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( votes)Introduzione
Tra gli addetti ai lavori che si occupano anche di sviluppi edilizi, ha suscitato particolare attenzione la Delibera dell’ANAC n. 155 del 30 marzo 2022, con la quale l’Autorità ha sostanzialmente bloccato una operazione di valorizzazione di un immobile appartenente ad un ente pubblico veneziano, che sarebbe stato adibito ad hotel de charme, a fronte di un contratto di locazione della durata di 60 anni.
Il vivo interesse scaturito dalla lettura della Delibera è soprattutto legato all’annoso (per non dire, “costoso”) tema più ampio della valorizzazione degli immobili appartenenti al patrimonio disponibile degli enti pubblici, in particolare di quegli immobili che necessitano di particolari cure manutentive e che, in mancanza di una adeguata valorizzazione, rischierebbero concretamente di essere chiusi e dimenticati, “mancando” così alla funzione pubblicistica che gli è propria: quella della fruizione da parte dei cittadini.
Ebbene, il contesto in cui si muove la Delibera ANAC n. 155/2022 è sicuramente emblematico di questa problematica, e al contempo, è talmente “scenografico” da non potersi obliterare senza immedesimarsi nella disamina.
- La storia del convento che voleva diventare un hotel de charme: ma l’ANAC dice “no”
Ebbene, nel cuore di una città a grande vocazione artistica e turistica come Venezia, precisamente alla Giudecca, sorge un antico convento (meglio, “ospizio”), un tempo destinato ad accogliere giovani orfane. Si tratta di un immobile del sedicesimo secolo che sembra sia stato progettato niente meno che dal Palladio.
L’immobile, che da tempo non è più destinato al suo scopo istituzionale, è nel patrimonio di un ente pubblico (nato nel 2020 dalla fusione di due istituzioni con scopo di assistenza pubblica), con finalità di socio assistenziale.
Il bene, quindi, è dichiaratamente patrimoniale e, come tale, valorizzabile.
Esso è stato concesso in “locazione”, dapprima ad una società che l’ha trasformato in uno spazio per eventi artistici e, poi, in un albergo. Tutti i contratti di locazione sono stati stipulati con durata infra-novennale, ma nel 2019 la società conduttrice viene acquistata da un’altra società, leader dello sviluppo alberghiero “di lusso” e i notevoli investimenti necessari ad attuare la trasformazione in hotel de charme inducono a “ritoccare” – da un lato – la durata della locazione e – dall’altro lato – il canone.
E così, nel 2019, prima della fusione delle due istituzioni benefiche, l’immobile viene concesso in locazione per 30 anni ad una Società, che si impegna a trasformarlo in albergo di lusso, così provvedendo alla sua manutenzione e, in questo senso, anche alla valorizzazione.
Dopo la fusione, un’altra Società chiede di poter utilizzare l’immobile per il medesimo scopo e per altri 30 anni dalla scadenza della precedente “locazione” e l’ente proprietario acconsente … ma non si avvede che le due conduttrici fanno capo al medesimo azionariato e centro di interesse.
A questo punto, nel dicembre 2021 l’ANAC chiede giustificazioni in ordine all’assegnazione – senza gara – di tali “locazioni”, che secondo l’Autorità sono riconducibili (sostanzialmente) alla medesima Società (pur con una diversa ragione sociale), il che violerebbe il disposto dell’art. 1573 cod. civ. (in tal senso, la Suprema Corte, con sentenza n. 2137/2006 ha ricordato “il limite massimo previsto dall’art. 1573 c.c. deve intendersi applicabile non solo quando sia stata pattuita sin dall’inizio una durata eccedente i trenta anni ma anche quando, pur pattuita una durata inferiore, sia stata in contratto altresì prevista la rinnovazione del rapporto per un numero indeterminato di volte, in quanto la pattuizione della rinnovazione è valida ed efficace soltanto nei limiti temporali del trentennio, altrimenti realizzandosi attraverso la pattuizione di successive rinnovazioni proprio ciò che la norma ha inteso escludere in occasione della prima stipulazione del rapporto, con conseguente elusione del divieto dalla stessa norma stabilito.” E similmente ha argomentato anche con la sentenza n. 10869/2021), ma anche – e qui il rilievo di più stretta competenza dell’Autorità – i principi di imparzialità e libera concorrenza che presiedono anche all’accesso ai beni pubblici.
