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di Aldo Areddu

Premessa. Ricostruzione storica dell’illecito

Il reato di subappalto non autorizzato (in ambito pubblicistico) è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano dall’art. 21 della legge 13 settembre 1982, n. 646, recante “Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia”.

Meglio nota – convergendo in essa (i) il progetto di legge presentato alla Camera dei deputati il 20 novembre 1981 dall’allora Ministro dell’interno On. Virgilio Rognoni e (ii) la proposta di legge con primo firmatario l’On. Pio La Torre dell’anno precedente (31 marzo) – come “Rognoni-La Torre”, la l. n. 646/82 cit. ebbe una tormentata gestazione a Montecitorio. Rimase infatti a lungo “incagliata” nei passaggi parlamentari, salvo poi vedere la luce con rapidissima evoluzione  – fu annunciata al Senato della Repubblica il 10 settembre 1982 e discussa dalle competenti commissioni riunite in sede deliberante due giorni dopo; la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale intervenne il giorno successivo alla promulgazione – sull’onda emotiva dell’uccisione a Palermo il 3 settembre 1982 del generale e prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della di lui moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo.    

A ben vedere, nella sua versione originaria costituiva un illecito amministrativo, stante la previsione del pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, applicata dal Prefetto del luogo di esecuzione delle opere, pari ad un terzo del valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto, con vincolo di solidarietà passiva a carico del subappaltatore.

Tuttavia, già il decreto legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 12 ottobre 1982, n. 726, entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione (anch’esso nella temperie generata nell’opinione pubblica dall’odiosa strage di via Carini), nel mantenere inalterati i contenuti ed in particolare la condotta tipica (“chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l’autorizzazione dell’autorità competente”), introdusse le sanzioni penali dell’arresto da sei mesi ad un anno e dell’ammenda pari a un terzo del valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto (a carico, altresì, del subappaltatore e dell’affidatario del cottimo).

L’equivalenza nel trattamento sanzionatorio tra appaltatore e suoi diretti aventi causa (subappaltatore e cottimista) cadde con l’interpolazione al testo del primo comma, secondo periodo, operata dall’art. 8 della l. 19 marzo 1990, n. 55, che – nel confermare la sanzione detentiva (arresto da sei ad un anno) – modulò, per subappaltatori e cottimisti, la pena pecuniaria in proporzione al valore dell’opera ricevuta in subappalto o in cottimo (in luogo dell’importo del contratto principale).

Ancora una modifica fu attuata dal decreto legge 29 aprile 1995, n. 139, art. 2, convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 1995, n. 246: la sanzione economica si sarebbe collocata per l’appaltatore, a partire dal 30 aprile 1995, in due precisi limiti, minimo e massimo (rispettivamente, non inferiore ad un terzo del valore dell’opera concessa in subappalto o a cottimo; non superiore ad un terzo del valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto).

Siamo, infine, alla versione attualmente vigente, con le modifiche apportate al comma dall’art. 25, co. 1, lett. a) e b), d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 1° dicembre 2018, n. 132. Ne riportiamo il testo: “Chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l’autorizzazione dell’autorità competente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore ad un terzo del valore dell’opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore ad un terzo di valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto. Nei confronti del subappaltatore e dell’affidatario del cottimo si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa pari ad un terzo del valore dell’opera ricevuta in subappalto o in cottimo. È data all’amministrazione appaltante la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto.”

Il reato è ora dunque un delitto, punito tra l’altro con un massimo edittale (cinque anni) di non lieve entità, essendo, tra l’altro, (i) astrattamente compatibile con l’arresto facoltativo in flagranza di reato e con misure cautelari custodiali, (ii) preclusivo dell’istituto della sospensione del processo per messa alla prova (art. 168 bis c.p.), e (iii) tale da prevedere – ferma comunque la competenza del giudice monocratico – la celebrazione dell’udienza preliminare.

1. L’affidamento “di fatto” e la consumazione

Venendo ai contenuti della fattispecie, non solleva problemi il richiamo esplicito all’eventualità fattuale di un subappalto (o di un cottimo) affidati in concreto (“di fatto”) a terzi, a prescindere cioè dall’esistenza o dal nome del sub contratto, ferma in ogni caso l’insussistenza dell’autorizzazione della committenza pubblica.

