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( votes)L’instabilità venutasi a creare a seguito delle decisioni dell’Adunanza Plenaria potrebbe trovare una forma di attenuazione con la creazione di partnership pubblico-private. Una forma assai peculiare è quella della S.T.U.
Introduzione
Il 9 novembre 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulle concessioni balneari ad uso ricreativo con le decisioni n. 17 e n. 18, definite subito come le “sentenze gemelle” in quanto di contenuto pressocché identico, con le quali ha affrontato il tema divenuto ormai spinoso della compatibilità con la normativa comunitaria.
La portata delle due decisioni, enfatizzata dalla autorevolissima fonte, era quasi annunciata: lo stesso decreto (il n. 160 del 2021) del Presidente del Consiglio di Stato con il quale era stata avocata d’ufficio la questione all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a. aveva motivato “rilevato che la questione … riveste una particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria, onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”.
Tuttavia, il dibattito giurisprudenziale – affiancato da quello politico – aveva talmente accentuato il tema della compatibilità comunitaria con la c.d. “Direttiva Bolkestein” (Direttiva n. 123/2006) che era ormai ineludibile una decisione autorevole sul punto.
Alla fine, però, la decisione dell’Adunanza Plenaria ha creato un senso di instabilità fra gli operatori del settore, cui sta affannosamente facendo seguito il dibattito politico, in cerca di soluzioni che possano dare respiro ad un settore già molto provato (da ultimo in conseguenza della crisi pandemica) e, al contempo, rispettare le esigenze pro-concorrenziali individuate dal Consiglio di Stato nell’interpretazione delle disposizioni comunitarie.
Si premette subito che in questo articolo si esplorerà – quale possibile soluzione proconcorrenziale che tuteli anche la stabilità degli operatori balneari – una particolare formula di partnership pubblico – privata: la Società di Trasformazione Urbana (S.T.U.), disciplinata dall’art. 120 D.Lgs. n. 267/2000 e lasciata pressoché indenne (per non dire, totalmente ignorata) dalla riforma delle società partecipate di cui al D.Lgs. n. 175/2016.
- Le “sentenze gemelle” dell’Adunanza Plenaria e le conseguenti le problematiche di stabilità delle concessioni balneari
Per poter meglio valutare le opportunità offerte dal “modello S.T.U.”, è d’uopo premettere qualche breve inciso sulle due decisioni dell’Adunanza Plenaria, volte soprattutto ad enucleare i limiti riscontrati dal Collegio rispetto all’attuale assetto normativo, tale da farne conseguire i tre principi di diritto (ormai ben noti): “1. Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative – compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 – sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. 2. Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto. 3. Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.” (così Ad. Plen. n. 18/2021, ma principi del tutto analoghi sono enunciati anche dalla decisione n. 17/2021).
In buona sintesi (e giacché sulle due decisioni il dibattito è stato lungo e non é ancora sopito), l’Adunanza Plenaria ha certificato la incompatibilità dell’attuale quadro normativo (incluso l’adeguamento conseguente all’emergenza Covid) con la “Direttiva Bolkestein” (precisamente, con l’art. 12, ma di riflesso anche con l’art. 49 T.F.U.E., dal quale la Direttiva Bolkestein prende le mosse) che, negando legittimità alle proroghe automatiche ed al “diritto di prelazione” per il gestore uscente, postula, invece, l’obbligo di gara per l’assegnazione delle concessioni balneari a scopo turistico-ricreativo – ovviamente, a pari condizioni con gli altri Paesi europei -.
Tale statuizione, però, non è di per sé una novità: ricorda, infatti, l’Adunanza Plenaria che la Corte di Giustizia UE si era già pronunciata sul punto con la sentenza “Promoimpresa”. Si legge: “La questione è stata già in gran parte scandagliata dalla Corte di giustizia U.E., con la sentenza 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 eC-67/15, “Promoimpresa”, la quale ha affermato, in sintesi, i seguenti principi: a) l’articolo 12, paragrafi1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; 2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo.”
A valle della sentenza comunitaria – invero, cristallina nei principi enunciati – si è aperta una pagina normativa e giurisprudenziale nazionale, volta a cercare di conciliare le esigenze di stabilità dei gestori balneari (che, spesso, hanno effettuato investimenti ingenti), con la chiara previsione euro-unitaria.
Così – anche recentemente ed in conseguenza della ben nota crisi pandemica, che ha obiettivamente inciso sul settore turistico balneare – si sono moltiplicate le “proroghe normative”, con l’inevitabile corredo del contenzioso, sino ad innescare un processo di necessario chiarimento, culminato nelle due decisioni dell’Adunanza Plenaria in commento.