La ragione dell’estensione al caso di specie dei suddetti principi, che governano le gare pubbliche, è da ricercarsi non tanto nella natura oggettiva del negozio giuridico – infatti, la locazione è esclusa dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici (come precisa l’art. 17 del Codice stesso) -, quanto invece nella tipologia soggettiva dell’ente, proprietario del bene in questione.
L’ente attualmente titolare dell’immobile (di fatto “subentrato” nel ”primo contratto” e parte effettiva del “secondo contratto”), infatti, è un “organismo di diritto pubblico”, quindi “è tenuto” a rispettare il Codice dei Contratti pubblici per tutto ciò che attiene le procedure di acquisito e cessione (e anche locazione, a questo punto) di beni (in particolare, se tali beni appaiono di peculiare rilevanza pubblicistica, anche in ragione del loro particolare pregio artistico).
L’Autorità, poi, non manca di sottolineare che il compendio immobiliare in questione è “di altissimo valore e riconducibile ai “contratti attivi” della Pubblica Amministrazione”, per i quali – ancora una volta – è necessario rispettare “iprincipi di economicità, imparzialità, trasparenza e pubblicità, … proprio per le potenzialità economiche” che ne derivano.
La conseguenza di tali riflessioni apre uno scenario di grande attenzione, non solo per il caso concreto, ma anche per gli altri affidamenti di locazioni di beni pubblici, con finalità di valorizzazione dei beni stessi. Da qui, l’importanza di comprendere le motivazioni poste a fondamento della suddetta Delibera dell’Autorità, verificando se ed in che misura siano “esportabili” a casi consimili.
Il “secondo” contratto di locazione (dal 2049 al 2079), infatti, è da ritenersi nullo per violazione dell’art. 1573 cod. civ. (“Salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trent’anni. Se stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta al termine suddetto.”) e, quindi, perché colpito da nullità “per violazione di norma imperativa”, ex art. 1344 cod. civ. Il che, peraltro, potrebbe porre il tema della possibile “conservazione degli effetti del contratto”, ex art. 1424 cod. civ., in ossequio al principio per cui “utile per inutile non vitiatur”.
Ma secondo l’Autorità, anche il “primo”contratto di locazione (dal 2019 al 2049) è da ritenersi nullo, per essere stato affidato “in via diretta”, in violazione dei principi di imparzialità e libera concorrenza di cui si è detto.
E tali vizi si estendono anche all’altro contratto.
L’ANAC non ha la competenza di annullare il contratto (ovvero, i contratti) asseritamente illegittimo, però conclude per l’invio della propria Delibera ai soggetti interessati (per l’adozione di eventuali provvedimenti di tutela o autotutela) ed all’ente vigilante, la Regione Veneto, postulando l’avvio di una indagine in sede contabile.
E infatti, deduce: “Così operando, tuttavia, il confronto concorrenziale non ha avuto modo di esplicarsi in alcun modo atteso che si è proceduto, sostanzialmente, all’affidamento diretto della gestione di un bene (locazione) che costituisce un’occasione di guadagno rilevante. Inoltre, il principio di economicità citato … a sostegno della legittimità del proprio operato, se giustifica il ricorso al modulo della locazione onde assicurare lo sfruttamento delle potenzialità economiche del bene, non consente tuttavia di pretermettere il (concorrente e non alternativo) principio di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, tanto più nei casi in cui, come quello in esame, non è stata compiuta alcuna analisi dei costi/benefici derivanti da siffatta scelta. … infatti, nel corso di istruttoria, ha indicato i vantaggi economici conseguiti attraverso le rinegoziazioni ed il relativo progressivo aumento del canone; tuttavia, non ha fornito elementi atti a comprovare la misura del risparmio conseguito attraverso il meccanismo della risoluzione anticipata e contestuale nuova stipula, rispetto alla disdetta al termine del contratto con indizione di una procedura comparativa per l’individuazione del nuovo conduttore. Per le osservazioni di cui sopra, si ritiene che … abbia disatteso le regole minimali di pubblicità, trasparenza e concorrenza richieste dall’art. 4 del d.lgs. 50/2016.”.