A tal riguardo va rievocato soltanto il contrasto giurisprudenziale – ad oggi non sopito – sull’individuazione del momento consumativo del reato. Per cass. pen., sez. III, sent. 2 agosto 1996, n. 7665 esso è costituito dal momento concreto in cui l’appaltatore sub affida l’attività realizzativa a terzi, risultando non rilevante l’eventuale sottoscrizione (o non) sottoscrizione del relativo contratto, relegandosi tale momento a mero antefatto, stante la non punibilità – per un reato allora contravvenzionale – del tentativo; diversamente, secondo cass. pen., sez. I, ottobre 1995, n. 11862 e 10 novembre 1995, n. 562, il reato è integrato solo (o già) dalla sottoscrizione del contratto.

Ora che il reato ha veste delittuosa, torna ipotizzabile la punibilità di fatti idonei ed univoci ai sensi dell’art. 56 c.p. (tentativo), tra i quali può senz’altro annoverarsi – seguendo la prima linea interpretativa – anche l’eventuale formalizzazione preventiva del rapporto.  

L’operata “elevazione” a delitto da contravvenzione comporta/comporterà anche una necessaria rivisitazione di quell’orientamento che reputava, in linea con l’art. 42, co. 4 del codice penale, sufficiente la colpa dell’agente, richiedendosi ora necessariamente il dolo (generico), consistente nella conoscenza e volizione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie.

2. Le “opere riguardanti la pubblica amministrazione”

Altrettanto ormai priva di problematicità è l’individuazione del recinto operativo della norma, con riferimento specifico a natura e veste della stazione appaltante.

Al primo apparire dell’art. 21 talune pronunce giurisprudenziali circoscrissero l’applicazione del reato ai soli casi di committenza formalmente pubblica: tra le altre, cass. pen., sez. I, sent. 10 marzo 1994, n. 2893, a proposito della Rai quale società – pur incaricata della gestione di un pubblico servizio – “di diritto privato”. Ancora nel 2005 la Corte di piazza Cavour affermava – Cass. pen., sez. III, 23 settembre 2005, n. 41674 – che la fattispecie dovesse riferirsi soltanto al committente- “ente pubblico”.

Questi approdi sono tuttavia stati superati dal progressivo, quanto ormai consolidato, accreditamento, presso la normativa di contrattualistica pubblica, di una nozione “sostanziale” di pubblica amministrazione  (sancita, tra l’altro, già con il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, con l’inclusione nel novero delle stazioni appaltanti, tra gli altri soggetti, di società a prevalente capitale pubblico o di organismi di diritto pubblico, istituiti – questi ultimi – anche in forma societaria ma pur sempre per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale), che prescinde cioè dalla mera veste formale e valorizza il dato concreto della tutela e cura di interessi di preminente rilievo collettivo  E’ in proposito cass. pen., sez. III, sent., (ud. 23 gennaio 2007) 21 febbraio 2007, n. 7198 a chiarire che la norma incriminatrice non si riferisce unicamente agli appalti provenienti da una pubblica amministrazione in senso stretto (Stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici) anche considerando il richiamo ampio ad opere “riguardanti la P.A.” (e quindi anche di interesse pubblico gestite mediante entità anche di diritto privato).

3. I profili critici

Su due profili problematici invece – tra loro connessi, come si vedrà – occorre soffermare maggiormente l’attenzione, e cioè se la norma penale in commento:

– riguardi soltanto gli appalti di lavori o possa ritenersi estesa anche al comparto dei servizi;

– colpisca anche, ed in che misura, sub affidatari che non siano anche subappaltatori o cottimisti.

3.1 Solo appalti di lavori?

Quanto al primo aspetto (relativo al rapporto contrattuale “a monte” tra stazione appaltante e affidatario), a stretto rigore letterale, il problema non dovrebbe neppure porsi: la locuzione “appalto di opere” – in ossequio ai principi generali di legalità e tassatività (artt. 25, capoverso della Costituzione; art 1 del codice penale), ed al connesso divieto di analogia sfavorevole al reo (art. 14 delle preleggi al codice civile) – indurrebbe univocamente a circoscrivere il perimetro applicativo della fattispecie ai soli affidamenti di lavori pubblici.

