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( votes)Decidere. Un esercizio che compiamo ogni giorno, più volte al giorno. Tutta la nostra vita è scandita dalle decisioni che di volta in volta prendiamo. Nulla accade per caso. Siamo noi a deciderlo. Se oggi siamo in un determinato luogo, svolgiamo un certo lavoro, condividiamo la vita proprio con quella persona, è perché noi stessi, giorno dopo giorno, abbiamo creato le condizioni che hanno originato questa specifica realtà.
Poter scegliere, decidere, ci rende liberi. Ci rende titolari del verbo essere. Ci autorizza a poterlo coniugare alla prima persona singolare. “Io sono”. Sono ciò che decido di essere. Tutti noi siamo il risultato della somma, più o meno cosciente, delle scelte che ininterrottamente assumiamo.
Decidere è un’azione singolare. È un atto strettamente individuale che però non manca di diramare effetti sugli altri. Vivendo in un contesto sociale, ogni decisione che prendiamo a livello personale finisce per influenzare la vita di qualcun altro. Di chi rientra nella nostra orbita di affetti, amicizie, conoscenze. In alcuni casi, pur essendo la decisione un gesto essenzialmente solitario, facciamo le nostre valutazioni sulla scorta degli effetti che potrebbero riflettersi su chi frequenta la nostra cerchia di conoscenze. Un’area circoscritta. Limitata. Secondo l’antropologo e psicologo dell’Università di Oxford Robin Dunbar, sarebbero 150 le persone con le quali, nel corso della vita, avremmo intrapreso relazioni più strette. A volte siamo disposti a rinunciare a qualcosa pur di non arrecare danni collaterali a chi ci sta vicino. Le relazioni sono fatte anche di rinunce.
Diverso è il caso di chi è stato eletto per governare. Chi dimora tra i palazzi nei quali si decidono le sorti del paese, ha la responsabilità di definire decisioni che coinvolgeranno tutta la comunità. Loro, le decisioni, anche se impopolari, devono prenderle. È prerogativa del loro “servizio”. A volte saranno acclamati per quel che hanno deciso. Quasi sempre saranno criticati. Le loro scelte collidono spesso con il malumore di chi vive in determinate località, con il malcontento di specifiche categorie professionali, con la reazione dei cosiddetti poteri forti. A differenza di noi, comuni cittadini, che facciamo un passo indietro quando riconosciamo che la nostra decisione può ledere, loro devono procedere. Senza remore. Consapevoli del fatto che, come affermava lo scrittore francese Anatole France, “Non esistono governi popolari. Governare significa scontentare”.
Decidere significa mettere in pratica l’idea del cambiamento. “La politica è tale se prefigura il nuovo, non esiste politica che non prefiguri il nuovo” affermava Ciriaco De Mita, scomparso in questi giorni. Ma a volte si decide di non cambiare. Lo strumento ormai collaudato per decidere di non decidere è la proroga. In Italia proroghiamo di tutto. Prolunghiamo le scadenze di disposizioni immaginate per gestire situazioni ed emergenze circoscritte in un determinato segmento temporale, conferendo loro la capacità di autorigenerarsi che può andare avanti, ad oltranza, fino a tempi imprevedibili. È la mistica alchimia tutta italiana capace di trasformare il temporaneo in definitivo. Miracolo che si manifesta in presenza di interessi particolari, spesso detenuti da una minoranza influente.
Può capitare che lo stallo venga interrotto. Qualcuno, fuori dagli schemi, si pianta nel mezzo del flusso della folla che prosegue ignara verso il baratro. Si volta. Comincia a farsi spazio, controcorrente, avvertendo chi incrocia del pericolo verso il quale sta procedendo: il conformismo delle idee; l’atrofizzarsi dei diritti; il sostegno involontario degli interessi economici e di potere.
Il silenzio dinanzi a tali situazioni è assimilabile alla complicità. Così, a volte, una voce fuori dal coro decide che non può restare in silenzio. Sa a chi rivolgersi. Lo fa. Attiva i canali predisposti dalla legge e ottiene un risultato definitivo. Indiscutibile. Finalmente inderogabile.
Nel nostro caso, a prendere posizione contro una situazione che si sarebbe protratta ancora per tempi ingiustificatamente lunghi è stato il sindaco di Lecce Carlo Salvemini.
Lecce, sinonimo di mare e vacanze. File ordinate di ombrelloni. Cabine dipinte di fresco. Bar all’ombra delle pinete. Balli con l’acqua alle caviglie. Spruzzi. Profumo di cremine e oli solari. Estate. Stazioni balneari. È proprio su iniziativa del primo cittadino leccese che oggi si discute delle gare pubbliche che dovranno essere appaltate per assegnare le concessioni demaniali marittime nel rispetto della direttiva europea del 2006, denominata Bolkestein.
Nel nome della libera concorrenza l’Europa impone agli stati membri di rivedere il sistema delle concessioni, di portare a scadenza quelle esistenti e di programmare un sistema di riassegnazione con bandi pubblici da aprire ogni sei anni. Nel 2016 la Corte di Giustizia Europea bocciava le proroghe ancora esistenti in Italia. La risposta del Governo del 2018 è un ulteriore rinvio fino al 2033.
“I titoli concessori devono avere una scadenza perché le spiagge non sono proprietà privata e inamovibile”, afferma Salvemini che dinanzi alla rinuncia di decidere dei Governi ha portato la questione in seno al Consiglio di Stato. Nel novembre 2021 la sentenza dell’adunanza plenaria di Palazzo Spada sulla necessità di riaffidare tutte le concessioni entro dicembre 2023. Spariranno gli antichi privilegi e i diritti di prelazione sui quali si sosteneva la struttura che ha permesso il tramandarsi delle concessioni per generazioni, per quasi un secolo.
Dinanzi all’incapacità della politica di prendere una decisione, l’intervento della giustizia. Hanno deciso i giudici, sentenziando non solo l’illegittimità delle proroghe in vigore ma anche e soprattutto il fallimento della politica come forza trainante di una società, di assumersi responsabilità, di generare cambiamento, di decidere.