- Il profilo soggettivo: perché il titolare dell’immobile è tenuto al rispetto del Codice dei Contratti pubblici
Innanzitutto, nella Delibera ci si concentra sulla natura pubblicistica dell’ente titolare dell’immobile. Da qui, secondo l’ANAC discende in limine l’applicabilità del Codice dei Contratti pubblici ai “contratti attivi” (da intendersi, questi ultimi, come i contratti dai quali il soggetto pubblico trae un introito di natura economica.).
La prima parte della Delibera in commento, quindi si apre con una attenta ricostruzione delle norme di riferimento applicabili agli enti con finalità socio assistenziali: l’attuale ente proprietario, infatti, non solo ha questa finalità, ma è nato dalla fusione – sancita da un Decreto regionale del dicembre 2019 – di due enti con le stesse finalità.
A seguito della sentenza della Consulta n. 396/1988 sembra venire meno l’aspetto pubblicistico di quelle particolari categorie di enti chiamati “IPAB” (Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza), costituiti in forza del R.D. n. 2841/1923 che, quindi, “potevano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora in possesso dei requisiti di un’istituzione privata.”.
In seguito, con la L. n. 207/2001 (emanata in attuazione della Legge Delega n. 328/2000) le IPAB “sono quindi entrate a pieno titolo nel meccanismo della produzione e dell’erogazione dei servizi di assistenza, sia mediante modelli gestionali e organizzativi di stampo aziendalistico, mantenendo la natura giuridica di diritto pubblico (ASP), sia trasformandosi in più flessibili schemi privatistici.”.
Ma la vera e propria “svolta in senso pubblicistico” delle IPAB avviene, con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha assegnato alle Regioni la competenza in materia di assistenza sociale e, di fatto, ha consentito a ciascuna Regione di “produrre una legislazione differenziata e creando diversi sistemi di assistenza (pur richiamando, in molti casi, la legislazione statale di riferimento). Sulla base degli interventi di cui sopra, si è venuto delineando un sistema di ex IPAB caratterizzate da «una intensa disciplina pubblicistica con una notevole permanenza di elementi privatistici, il che conferisce ad esse una impronta assai peculiare rispetto ad altre istituzioni pubbliche …una sorta di natura ibrida» (Corte Cost. sentenza n. 161/2012).”. In questo alveo di discrezionalità, la Regione Veneto “nonostante i vari progetti di legge presentati negli anni, non è ancora addivenuta ad un riordino della disciplina di cui trattasi”.
Pertanto, l’ANAC desume la natura di “organismo di diritto pubblico” esaminando lo statuto e le finalità dell’ente (come previsto dall’art. 3, comma 1 lett. d) D.Lgs. n. 50/2016, ove si identifica l’”organismo di diritto pubblico” in quelle fattispecie in cui siano compresenti i tre requisiti esplicitati dalla norma stessa, cioè quello “teleologico”, quello “personalistico” e quello “dell’influenza dominante”) “con le evidenti conseguenze in punto di disciplina applicabile.”, perché “La nozione di organismo di diritto pubblico deriva dalla disciplina europea dei contratti pubblici e risulta ispirata alle esigenze di tutela della concorrenza. La ratio sottesa agli interventi della Corte di Giustizia Europea sull’argomento in esame, si apprezza in merito alla necessità di prevenire, da parte di enti formalmente privati ma di fatto esercitanti attività di interesse generale non rientrante nel libero mercato, la possibile elusione delle norme sulla concorrenza ed in particolare l’obbligo di gara previsto dal Codice dei contratti pubblici per la pubblica amministrazione sottratta, ontologicamente, alla disciplina ed alle conseguenze del fallimento.”.
In tale contesto, poi, è di particolare interesse l’inciso “L’organismo di diritto pubblico ha rappresentato, e rappresenta, quindi, strumento essenziale di riequilibro di mercato successiva al fenomeno delle privatizzazioni, concretizzatasi nell’annoso dibattito sulla qualificazione giuridica dei nuovi enti nonché, conseguentemente, sulla disciplina loro applicabile.”.
L’Autorità rileva, nel caso dell’ente proprietario dell’immobile, la compresenza dei tre requisiti normativamente richiesti per poter qualificare il soggetto come “organismo di diritto pubblico”: infatti, l’ente ha una propria soggettività giuridica, ha indiscutibilmente una finalità pubblicistica di interesse generale (id est l’assistenza sociale) e viene governato da un Consiglio di Amministrazione nominato interamente da soggetti pubblici (prefetto di Venezia e Comune di Venezia).