Purtuttavia, numerose pronunce della Corte suprema di cassazione sul finire del secolo scorso sostennero con vigore il contrario (restando di fatto isolata la sez. IV, sent., 14 luglio 2000, n. 8243), erodendo così un’autorevole indicazione fornita al riguardo dalla circolare 9 marzo 1983, n. 477/UL (“Attuazione in materia di appalti pubblici delle nuove disposizioni in materia di lotta alla delinquenza”) emanata dal Ministero dei lavori pubblici che aveva, per l’appunto, ritenuto circoscritta l’applicazione dell’art. 21 l. n. 646 cit. alle sole opere, con espressa esclusione degli “appalti di servizi, vale a dire quelli che implicano soltanto la produzione di una utilità senza elaborazione di materia (es. Appalti per indagini geotecniche, o aerofotogrammetriche, ecc.)”.

Peraltro, a tale esegesi restrittiva si era subito contrapposta quella della circolare del Ministero della Giustizia 8 giugno 1983 n. 1/2439 U.L., generandosi un conflitto poi risolto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della funzione pubblica – circolare del 17 marzo 1984 –  che ha assegnato alla norma la massima ampiezza possibile, anche in conformità ai pareri del Consiglio di Stato, sez. III, 29 novembre 1983 n. 870 e 20 gennaio 1984 n. 29, nonché al parere dell’Avvocatura generale dello Stato del 16 aprile 1984 n.16111, diffuso dalla Presidenza del consiglio con nota del 2 luglio 1984 n.224 (nonché da diversi pareri dell’Avvocatura dello Stato, raggruppati dall’Alto commissario per il coordinamento della lotta alla delinquenza mafiosa, diffusi dalla stessa Presidenza del consiglio con nota 29 novembre 1984, n.224).

Si è dunque più volte affermato in giurisprudenza che l’esclusione degli affidamenti di servizi tradirebbe la finalità della previsione, che è quella di impedire la penetrazione nelle pubbliche commesse di soggetti legati alle organizzazioni criminali mafiose e assimilate, a prescindere dalla formale tipologia di contratto (ciò proprio al fine di evitare che essa sia sostanzialmente aggirata facendo semplicemente leva sul nomen iuris affidato, di volta in volta, al rapporto negoziale).

In questo senso, il richiamo normativo al cessato albo dei costruttori è stato ritenuto non soltanto non significativo ma semmai di conforto a tale estensione, atteso che esso “istituito con L. 10 febbraio 1962, n. 62, non si riferisce esclusivamente alle imprese edili, ma comprende anche categorie di imprese operanti in settori diversi ed aventi ad oggetto attività gestionali e manutentive, vale a dire servizi” (Cass. pen., sez. V, sent, 9 settembre 2009, n. 35057, che richiama sul punto sez. I, 20 novembre 1996, n. 9867).

In passato, tra l’altro, si era sostenuto dalla Corte di cassazione – sez. I, 3 aprile 1992, n. 4035 – che ai fini della configurabilità del reato “è sufficiente che l’agente abbia in appalto opere riguardanti la Pubblica amministrazione, non richiedendosi anche che il rapporto intercorrente con la P.A. sia tecnicamente configurabile come contratto di appalto” (fattispecie in cui il corrispettivo dell’opera non consisteva nel pagamento di un prezzo ma nel trasferimento della proprietà di suoli edificatori).  

In sintesi, pertanto, stante l’ampiezza applicativa propugnata dalla giurisprudenza di legittimità, è opportuno che gli organi della stazione appaltante ed in particolare il Responsabile Unico di Progetto e il Direttore dell’Esecuzione del Contratto vigilino attentamente sugli affidamenti a terzi, segnalando alle competenti autorità – anche in forza dell’obbligo di denuncia di reato a carico del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.) e dell’incaricato di pubblico servizio (art. 362 c.p.) – eventuali anomalie nei sub affidamenti anche del prestatore di servizi.

3.2 I cd. contratti similari al subappalto (di lavori)

Venendo al secondo nodo critico, stavolta nel rapporto “a valle” tra appaltatore di lavori e subappaltatore (estensione o no ai contratti similari), va anzitutto rammentato che per contratto similare (al subappalto di lavori) deve intendersi ogni ipotesi negoziale non esplicitamente qualificabile subappalto (il contratto, “di secondo grado”, con cui l’appaltatore di lavori affida ad un terzo, subappaltatore, una parte qualsiasi dell’oggetto del contratto principale, trasformandosi egli stesso in sub committente relativamente a tale parte) ma ad esso assimilabile in forza della presenza comunque di una componente “personalistica”, ossia dell’ausilio assicurato da soggetti determinati che si aggiungono alla “neutra” fornitura di un bene o di un materiale.

