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Premessa

Come è noto, il Legislatore italiano, nell’ambito delle riforme per la semplificazione e l’innovazione digitale, ha inserito, con l’art. 3, co. 7, del D.L. n. 76/2020 (c.d. “Decreto semplificazioni”), l’art. 83 bis del D.Lgs. n. 159/2011 (c.d. “Codice antimafia”).

La norma richiamata, rubricata “Protocolli di legalità” è stata prevista al fine di implementare le ordinarie tutele previste dalla disciplina dei contratti pubblici, consentendo di configurare, quale causa di scioglimento del vincolo, provvedimenti di rilievo penale, pure non definitivi, che siano contestuali alla procedura di gara a cui il patto si riferisce.

In tale prospettiva, il legislatore ha inoltre specificato che “Le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto”.

L’inciso normativo ha destato non poche perplessità in ordine all’attitudine immediatamente escludente delle clausole previste dal patto di integrità (o di legalità), giacché non sono mancate interpretazioni volte ad innalzare tali clausole a nuove ipotesi di cause di esclusione “necessitate”, anche nella fase precedente alla stipula del contratto di appalto[1].

Al riguardo, tanto la giurisprudenza quanto l’ANAC hanno da tempo chiarito che le conseguenze sanzionatorie previste dal patto di integrità, derivanti dall’applicazione delle relative clausole, non contrastano con il principio della tassatività delle cause di esclusione previsto dall’art. 83, co. 8, D.Lgs. n. 50/2016 (applicabile ratione temporis), oggi ricompreso nell’ambito dell’art. 10 del D.Lgs. n. 36/2023 (c.d. “nuovo Codice dei contratti”), giacché tali ipotesi sono prescritte dalla legge

Più in particolare, è stato ribadito che la previsione eventualmente escludente affonda sempre le sue origini in una norma, rispettando il principio di riserva di legge sancito, oggi, all’art. 10 del “nuovo” Codice dei contratti e dal già menzionato art. 83 bis del Codice antimafia, e che gli impegni assunti nei protocolli e negli accordi non devono eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore, conformemente al principio di proporzionalità che, al pari della parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, costituisce un principio generale del diritto, non solo nazionale ma anche unionale.

Sulla scorta di tali premesse, la giurisprudenza amministrativa è stata chiamata a rispondere a due ordini di questioni. Da un lato, se la mera corrispondenza tra fattispecie incriminatrici annotate nei certificati dei carichi pendenti – riferiti ad un operatore economico aggiudicatario e da questi dichiarate ai fini dell’accertamento dell’insussistenza di cause di esclusione previste dal Codice dei contratti – e quelle riepilogate nell’ambito delle clausole del patto di integrità, comporti l’esclusione automatica dell’operatore economico medesimo; dall’altro se, anche in assenza di una espressa comminatoria espulsiva, l’esclusione di un operatore economico sia comunque imposta dalla lettera della norma di cui all’articolo 83 bis del Codice antimafia per il caso di inosservanza dei protocolli di legalità.

la giurisprudenza amministrativa è stata chiamata a rispondere a due ordini di questioni. Da un lato, se la mera corrispondenza tra fattispecie incriminatrici annotate nei certificati dei carichi pendenti – riferiti ad un operatore economico aggiudicatario e da questi dichiarate ai fini dell’accertamento dell’insussistenza di cause di esclusione previste dal Codice dei contratti – e quelle riepilogate nell’ambito delle clausole del patto di integrità, comporti l’esclusione automatica dell’operatore economico medesimo; dall’altro se, anche in assenza di una espressa comminatoria espulsiva, l’esclusione di un operatore economico sia comunque imposta dalla lettera della norma di cui all’articolo 83 bis del Codice antimafia per il caso di inosservanza dei protocolli di legalità.

Muovendo da queste premesse, il presente contributo mira ad emarginare la recente sentenza pronunciata dal TAR Piemonte, Sez. II, 2 aprile 2024 n. 322.

  1. La vicenda processuale

Con propria determinazione l’amministrazione aggiudicataria disponeva di procedere all’affidamento del servizio di refezione scolastica per gli alunni e il personale docente della locale scuola primaria, con opzione di rinnovo per un ulteriore anno, mediante procedura aperta e con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Il disciplinare di gara richiedeva di allegare, all’interno della busta amministrativa, il patto d’integrità, elaborato dalla stazione appaltante, sottoscritto da ciascun concorrente.