In sintesi, citando la decisione del Consiglio di Stato n. 6272 del 3 settembre 2021, “ricorre il requisito teleologico se l’organismo è stato costituito da un soggetto pubblico appartenente al perimetro allargato della pubblica amministrazione, per dare esecuzione ad un servizio che è necessario, in quanto strettamente connesso alla finalità pubblica dello stesso. In questa prospettiva, dunque, i compiti assegnati all’organismo, e posti alla base della sua istituzione, assumono un carattere “preminente” rispetto alle modalità con cui vengono svolte le attività allo stesso demandate, poiché mentre i primi “sono alla base della nuova modalità organizzativa scelta per perseguire finalità amministrative di interesse generale, dunque concretizzano un particolare modo di auto-organizzarsi della pubblica amministrazione in riferimento al perseguimento di finalità che comunque le appartengono”, le seconde “riflettono il modo di porsi dell’organismo in rapporto al mercato”. Anzi, queste ultime sono destinate a cedere rispetto ai compiti assegnati, in quanto: “a) non sono espressamente citate dalle disposizioni, neppure quelle eurounitarie; b) sono in realtà inidonee a differenziare con chiarezza l’azione pubblica da quella di un operatore economico privato […]; c) sono potenzialmente mutevoli nel tempo, perché non si può escludere che de facto un’attività originariamente non remunerativa lo divenga nel tempo; e viceversa, perda, per l’andamento dei mercati – il cui grado di concorrenzialità buon ben variare – tale effettiva capacità: sicché si tratta di un indicatore in realtà instabile perché soggetto a contingenti circostanze esterne, dunque non preciso e dirimente.”.
Nello specifico, la finalità di interesse generale si rinviene anche dalla considerazione che proprio i beni patrimoniali conferiti all’ente (tra cui, ovviamente, quello oggetto di locazione) assolvono a funzioni sociali e culturali (l’art. 5 dello Statuto dell’ente dispone che “il patrimonio dell’Ente non può essere distolto dal perseguimento delle finalità istituzionali”) e sono gestiti senza perseguire scopi di lucro (non esiste alcuna norma statutaria che preveda distribuzione di utili, ”a conferma del fatto che le rendite vengono utilizzate principalmente come forma di reinvestimento nelle attività statutariamente previste.“).
Tale rilievo non è ininfluente, giacché, come si osserverà in prosieguo, la natura stessa del contratto di “locazione” prevede che – alla scadenza – l’immobile torni nella disponibilità del proprietario, che lo utilizza “sic”, per i suoi interessi (nel caso di specie, le finalità istituzionali dell’ente); e, per l’immobile di che trattasi, mal si concilia la trasformazione in hotel de charme, con le finalità socio-assistenziali (svolte non a livello imprenditoriale) del proprietario.
A seguito dell’analitica disamina, l’ANAC desume che l’ente non abbia ancora subito quella trasformazione in senso privatistico (ipotizzata dalla Consulta con la citata sentenza n. 161/2012) che consentirebbe di non applicare il Codice dei Contratti pubblici e, per converso, la riscontrata natura di Organismo di diritto pubblico conferma “la conseguente sottoposizione dell’attività contrattuale dell’ente alle regole dell’evidenza pubblica. Infatti, come già evidenziato ai sensi del combinato disposto degli artt. 1, comma primo e 3, comma primo lett. a) del d.lgs. 50/2016, l’organismo di diritto pubblico è amministrazione aggiudicatrice e dunque, dal punto di vista soggettivo, … è tenuto ad applicare le disposizioni del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.”.
Ma non è tutto. L’Autorità, infatti, ritiene applicabili i (soli) principi generali del Codice dei Contratti pubblici anche per ragioni oggettive, legate alla natura stessa dei contratti di “locazione”.
- Una breve digressione sulla natura dei contratti in esame
Prima di procedere con l’esposizione delle considerazioni dell’Autorità, sia consentita una breve digressione, volta ad illustrare le personali perplessità in ordine alla natura dei contratti in esame.
La locazione, infatti, è un contratto con una causa tipica, ben delineata dall’art. 1571 cod. civ. che qualifica la locazione come “il contratto con cui una parte … si obbliga a far godere all’altra parte … una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo”.