In questa cornice rientrano, tra gli altri (quantomeno come ipotesi statisticamente più frequenti e non a caso costantemente normate):

a) Il nolo a caldo, vale a dire il contratto atipico – ossia non sussumibile in alcuna delle figure del codice civile e della legislazione speciale, ma comunque diretto “a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art. 1322 cpv. c.c.) – in base al quale ci si procura il godimento di una macchina con il relativo operatore, di talché si ha un rapporto “innominato caratterizzato da una prestazione principale, avente ad oggetto la locazione o il c.d. noleggio di un macchinario e da una accessoria, rappresentata dall’attività dell’operatore di tale macchinario” (cass. pen., sez. III, sent. 17 luglio 1997, n. 6923);

b) la fornitura con posa in opera, quale contratto di approvvigionamento di beni, accompagnato necessariamente dall’apporto realizzativo – che dunque implica ricorso a materiali, mezzi d’opera ed attrezzature, e soprattutto forza lavoro – finalizzato a rendere la fornitura in concreto utilizzabile. 

Anche su questo tema si sviluppò la querelle ministeriale surricordata, con la prevalenza – pure su questo profilo – delle indicazioni del Dicastero della giustizia (circ. 8 giugno 1983 n.1/2439 U.L. cit.), che estese l’obbligo dell’autorizzazione e la disciplina penale dell’art.21 l. cit. ad ogni sistema attraverso cui si perviene (perveniva) alla realizzazione di opere pubbliche, quali il cottimo fiduciario e l’esecuzione a regia. Si faceva così rientrare nel concetto di appalto ogni ipotesi in cui – a prescindere dallo strumento giuridico adottato – venisse affidata a privati la realizzazione di opere riguardanti la pubblica amministrazione con impiego di denaro pubblico. Interpretazione parimenti fatta propria dalla cit. Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per la funzione pubblica del 17 marzo 1984, che affermava l’obbligo della P.A. di “predisporre una serie di controlli generalizzati al fine di evitare che il denaro pubblico concorresse ad incrementare le iniziative imprenditoriali poste in essere dalla mafia” e dall’Avvocatura generale dello Stato.

Nella giurisprudenza della Corte suprema di cassazione sono emersi nel tempo tre orientamenti.

Secondo un primo filone – sintetizzato dalla sentenza della sez. I, (ud. 14 marzo 1996), n. 3458 – la norma penale “nel condizionare fortemente l’autonomia negoziale dei soggetti privati per il pericolo d’ infiltrazione di imprese mafiose, ha inteso sanzionare unicamente i casi di carenza di autorizzazione per i tipi contrattuali del “subappalto” e del “cottimo”. In altre parole, se proprio occorre comprimere il principio costituzionale di libera iniziativa economica privata (art. 41) in nome di – altrettanto primarie – esigenze di tutela verso pervasive organizzazioni criminali, ciò deve attuarsi esclusivamente nei casi espressamente indicati (i soli contratti menzionati, appunto). Questa pronuncia – speculare a quella dell’anno precedente sez. I, 10 febbraio 1995, n. 1383 – fonda il suo assunto anche sul presupposto per cui non sussiste un collegamento tra norma penale e normativa antimafia diversa da quella penale, allora costituita dall’art. 18 l. n. 55/90.

Una seconda prospettazione è sintetizzata da cass. pen., sez. III, sent. (data ud. 29 novembre 2005) 12 gennaio 2006, n. 792: “il legislatore, parlando di affidamento anche di fatto di tutto o parte dei lavori in subappalto o a cottimo, non ha inteso riferirsi solo a tali contratti tipici, ma anche a quelle forme contrattuali atipiche o derivate con cui sotto diverso nome si realizza lo stesso risultato del subappalto o del cottimo”, atteso che “ai fini della qualificazione del contratto non si deve avere riguardo al nomen iuris attribuito dalle parti, ma alla funzione economico-sociale che l’atto è destinato a realizzare, posto che lo scopo della norma è quello di vietare l’infiltrazione di associazioni mafiose o comunque criminose nell’esecuzione delle opere pubbliche”.