Il menzionato patto d’integrità – avente il dichiarato obiettivo di improntare i comportamenti dell’operatore economico e della stazione appaltante a principi di lealtà, trasparenza e concorrenza – veniva, a sua volta qualificato, come “parte integrante di ogni contratto affidato dalla stazione appaltante” e disponeva che “La stazione appaltante […] si avvale della clausola risolutiva espressa, di cui all’articolo 1456 c.c., ogni qualvolta nei confronti dell’operatore economico, di taluno dei componenti la compagine sociale o dei dirigenti dell’impresa, sia stata disposta misura cautelare o sia intervenuto rinvio a giudizio per taluno dei delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis”.

Nell’ambito delle procedure per la verifica del possesso dei requisiti prescritti ex lege e dalla lex specialis, emergeva una dichiarazione resa ai sensi dell’art. 80 D.Lgs. 50/2016, con la quale un concorrente, allegava la circostanza del rinvio a giudizio per la fattispecie di cui all’art. 353, co. 1, c.p. (turbata libertà degli incanti), disposto dal GUP presso il Tribunale di Padova, nei confronti del presidente e amministratore delegato della società, nonché di due amministratori cessati dall’incarico. Nonostante tali dichiarazioni, l’amministrazione procedeva ad aggiudicargli, comunque, l’appalto.

Avverso il provvedimento di aggiudicazione insorgeva il concorrente non aggiudicatario, chiedendone l’annullamento per aver, l’amministrazione aggiudicatrice violato: l’art. 15 del disciplinare di gara in combinato disposto con gli artt. 2, 4.4 e 6 del patto di integrità; l’art. 83 bis del Codice antimafia; il principio della par condicio, dell’auto-vincolo dell’amministrazione, del legittimo affidamento e del buon andamento della pubblica amministrazione.

  • Il patto di legalità o di integrità. Il quadro normativo

Prima di addentrarsi nel merito della pronuncia in commento, appare utile riepilogare il dato normativo in materia di protocollo di legalità.

Sul piano del diritto positivo la prima previsione in materia era rinvenibile nell’art. 176, co. 3, lett. e), d.lgs. n. 163/2006 come novellato dall’art. 3, d.lgs. 31 luglio 2007, n. 113 che aveva previsto che i soggetti aggiudicatori di opere strategiche possano stipulare “appositi accordi con gli organi competenti in materia di sicurezza nonché di prevenzione e repressione della criminalità, finalizzati alla verifica preventiva del programma di esecuzione dei lavori in vista del successivo monitoraggio di tutte le fasi di esecuzione delle opere e dei soggetti che le realizzano” e che tali accordi dovessero prevedere “l’adozione di protocolli di legalità che comportino clausole specifiche di impegno, da parte dell’impresa aggiudicataria, a denunciare eventuali tentativi di estorsione, con la possibilità di valutare il comportamento dell’aggiudicatario ai fini della successiva ammissione a procedure ristrette della medesima stazione appaltante in caso di mancata osservanza di tali prescrizioni”.

Successivamente, l’art. 120 del d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, statuiva che le stazioni appaltanti, nell’ambito degli appalti da aggiudicare secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, potevano concludere “protocolli di intesa” o “protocolli di intenti […] con soggetti pubblici con competenze in materia di salute, sicurezza, previdenza, ordine pubblico nonché con le organizzazioni sindacali e imprenditoriali”.

Solo con la c.d. Legge anticorruzione, il legislatore ha previsto l’operatività dei cosiddetti “Protocolli di seconda generazione”[2]; il riferimento è, chiaramente, all’art. 1, co. 17, della Legge n. 190/2012, a mente del quale: “Le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”.

Con tale norma, dunque, il legislatore ha inteso rafforzare le misure di prevenzione e contrasto all’illegalità nel settore degli appalti pubblici, inserendo nell’ordinamento giuridico una norma attributiva di potere.

Infine, nell’ambito della legislazione antimafia, l’art. 3, co. 7, del Decreto semplificazioni ha introdotto l’art. 83 bis del Codice antimafia, rubricato “Protocolli di legalità”. Il primo comma stabilisce che “Il Ministero dell’interno può sottoscrivere protocolli, o altre intese comunque denominate, per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata, anche allo scopo di estendere convenzionalmente il ricorso alla documentazione antimafia di cui all’articolo 84. I protocolli di cui al presente articolo possono essere sottoscritti anche con imprese di rilevanza strategica per l’economia nazionale nonché con associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale di categorie produttive, economiche o imprenditoriali e con le organizzazioni sindacali”.

A sua volta, il comma 3 del medesimo art. 83 bis, precisa che “Le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto.