Nella causa tipica del contratto di locazione, quindi, non è prevista alcuna necessità di procedere alla trasformazione fisica dell’immobile e della sua destinazione d’uso, né alcun obbligo di valorizzazione immobiliare dell’asset. Anzi, sovente tali modifiche sono espressamente vietate.
Nei contratti di che trattasi, invece, l’immobile – inizialmente adibito prevalentemente ad ospitare attività culturali – è diventato un hotel de charme.
Da un lato, ha recuperato il suo splendore artistico, dall’altro viene utilizzato “dal locatore” a scopo di lucro e non per quegli “interessi generali” che identificano le finalità dell’ente titolare.
E, una volta retrocesso al proprietario a “fine-locazione”, l’immobile – divenuto nel frattempo hotel de charme – come può assolvere alle finalità socio assistenziali proprie del titolare?
A questo punto, viene da domandarsi se i contratti in esame non siano più propriamente riconducibili ad una tipologia concessoria.
Certamente, nell’indagine sulla natura dei contratti di che trattasi, non si può dimenticare che la Direttiva Concessioni (n. 23/2014/UE) al “considerando” n. 15 prevede: “Inoltre, taluni accordi aventi per oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico, in regime di diritto privato o pubblico, quali terreni o qualsiasi proprietà pubblica … mediante i quali lo Stato oppure l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore fissa unicamente le condizioni generali d’uso senza acquisire lavori o servizi specifici, non dovrebbero configurarsi come concessioni ai sensi della presente direttiva. Ciò vale di norma per i contratti di locazione di beni o terreni di natura pubblica che generalmente contengono i termini che regolano la presa di possesso da parte del conduttore, la destinazione d’uso del bene immobile, gli obblighi del locatore e del conduttore per quanto riguarda la manutenzione del bene immobile, la durata della locazione e la restituzione del possesso del bene immobile al locatore, il canone e le spese accessorie a carico del conduttore.”.
Apparentemente, dunque, i “beni di natura pubblica” (concetto ben più ampio rispetto ai “beni demaniali” del primo periodo) concessi in “locazione” – anche ai fini della modifica della destinazione d’uso – finalizzata allo sfruttamento dei beni stessi, non rientrano nel novero delle “concessioni”.
A fortiori, quindi si comprende il dispositivo dell’art. 10, comma 8, lett. a) della stessa Direttiva, ove si prescrive che “La presente direttiva non si applica alle concessioni per: … a) l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni;”.
Dunque, nel caso in esame si tratterebbe non necessariamente di un “contratto di locazione” – inteso nella causa tipica a questo attribuita – ma piuttosto di un modello molto simile a quello delle “concessioni” demaniali, ovvero le ben note “concessioni di valorizzazione”, recentemente balzate alla ribalta della cronaca – ancora risuonano le decisioni “gemelle” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021, cui recentemente ha fatto eco la Suprema Corte, Sez. III con la sentenza n. 15676 del 22 aprile 2022 – proprio per le medesime problematiche legate alle modalità di attribuzione e di rinnovo delle stesse.
In altre parole, quindi, è proprio la natura “ibrida” dei contratti di che trattasi, che esula dalla tipicità della locazione, che sembra riproporre le stesse tematiche già affrontate dall’Adunanza Plenaria e dalla Suprema Corte – e dalla Corte di Giustizia e dall’Autorità Antitrust prima di esse -, quasi invogliando l’ANAC ad esprimere anch’essa le sue considerazioni sul punto.
Ma anche l’ANAC non riesce – su questo punto – a fornire indicazioni precise sulle modalità da seguire per l’affidamento di questo tipo di “locazioni/concessioni” e così, anche in questa occasione, traspare l’esigenza di predisporre un “modello” a sé stante.
Proprio per tenere conto delle peculiarità legate alla manutenzione e sfruttamento commerciale degli immobili pubblici – che comunque deve tenere conto della fluttuante realtà urbanistica e socio-economica in cui detti immobili sono collocati – occorrerebbe predisporre un modulo di gara affine alla concessione, o ad altri modelli di partenariato pubblico privato, che essendo “dedicato” alla rivalutazione e utilizzazione dei beni immobili pubblici, si potrebbe perciò denominare “partenariato per la valorizzazione”.