Nel caso preso in esame dai giudici di legittimità, con un contratto formalmente denominato “nolo a caldo” si era in realtà realizzato lo stesso risultato del subappalto, in quanto il noleggiatore aveva agito autonomamente, non limitandosi a concedere l’uso dei propri macchinari ma fornendo anche operatori specializzati per l’uso di quelle macchine, che hanno operato alle sue dipendenze, provvedendo altresì ad eliminare tutto il vecchio asfalto del sedime.

Tale pronuncia, disinteressandosi del “tipo” contrattuale di volta in volta preso in considerazione, esalta il dato sostanziale che con esso, qualunque sia, possa configurarsi un trasferimento, anche parziale, dell’opera appaltata ad un terzo soggetto, il quale – seppure non formalmente “subappaltatore” o “cottimista”  – di fatto si inserisca nella fase realizzativa (non limitandosi dunque a mere attività di vendita o di noleggio/leasing di beni), contribuendovi anche solo parzialmente, ed in tal modo violando la ratio ispiratrice della norma penale in commento: il pericolo di ingresso in cantiere di soggetti aderenti alla criminalità organizzata. In definitiva, “si devono ritenere vietati non soli i contratti che assumono la qualifica formale del subappalto o del cottimo, ma anche quelli che, sotto altro nome, al fine di aggirare il divieto legislativo, mirano comunque a raggiungere lo stesso risultato che si realizza con il subappalto o con il cottimo ossia l’esecuzione di tutti o parte dei lavori oggetto dell’appalto senza l’autorizzazione della stazione appaltante, trattandosi di contratti che, per essere stipulati al fine di eludere un divieto legislativo, sono comunque nulli anche dal punto di vista civilistico (art. 1344 c.c.) perché in frode alla legge”.

Questo arresto del 2006 ha superato l’orientamento di cui al punto 1), addirittura citando la relativa sentenza, da un lato, per osservare che non vi fosse un contrasto sul tema  (“la sentenza n. 3458 del 1996 …conferma in definitiva la … necessità di qualificare il contratto in base al suo contenuto ed alla sua funzione e non in relazione al nome attribuito dalle parti”, rilevando in particolare che nel caso allora preso in esame il noleggiatore a caldo era stato – come sopra ricordato – di fatto incaricato anche di operazioni di scavo e di trasporto di materiale di risulta, dunque un vero e proprio subappalto), dall’altro, criticandola “nella parte in cui si ritiene o comunque si lascia intendere l’assoluta irrilevanza della prescrizione dell’autorizzazione, prevista dalla L. n. 575 del 1965, art. 10 e dalla L. n. 55 del 1990, art. 18, e successive modificazioni, anche per i contratti derivati diversi dal cottimo e dal subappalto solo perché le norme anzidette non sono state richiamate dall’articolo 21 cit.”, in quanto “si deve ritenere consentito il riferimento ad altre norme che regolano i lavori pubblici per desumere la voluntas legis e la portata della norma incriminatrice di cui alla L. n. 646 del 1982, articolo 21”).

Per una terza ed ultima pronuncia – che definiremmo in posizione mediana (sez. VI, sent. 3 novembre 2005, n. 39913) – la stessa Corte, partendo dallo stesso presupposto anzidetto del punto 2) secondo cui l’art. 21 va letto in modo integrato con la normativa che regola i subappalti e la relativa autorizzazione (nel caso, quella allora prevista dall’art. 18 della l. 19 marzo 1990, n. 55, come modificata dalla l. 19 novembre 1998, n. 415, cd. Merloni ter), ha coerentemente affermato che la fattispecie penale riguarda solo i contratti similari di importo superiore a quello normativamente previsto per la definizione di subappalto, ossia  “il cui valore sia superiore al 2% dei lavori affidati e d’importo superiore ai 100.000 ECU e sempreché il valore del costo della mano d’opera sia pari o superiore al 50% dell’importo del contratto da affidare”, con esclusione pertanto di quelli sottosoglia, in quanto “il legislatore ha voluto escludere dall’ambito della sua operatività quelle attività che, pur astrattamente rientrando nel novero del subappalto o del cottimo, siano così marginali e trascurabili rispetto all’ intero appalto da escludere qualsiasi rischio di interessamento da parte di consorterie criminali”.

