinti, sia perché sono disciplinati da norme diverse, sia perché sono finalizzati a regolare rapporti giuridici soggettivamente ed oggettivamente diversi.
[4] Secondo cui “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”
[5] Il che accade, ad esempio, nelle fattispecie di violazione della disciplina sugli appalti. Infatti, dopo la sentenza della Corte di giustizia del 30 settembre 2010 (causa C-314/09), le violazioni sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici comportano ormai una responsabilità oggettiva dell’amministrazione aggiudicatrice.
[6] Sul punto, peraltro, giova precisare che nell’art. 2236 c.c. il riferimento alla colpa grave non va inteso come uno scarto considerevole dal parametro di diligenza media, cioè come una colpa grave in senso proprio, bensì come una colpa speciale esigibile dal tipo di professionista convenuto, nel nostro caso l’amministratore o il funzionario pubblico: si tratta, pertanto, di una colpa che fa riferimento ad uno standard di comportamento particolarmente elevato e rigoroso, che si applica quando l’amministrazione è chiamata a risolvere questioni complesse che richiedono un alto grado di perizia.
[7] Ne discende che il funzionario responsabile potrà introdurre gli elementi a proprio discarico soltanto nell’eventuale giudizio che si svolgerà davanti alla Corte dei conti, la quale, peraltro, potrà arrivare a conclusioni anche diverse rispetto a quelle cui è giunto il Giudice amministrativo. Così, ad esempio, mentre per il Giudice amministrativo non hanno alcuna rilevanza il livello culturale e le condizioni psicologiche soggettive del funzionario, questi riferimenti possono avere all’opposto un ruolo determinante in sede di responsabilità amministrativa, e potrebbero indurre il Giudice contabile a ridurre il quantum del danno da risarcire attraverso l’utilizzo del suo potere riduttivo.
[8] E del resto è questo ciò che poi, al di là delle affermazioni di principio, avviene in concreto. Infatti, dalla lettura delle decisioni del Giudice contabile si ricava che il danno al buon andamento della p.a. si concretizza nella disutilità della spesa (in tal senso, di recente, si veda Sez. Giur. reg. Sicilia, 15 ottobre 2010, n. 2152).
[9] Attualmente regolato dal D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006.
[10] La Corte costituzionale, con sentenza n. 401/2007, ha precisato che “la tutela della concorrenza si concretizza, in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi (articoli 3, paragrafo 1, lettere c e g; 4, paragrafo. 1; da 23 a 31; da 39 a 60 del Trattato che istituisce la Comunità europea, del 25 marzo 1957). Si tratta di assicurare l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica nella scelta del contraente, idonee a garantire, in particolare, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza. Sul piano interno, l’osservanza di tali principi costituisce, tra l’altro, attuazione delle stesse regole costituzionali della imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l’azione della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost. Va, inoltre, precisato che l’osservanza delle prescrizioni comunitarie ed interne di evidenza pubblica garantisce il rispetto delle regole dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dei pubblici poteri: la selezione della migliore offerta assicura, infatti, la piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione”. La Cassazione, con sentenza n. 11031/2008, ha statuito che “nel contratto di appalto pubblico l’omissione della gara prescritta dalla legge per l’individuazione del contraente privato – omissione cui deve equipararsi l’espletamento meramente apparente delle formalità previste dalla legge – comporta la nullità del contratto per contrasto con norme imperative, da individuarsi nel complesso della disciplina, nella specie individuata dalla l. n. 584 del 1977, l. n. 741 del 1981 e l. n. 14 del 1973”. Con sentenza n. 3672/2010 la Cassazione ha ribadito che “l’elusione delle garanzie di sistema a presidio dell’interesse pubblico prescritte dalla legge per l’individuazione del contraente privato più affidabile e più tecnicamente organizzato per l’espletamento dei lavori, comporta la nullità del contratto per contrasto con le relative norme inderogabili (L. n. 14 del 1973, L. n. 584 del 1977, L. n. 741 del 1981, L. n. 687 del 1984). Se poi la violazione di dette norme è stata altresì preordinata alla conclusione di un contratto le cui reciproche prestazioni sono illecite e la cui condotta è assolutamente vietata alle parti e penalmente sanzionata nell’interesse pubblico generale – che nel reato di corruzione è il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione – la nullità per contrasto con norme imperative sussiste anche sotto tale ulteriore profilo, e deve esser dichiarata onde impedire che dalla commissione del reato derivino ulteriori conseguenze. Pertanto non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può decidersi nel merito, dichiarandosi nullo il contratto di appalto in esame e conseguentemente non dovuti, dagli enti, i compensi”.
Non sfugga, inoltre, la valenza normativa per la tutela della concorrenza dell’art. 35 del decreto legge n. 201/2011 (legge n. 214/2011), relativo al potenziamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, secondo cui la stessa Autorità “è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato” ed inoltre, come recita il secondo comma, “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”.
[11] A conferma di tali conclusioni, si richiama la sentenza n. 3794/2008, con la quale la Cassazione ha precisato che “l’attore, il quale abbia proposto una domanda di condanna al risarcimento del danno, ha l’onere di fornire la prova certa e concreta del danno stesso, così da consentirne la liquidazione, oltre che la prova del nesso causale tra il danno ed i comportamenti addebitati alla controparte; può, invero, farsi ricorso alla liquidazione in via equitativa, allorché sussistano i presupposti di cui all’art. 1226 cod. civ., solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata”. Ancora, con sentenza n. 8271/2004, la Cassazione ha precisato che “il giudice del merito può desumere l’esistenza del danno in base agli elementi di fatto relativi alle circostanze del caso concreto, potendo procedere ad una autonoma valutazione equitativa del danno, rispetto alla quale non osta l’eventuale inidoneità e\o erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato, dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un’eventuale decisione negativa fondata sull’asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall’attore, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente acclarato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una certa res lesiva”.
[12] In Rivista LexItalia. It n. 1/2012
[13] La Corte costituzionale, con sentenza n. 371/1998, ha ritenuto tale limitazione conforme ai principi costituzionali, tenuto conto che “la disposizione risponde alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”.