Il complesso delle disposizioni attualmente vigenti, non consente, tuttavia, di comprendere quali siano i rapporti tra l’articolo 1, co. 17, della Legge anticorruzione, ove viene contemplata la facoltà della stazione appaltante di prevedere che il mancato rispetto degli impegni assunti con la sottoscrizione del Protocollo di legalità sia causa di esclusione dalla procedura di gara, e l’articolo 83 bis del Codice antimafia, per cui le stazioni appaltanti “prevedono” negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto.

  • L’orientamento del TAR Piemonte

Con la sentenza in epigrafe emarginata, il giudice amministrativo, rispetto alle precedenti letture pretorie, sembra offrire una chiave di lettura alternativa delle norme vigenti in materia di protocolli di legalità, specialmente sotto il profilo degli effetti escludenti delle clausole in essi contenute.

Secondo il TAR piemontese, infatti, i patti di integrità, rispondenti all’esigenza di rafforzare le misure di prevenzione e contrasto all’illegalità nel settore degli appalti pubblici, possono essere inseriti nei bandi di gara in base alla norma attributiva di potere di cui all’art. 1, co. 17, Legge n. 190/2012.

Ciò premesso, i giudici amministrativi chiariscono, poi, che il patto d’integrità soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 s.s., c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l’intento dell’amministrazione in base al contenuto complessivo dell’atto.

Per tale via, il TAR precisa che “Alla stregua, inoltre, del criterio di buona fede ex art. 1366 cod. civ., la perimetrazione degli effetti della clausola è circoscritta solo a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, così da fornire ai cittadini regole di condotta certe e sicure, soprattutto quando possano derivarne conseguenze negative”.

Sicché, è giocoforza ritenere che ove dal patto d’integrità (che codifica una clausola risolutiva espressa e richiama l’art. 1456 c.c.) si ricavi che la finalità ultima sia quella di consentire il rapido svincolo contrattuale della stazione appaltante, tramite il rimedio della risoluzione di diritto – quando l’integrazione dei fatti ivi indicati, incidendo sulle qualità dell’aggiudicatario, pregiudichi la fiducia dell’amministrazione – non vi siano ragionevoli avalli ad opzioni ermeneutiche volte a ricondurre entro i confini applicativi del patto fatti diversi, sul piano oggettivo e temporale, da quelli comunque rilevanti ai fini della risoluzione del contratto; sicché rimangono estranei al campo di efficacia della clausola provvedimenti adottati in epoca antecedente alla selezione dell’aggiudicatario, che sono, invece, assoggettati alla disciplina ordinaria delle cause di esclusione.

In alti termini, un rinvio a giudizio delle figure apicali dell’operatore economico, per taluni dei reati previsti dal patto di integrità, che sia precedente alla gara alla quale l’operatore partecipa, non può integrare il necessario presupposto di applicazione della clausola risolutiva prevista dal patto di integrità, né tantomeno, di quella escludente, qualora la si ritenga operante in un’ottica di efficienza ed economicità dell’azione selettiva del contraente.

Ne consegue che, anche ove sia positivamente stabilito un obbligo per le stazioni appaltanti di prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito l’inosservanza di quanto ivi pattuito come causa di esclusione dalla gara, le stazioni appaltanti, nel rispetto del richiamato parametro di proporzionalità, devono comunque “valutare l’idoneità della condotta a giustificare l’esclusione dalla gara” e adottare la sanzione espulsiva “in ottemperanza ai canoni del procedimento amministrativo che richiedono la garanzia del contraddittorio e l’obbligo di idonea motivazione delle scelte adottate[3].

Dal principio di tassatività delle cause di esclusione si è desunto, inoltre, che il patto d’integrità “fa sorgere obblighi connessi alla specifica procedura cui l’operatore economico partecipa e per la quale sottoscrive il patto e non si riferisce a comportamenti tenuti dall’impresa in occasione di precedenti appalti, anche perché, ad opinare diversamente, si determinerebbe una sovrapposizione di tale disciplina con quella dei “motivi di esclusione”, ovvero della sussistenza dei requisiti di ordine generale”.

In definitiva, la pretesa di annettere, in forza della clausola risolutiva in esame, un’attitudine immediatamente espulsiva all’operato pregresso degli amministratori dell’operatore economico sottoposto alla valutazione, contravviene ai richiamati principi ordinamentali, in quanto mira a dilatare, in modo non consentito, il perimetro delle cause tassative di esclusione.

la pretesa di annettere, in forza della clausola risolutiva in esame, un’attitudine immediatamente espulsiva all’operato pregresso degli amministratori dell’operatore economico sottoposto alla valutazione contravviene ai richiamati principi ordinamentali, in quanto mira a dilatare, in modo non consentito, il perimetro delle cause tassative di esclusione.