Quest’ultima soluzione intermedia sembra ormai prevalere: la stessa Corte l’ha richiamata espressamente negli anni successivi – sez. III, sent. (ud. 1° dicembre 2010) 19 gennaio 2011, n. 1551 – “aggiornandosi” ai mutamenti normativi frattanto intervenuti (in quest’ultima, difatti, si richiama l’art. 118, co. 11 del d.lgs. 163/06 cit., cd. codice De Lise, il quale aveva confermato il testo dell’art. 18 della l. n. 55/90 cit., nelle modifiche che erano state progressivamente introdotte dalle versioni ter e quater della legge quadro del 1994).

Quanto previsto, dapprima dall’art. 18 anzidetto al co. 12 e poi dal codice del 2006 (art. 118, co. 9, terzo periodo), aveva a ben vedere sollevato una disputa, specie in letteratura specialistica, se tali norme avessero fornito una definizione “speciale” di subappalto oppure se avessero inteso, nel presupposto della nozione generale di esso, estenderla (con la relativa disciplina) anche ai contratti similari.

Tale seconda tesi cd. assimilatoria è stata costantemente affermata dall’allora Autorità di vigilanza sui lavori pubblici (oggi, come noto, ANAC) in numerosi interventi – atto di regolazione n. 5/01 e determinazioni nn. 12/01, 25/01, 27/02 e 6/03 – mirati per l’appunto a rimarcare che, fermo il perimetro del subappalto come contratto avente ad oggetto una qualsiasi parte dell’opera affidata, la relativa regolamentazione era stata espressamente estesa a rapporti che, pur non implicando attività realizzativa da inquadrarsi nell’intervento, prevedono il ricorso a manodopera o comunque prestazioni di lavoro, abbinata a prestazioni diverse (di nolo, di fornitura etc.) e ad esse funzionali.

Il previgente codice del 2016 ha nettamente aderito a tale ricostruzione, ma preoccupandosi anche e comunque di fornire finalmente la definizione di subappalto (tra l’altro evitando precisazioni equivoche come quella adoperata in passato – “ai fini del presente articolo” – per attuare l’assimilazione, che poteva precludere, o comunque rendere problematica, l’utilizzabilità di quanto ivi allora previsto nella cornice penale).

L’art. 105, co. 2 del d.lgs. n. 50/16 cit. – testo poi sostanzialmente riprodotto (con qualche sfumatura di cui si dirà a breve) dall’art. 119 del vigente d.lgs. n. 36/23 – ha anzitutto chiarito che per “subappalto” debba intendersi “il contratto con il quale l’appaltatore affida a terzi l’esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto, con organizzazione di mezzi e rischi a carico del subappaltatore”, dunque sottolineando non solo il carattere di “cerchio concentrico più piccolo” rispetto a quello più esteso dell’appalto principale – la parte rispetto al tutto – ma anche il profilo dell’autonomia organizzativa e gestionale del sub affidatario. Ciò ad evidenziare la piena traslazione sull’appaltatore del ruolo di (sub) committente per la frazione (sub) affidata, in linea del resto con l’innovativa previsione – oggi art. 119, co. 6, primo periodo – che tiene appaltatore e subappaltatore responsabili in solido verso la stazione appaltante per l’esecuzione delle prestazioni rese in subappalto.

L’art. 119, co. 2 del d.lgs. n. 36 cit. ha di seguito precisato che, in ogni caso (“comunque”), costituisce subappalto “di lavori” – precisazione innovativa rispetto al codice del 2016 – qualsiasi contratto stipulato dall’appaltatore con terzi, avente ad oggetto attività ovunque espletate che richiedono l’impiego di manodopera, con i soliti congiunti parametri del passato (importo superiore al 2 per cento di quelle delle prestazioni affidate o superiore a 100 mila euro; prevalenza del costo della manodopera e del personale nella misura del 50 per cento).