Invero, questa tipologia di “concessione” non è che la moderna erede dei “programmi unitari di valorizzazione” e delle “concessioni di valorizzazione” che, sempre con particolare riguardo ai beni culturali, erano prototipi di strumenti di partenariato già disciplinati dall’art. 3-bis nel D.L. n. 351/2001 (convertito con la L. n. 410/2001), ove si preconizzava di attivare meccanismi di sviluppo e trasformazione urbana con i quali si poteva provvedere anche alla trasformazione in senso imprenditoriale dei beni pubblici, garantendone in definitiva la conservazione e la fruizione.
Lo stesso iter, poi, è stato ri-editato nella successiva stagione delle cartolarizzazioni, avviata con l’art. 58 L. n. 133/2008 – stavolta con l’importante distinzione che venivano escluse le locazioni dei beni pubblici, affidate all’Agenzia del Demanio con l’art. 12 L. n. 111/2011 -.
Il semplice meccanismo alla base di queste forme di partenariato consiste nell’individuazione di un immobile che necessita di attenzione e manutenzione, nel consentirne la riqualificazione, anche riconvertendone l’uso con finalità imprenditoriali ed affidandolo a soggetti privati, nel fissare la durata del contratto commisurandola all’equilibrio economico/finanziario degli investimenti effettuati.
Invece, l’Autorità si limita a ricordare: ”in ogni caso, per quanto concerne l’ambito di applicazione oggettiva dell’evidenza pubblica, occorre riferirsi anche principi generali dei Trattati a tutela della concorrenza, da cui derivano i principi di pubblicità, trasparenza, non discriminazione e mutuo riconoscimento. Tali principi sono stati dettati in maniera più specifica delle Direttive del 2014 in tema di appalti e concessioni di servizi e recepiti dal legislatore nazionale con il d.lgs. 50/2016.”. Ecco, quindi, il riferimento ai “principi generali” ispiratori delle Direttive euro-unitarie, trasfusi nel Codice dei Contratti Pubblici, ma nulla si dice sullo “strumento” utilizzabile, salvo (poco oltre) qualche accenno al modello della “gara informale, previa pubblicazione di un avviso pubblico o manifestazione di interesse”.
Anche in questo caso, quindi, il Legislatore è il convitato di pietra presente al tavolo, ma non gli vengono “apparecchiati” gli strumenti per poter prendere una decisione, in termini normativi o almeno procedurali.
- Il profilo oggettivo: perché anche un contratto di locazione di un immobile pubblico è assoggettato al rispetto del Codice dei Contratti pubblici
Come si è detto, l’Autorità ritiene che il negozio giuridico posto in essere sia riconducibile ai “contratti attivi” stipulati da uno dei soggetti tenuti all’applicazione del Codice dei Contratti pubblici.
E questo, indipendentemente dalla circostanza (che l’ente titolare non ha mancato di sottolineare) che i contratti attivi di locazione non sono soggetti alle disposizioni del D.Lgs. n. 50/2016.
“Nella comunicazione di avvio dell’istruttoria è stato invece evidenziato come il correttivo al Codice dei contratti (d.lgs. n. 56 del 2017) abbia inserito all’art. 4 del d.lgs. 50/2016 la locuzione “contratti attivi”, recependo le indicazioni formulate dal Consiglio di Stato nel parere n. 782 del 30 marzo 2017. Ne consegue che l’affidamento dei contratti attivi, e dunque anche le locazioni quali quelle di cui trattasi, pur non essendo sottoposto alla disciplina di dettaglio del d.lgs. 50/2016, è comunque sottoposto all’osservanza dei principi generali a tutela della concorrenza previsti dall’art. 4 per tutti i contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del Codice dei contratti pubblici.”. Ciò, quindi, “avrebbe imposto, per l’individuazione del conduttore, l’espletamento quantomeno di una gara informale, previa pubblicazione di un avviso pubblico o manifestazione di interesse, che individuasse gli elementi essenziali del contratto di locazione ed i criteri di individuazione del locatore, assicurando l’attuazione dei principi comunitari di pubblicità trasparenza, imparzialità e par condicio, oltre che corollari del principio di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione.“.