  • Conclusioni

Dalla lettura della sentenza in commento, si rilevano alcuni profili di indagine che meritano di essere accennati, nell’attesa di ulteriori pronunce in materia o di futuri interventi normativi, anche di interpretazione autentica, che possano precisare il corretto ambito di applicazione dei Protocolli di legalità.

Anzitutto, emerge chiaramente come il legislatore non abbia mai precisato quali siano i rapporti tra l’articolo 1, co. 17, della Legge anticorruzione, ove viene contemplata la facoltà della stazione appaltante di prevedere che il mancato rispetto degli impegni assunti con la sottoscrizione del Protocollo di legalità sia causa di esclusione dalla procedura di gara, e l’articolo 83 bis del Codice antimafia, per cui le stazioni appaltanti “prevedono” negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto.

Ciò, naturalmente, non può non riverberarsi sul piano della interpretazione applicativa, ove si ritenga che l’inserimento della clausola escludente sia facoltativa nell’ambito dei protocolli di legalità previsti dalla Legge anticorruzione e obbligatorie in quelli disciplinati dal Codice antimafia. Una tale impostazione sarebbe del tutto illogica, oltreché frustrante della ratio sottesa alle due previsioni normative che – evidentemente – deve desumersi essere la medesima.

Probabilmente, parrebbe più coerente col dato normativo ritenere che in entrambi i casi si tratti di una facoltà rimessa alla stazione appaltante e che questa, previa valutazione discrezionale della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e dalla lex specialis, si determini per l’eventuale operatività della clausola escludente nell’ambito del caso concreto.

Oltretutto, il comma 3 dell’art. 83 bis del Codice antimafia non andrebbe letto atomisticamente e in contrapposizione al dettato dell’articolo 1, co. 17, della Legge anticorruzione.

Piuttosto, “l’obbligatorietà” del richiamato comma 3 potrebbe giustificarsi alla luce di un elemento letterale del tutto assente nella corrispondente disposizione anticorruzione.

Mentre, infatti, in quest’ultima, la facoltà si riferisce unicamente all’effetto escludente, nella disposizione antimafia si fa riferimento, alternativamente, all’istituto della risoluzione del contratto, ovvero della esclusione dalla gara.

Sicché, l’imperativo “prevedono” si riferisce alla necessità che la stazione appaltante, una volta adottato il protocollo di legalità di cui al comma 1 dell’articolo 83 bis del Codice antimafia, sia tenuta ad integrare la disciplina di gara con la previsione sanzionatorie previste per i casi di violazione degli obblighi assunti col patto di legalità.

Infine, deve pure ritenersi che l’effetto direttamente escludente sia legato concretamente alla mancanza di volontà dell’operatore di sottoscrivere il patto medesimo, ovvero al venir meno agli obblighi di comunicazione che, generalmente, costituiscono l’essenza delle clausole risolutive e/o escludenti.

Se così non fosse, se, cioè, alla comunicazione da parte dell’operatore economico dell’adozione di eventuali provvedimenti giudiziari – anche antecedenti alla partecipazione alla gara di cui si tratta, per taluno dei reati indicati nel patto di legalità (di norma, corrispondenti a quelli previsti dal vigente art. 94, co. 1, del Codice dei contratti) – corrispondesse una automatica esclusione in fase di gara del medesimo operatore, si preverrebbe alla surrettizia trasformazione di una causa di esclusione facoltativa, attualmente prevista dall’art. 98, co. 3, lett. g) del Codice dei contratti, in automatica, oltreché sfociare nella violazione del principio di parità di trattamento, rispetto agli operatori economici che partecipino a procedure di gara per le quali non siano stati adottati protocolli di integrità o legalità.


[1] Al riguardo, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10 maggio 2022, n. 3646 secondo cui “Limitare alla fase esecutiva del contratto l’ambito di azione del patto di integrità sarebbe illogico prima che non rispondente alle clausole della lex specialis, oltreché frustrante la stessa ratio di simili strumenti a disposizione delle Stazioni appaltanti. Si arriverebbe, peraltro, all’assurdo, logico e teleologico, di aggiudicare la gara a favore di un soggetto per poi risolvere il contratto dopo la stipula”.

[2] Sulla distinzione tra Patto di legalità di prima e seconda generazione, si rinvia alle precisazioni del Consiglio di Stato, Sez. V, 10 maggio 2022, n. 3646.

[3] Al riguardo, si rimanda a TAR Lazio, Roma, sez. II ter, 12 aprile 2022 n. 4384 e C.G.A.R.S., sez. giur., 12 gennaio 2022 n. 32, che, a sua volta, richiama la delibera ANAC 22.12.2020 n. 1120.

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Giuseppe Totino e Avv. Aldo Cimmino
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