Lo scenario è confermato/arricchito non solo dal mantenimento della previsione (ora art. 119, co. 16, ult. periodo) che richiede comunque l’autorizzazione (sia pure “semplificata” dalla dimidiazione del termine per il rilascio) per subappalti e cottimi di importo inferiore al 2 per cento di quello delle prestazioni affidate o inferiore a 100.000 euro, ma anche da ulteriori disposizioni dell’art. 119, talune modificative anche rispetto al codice previgente, ed in particolare:

  • il comma 3 nella sua parte iniziale, che continua (confermando il testo del 2016) a non configurare come attività affidate in subappalto le categorie ivi specificate “di forniture o servizi”, così implicitamente affermando che ogni affidamento di puri lavori è subappalto;
  • le lett. a) e d) dello stesso co. 3, che a proposito – rispettivamente – delle attività affidate ai lavoratori autonomi ed alle prestazioni rese all’affidatario “in forza di contratti continuativi di cooperazione, servizio o fornitura etc.” (dunque ancora una volta confermandosi la rilevante esclusione dell’attività edilizia), ha precisato – innovativamente rispetto al previgente art 105, co. 3 d.lgs. n. 50/16 – che deve trattarsi pur sempre di attività o prestazioni “secondarie, accessorie o sussidiarie”;
  • il comma 11 che, a proposito dell’eventuale pagamento diretto nei casi ivi previsti, distingue nettamente (rispetto al previgente co. 13 dell’art. 105 cit.) “subappaltatore” e “titolari di subcontratti non costituenti subappalto ai sensi del quinto periodo del comma 2”.

Ciò stante, si è in definitiva stabilizzata la seguente ripartizione già reiteratamente rilevata dall’allora Autorità:

a) è subappalto di lavori qualsiasi sub contratto che preveda l’affidamento di una parte, anche minimale, delle lavorazioni appaltate;

b) è contratto similare al subappalto di lavori (ad esso assimilato) qualsiasi contratto di fornitura o nolo accompagnato da attività lavorativa, e dunque provvisto di una componente lavoristica prevalente (al 50% rispetto all’importo del subcontratto), se di importo superiore alle più volte ricordate soglie (2%; 100.000 euro);

c) è sub contratto, dunque non subappalto (o assimilato) – e come tale non richiedente l’autorizzazione (ma soltanto la comunicazione preventiva, oggi stabilita all’art. 119, co. 2, terzultimo periodo) – la fornitura con posa in opera o il nolo a caldo con componente lavoristica inferiore al 50%, oppure quella che, sebbene superiore, non sfori però gli anzidetti limiti economici, restando cioè al di sotto del 2% dell’importo dell’appalto principale o 100.000 euro.

Va sempre in ogni caso tenuto ben presente, nel terzo caso, che la componente lavoristica/personale, di qualunque importo sia, deve restare immanente alla fornitura o al nolo, ossia essenziale soltanto alla funzionalità di tali contratti di vendita/affitto, e non costituire di per sé subappalto.

In altri termini, gli addetti al mezzo o coloro che metteranno in opera il bene fornito non devono anche svolgere attività edilizia in senso stretto: in questo senso l’Autorità chiarì (delib. AVCP 3 settembre 2008, n.  35) che costituisce subappalto la posa in cantiere di un conglomerato bituminoso, in quanto intrinsecamente parte dell’opera e non semplicemente strumentale ad essa.  

Sedimentantesi tali previsioni fino ai nostri giorni, le ricadute in ambito penale – anche seguendo la surricordata tesi (che sembra prevalere) per cui l’art. 21 attinge dalla nozione di  subappalto dalla normativa pubblicistica – consistono nel dover ritenere penalmente rilevante, in ambito lavori, il ricorso – non debitamente autorizzato – oltre che al subappalto (nell’ampia accezione civilistica pura ribadita dagli ultimi due codici), anche ai a contratti similari di importi superiori a tali soglie (perché essi stessi subappalto), con esclusione dunque sia di quelli di entità inferiore sia – a maggior rilievo – di subcontratti di mero servizio o mera fornitura.

Sempre, infine, tenendo ferma la tesi secondo cui la nozione penalistica di subappalto va attinta direttamente dalla “sede naturale” del codice dei contratti pubblici (che in tal modo diviene legge extra penale rilevante ai sensi dell’art. 47, secondo capoverso c.p. in quanto, per l’appunto, integratrice del precetto penale) nella quale si fa riferimento non solo a “lavorazioni” ma più in generale a “prestazioni”, dovendo l’art. 21 l. n. 646/82 riguardare – come chiarito in precedenza – anche gli appalti di servizi, il subappalto penalmente rilevante riguarderà correlativamente anche i relativi subappalti.

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Avv. Aldo Areddu
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