Vi è da dire, comunque, che in senso conforme si erano già pronunciate l’AGCM (basti citare il noto Parere su segnalazione AS 1720 reso al Comune di Roma sulle concessioni per il commercio su aree pubbliche, pubblicato sul Bollettino dell’Autorità n. 9 del 1° marzo 2021), la giustizia amministrativa e la Consulta (che, in particolare con le sentenze 10, 101, 139 e 218 del 2021 ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme regionali che disponevano proroghe delle concessioni demaniali esistenti).
L’aspetto innovativo contenuto nelle decisioni in esame è dato, quindi, innanzitutto dalla previsione di una comfort zone: un termine sino al 31 dicembre 2023 entro il quale il legislatore dovrà provvedere a regolamentare la materia, conformemente alle disposizioni comunitarie. Allo scadere del termine, i provvedimenti concessori sinora rilasciati perderanno automaticamente validità – in quanto contrastanti con le norme self executing di derivazione comunitaria (nella decisione n. 17/2021, al paragrafo 34, si affronta il tema dell’applicabilità diretta della Direttiva Bolkestein, ricordando che la già citata sentenza Promoimpresa, nel 2016, dava motivatamente atto di tale immediata applicabilità della Direttiva) ed i titolari di tali concessioni non potranno difendere i loro diritti in sede giurisdizionale (giacché ii giudici nazionali sono tenuti a disapplicare le concessioni, in quanto esse si pongono in contrasto con il quadro normativo europeo).
Anzi, ove si intendesse applicare la tutela prevista dal codice della navigazione (in particolare, gli articoli 49 e 1161) i gestori vedrebbero acquisiti al patrimonio demaniale tutti i manufatti (però con l’interessante inciso del diritto ad un indennizzo, di cui si dirà infra) ed approntamenti realizzati sul demanio marittimo (ma anche lacuale e fluviale) ed essi stessi sarebbero passibili di arresto in quanto “occupanti abusivi” del demanio.
L’Adunanza Plenaria ha anche stabilito che gli attuali operatori non possono azionare il “legittimo affidamento” nei provvedimenti amministrativi (le concessioni) già emessi, in quanto “qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato” (sic la sentenza della Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09) e, comunque, era noto il contenuto della lettera di messa in mora della Commissione europea del 3 dicembre 2020, ove si evidenzia “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. In secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili”.
E lo stesso vale per i concessionari che hanno ottenuto sentenze che confermano la legittimità delle proroghe ad essi attribuite, giacché: “dette circostanze inducono a ritenere che, anche rispetto ai rapporti oggetto di sentenza passata in giudicato favorevole per il concessionario, gli effetti della non applicazione della normativa in esame si produrranno al termine del periodo transitorio sopra illustrato.”.
Dunque, affidamento sì – perché questo è stata la leva degli investimenti effettuati da concessionari -, ma non “legittimo”: perciò viene a cadere anche il “diritto di preferenza” per il gestore uscente.
Quanto alla sorte degli investimenti effettuati dagli attuali operatori economici, l’Adunanza Plenaria cita ancora la sentenza Promoimpresa, con la quale la Corte di Giustizia aveva stabilito i principi informanti il tema: “Con specifico riferimento al legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, funzionale ad ammortizzare gli investimenti da loro effettuati, … ha constatato che gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale, precisando che si possa tenere conto di tali considerazioni solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva e che comunque necessiti al riguardo una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. La Corte di giustizia ha del resto rinvenuto detta situazione rispetto a una concessione attribuita nel 1984, “quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza, esigendo che la risoluzione di siffatta concessione sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare, dal punto di vista economico.”.
In conclusione, l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi.
Le due decisioni dell’Adunanza Plenaria sembrano auspicare anche una rivisitazione dei canoni – sinora quasi simbolici e auspicabilmente da riparametrarsi alla redditività del bene demaniale – e della durata delle concessioni – che dovrebbe, da un lato, tenere conto degli investimenti dei concessionari per l’approntamento dei manufatti necessari all’esercizio e sfruttamento del bene e, dall’altro lato, dell’esigenza di garantire il diritto alla concorrenza, senza “tenere bloccato” il bene demaniale troppo a lungo (con l’effetto di sottrarlo nuovamente al mercato).