L’ANAC, poi, riprende il fil rouge già presente nelle già citate decisioni “gemelle” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021, osservando: “occorre altresì tenere conto del vantaggio economico che i privati trarranno dal bene, espressamente adibito, in base ai contratti di locazione, a struttura ricettiva alberghiera, e dunque costituente un’occasione di guadagno rilevante, che avrebbe imposto, anche sotto questo aspetto, l’adozione di una procedura trasparente, con criteri di assegnazione prestabiliti, all’esito di una comparazione tra più soggetti potenzialmente interessati all’utilizzo del bene, a tutela dei principi comunitari pro-concorrenziali.”
E, ancor più, l’Autorità sembra fare il controcanto all’Adunanza Plenaria quando sottolinea che: “per il diritto comunitario, infatti, i contratti pubblici costituiscono un’occasione di guadagno per gli operatori economici, essendo in grado di attribuire vantaggi economicamente rilevanti e di alterare il funzionamento del mercato. Le libertà economiche sancite dal Trattato e i principi di libero mercato e tutela della concorrenza sarebbero infatti vanificati se l’affidamento dei contratti pubblici che comportano un’occasione di guadagno venissero affidati sulla base di criteri non concorrenziali, in assenza di procedure in grado di assicurare la par condicio e la trasparenza.”.
Come si enunciava, però, al momento di indicare – come pure sarebbe nelle sue attribuzioni – una procedura corretta da seguire per l’assegnazione di queste tipologie di contratti, ebbene, in questo punto l’ANAC non procede oltre, riservandosi soltanto considerazioni di carattere generale.
Tra queste, emblematicamente, l’osservazione che risponde ai dubbi espressi dall’ente proprietario circa l’inapplicabilità del Codice dei Contratti pubblici alle locazioni: “L’obbligo di gara, ancorché informale, che si desume dai principi generali a tutela della concorrenza, è stato, infatti, esteso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia anche ai contratti diversi da quelli oggetto delle direttive … ai contratti gratuiti ma economicamente interessati ed ai contratti attivi. Tali contratti costituiscono infatti, un’opportunità di guadagno economicamente rilevante, anche indiretta, in grado di alterare il funzionamento del mercato”.
Ma in questo inciso, probabilmente, và cercata quellaportata “espansiva” della Delibera, che porta a ritenere i concetti espressi come “esportabili” ad altri casi consimili. Ove vi fossero dubbi, sul punto, l’Autorità reitera il motivo delle sue censure, appuntandole, infine, anche contro la rinegoziazione del “primo contratto” di locazione: anche questa effettuata con modalità ritenute anticoncorrenziali e non sufficientemente trasparenti.
Secondo l’ANAC, infatti, l’ente titolare dell’immobile “nel corso di istruttoria, ha indicato i vantaggi economici conseguiti attraverso lerinegoziazioni ed il relativo progressivo aumento del canone; tuttavia, non ha fornito elementi attia comprovare la misura del risparmio conseguito attraverso il meccanismo della risoluzioneanticipata e contestuale nuova stipula, rispetto alla disdetta al termine del contratto con indizionedi una procedura comparativa per l’individuazione del nuovo conduttore.”, perciò “si ritiene che … abbia disatteso le regole minimali di pubblicità…poste a tutela della trasparenza e concorrenza e richieste dall’art. 4 D.Lgs. 50/2016.”.
E “tale meccanismo, che si traduce in sostanza in un affidamento diretto di un bene contendibile alivello comunitario, appare lesivo dei principi di libera concorrenza, par condicio e pubblicità al paridelle proroghe e dei rinnovi dei contratti pubblici, ammessi solo in ipotesi eccezionali, come ha piùvolte ribadito l’Autorità in materia di contratti di appalto (si vedano ex multis le Delibere n. 576 e591 del 28 luglio 2021).”.
Con riguardo all’ultima linea difensiva dell’ente proprietario – che sosteneva la sostanziale ”convenienza” dell’operazione effettuata, con un maggiore introito in termini di canoni di locazione – l’Autorità ha ancora una volta posto in dubbio la bontà della strategia adottata; in particolare, ha sottolineato l’impossibilità di valutare la presunta “convenienza”, in mancanza di prove comparative.
Anche sotto tale aspetto, quindi, sarebbe stata auspicabile una indagine di mercato che avrebbe potuto consentire di verificare la convenienza di rinegoziare il contratto di locazione, in luogo della indizione di una nuova procedura di affidamento.
E, nel frattempo, il vecchio convento si interroga su quando arriverà il suo momento di potersi legittimamente fregiare del titolo di hotel de charme: Cenerentola non abita nel 2022!