Prima del 31 dicembre 2023 – un tempo brevissimo, se si considera la portata del problema, per di più nell’ambito dell’attuale congiuntura economica – il legislatore deve sostanzialmente allinearsi all’obbligo di gara, non potendo più ri-editare norme (variamente dilatorie) in contrasto con la Direttiva Bolkestein. Infatti: “si precisa sin da ora che eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni altra disciplina comunque diretta ad eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere.”.
Ed è proprio sull’oggetto della gara che occorre concentrare l’attenzione, perché le due decisioni dell’Adunanza Plenaria hanno anche il merito di illuminare un altro aspetto: la “natura” di queste “concessioni” (sia consentito definirle così, in virgolettato), giacché entrambe le pronunce concordano sul fatto che non si tratti di “concessioni”, così come definite dalla Direttiva 2014/23/UE e, conseguentemente, dal Codice dei Contratti pubblici.
In proposito, è assai chiaro il paragrafo 16 (lo stesso, in entrambe le decisioni), ove si afferma: “Con riferimento al “mercato” delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, tali criteri devono evidentemente essere “adattati”, tenendo conto della particolarità del settore di mercato che viene in considerazione. … Nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative a venire in considerazione come strumento di guadagno offerto dalla p.a. non è il prezzo di una prestazione né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio avente rilevanza economica. Al contrario degli appalti o delle concessioni di sevizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo. Basti pensare che il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime.”.
Altrettanto chiara è la sottolineatura nel paragrafo 50 (anch’esso uguale in entrambe le decisioni), che distingue la fattispecie in esame dalle concessioni vere e proprie: “Se i criteri dettati dall’art. 12 della direttiva 2006/123 non impongono il rispetto del principio di rotazione (dettati in relazione al diverso settore dei contratti pubblici disciplinati dalle direttive del 2014, le nn. 23, 24 e 25),nondimeno, nel conferimento o nel rinnovo delle concessioni, andrebbero evitate ipotesi di preferenza “automatica” per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato (circostanza che potrebbe verificarsi anche nell’ipotesi in cui le regole di gara consentano di tenere in considerazione gli investimenti effettuati senza considerare il parametro di efficienza quale presupposto di apprezzabilità dei medesimi).”.
Quindi, le “gare” saranno espletate non per l’assegnazione di un appalto o di una concessione – intesi in senso proprio e così regolate dal Codice dei Contratti pubblici – bensì per “l’attribuzione di un diritto”, ovvero “di un beneficio”, quello di poter utilizzare a fini imprenditoriali il suolo demaniale.
Si tratta, quindi, di una “tipologia di gare” tutta da creare, non essendo regolate da una norma tipica – ed anzi sfuggendo all’applicazione delle “direttive del 2014, le nn. 23, 24 e 25”, regolanti “il settore dei contratti pubblici.”.
A questo punto, dopo aver escluso l’obbligo del principio di rotazione, le due decisioni elencano alcuni punti di interesse sui quali il legislatore potrebbe concentrare le sue riflessioni de jure condendo, per formulare i criteri di assegnazione delle concessioni balneari.
Infatti: “La scelta di criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi è, infatti, essenziale per garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni. A tal fine i criteri di selezione dovrebbero dunque riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essere collegati all’oggetto del contratto e figurare nei documenti di gara.“.
Non si esclude una forma di valorizzazione del territorio, anzi espressamente si afferma: “nell’ambito della valutazione della capacità tecnica e professionale potranno, tuttavia, essere individuati criteri che, nel rispetto della par condicio, consentano anche di valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri), anche tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale; anche tale valorizzazione, peraltro, non potrà tradursi in una sorta di sostanziale preclusione all’accesso al settore di nuovi operatori.”.
E ancora, l’Adunanza Plenaria si spinge sino a mutuare concetti in tutto simili a quelli applicabili alle vere e proprie concessioni: “Ulteriori elementi di valutazione dell’offerta potranno riguardare gli standard qualitativi dei servizi (da incrementare rispetto ad eventuali minimi previsti) e sostenibilità sociale e ambientale del piano degli investimenti, in relazione alla tipologia della concessione da gestire. La durata delle concessioni dovrebbe essere limitata e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, al fine di evitare la preclusione dell’accesso al mercato. Al riguardo, sarebbe opportuna l’introduzione a livello normativo di un limite alla durata delle concessioni, che dovrà essere poi in concreto determinata (nell’ambito del tetto normativo) dall’amministrazione aggiudicatrice nel bando di gara in funzione dei servizi richiesti al concessionario. La durata andrebbe commisurata al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa e non dovrebbe eccedere il periodo di tempo ragionevolmente necessario al recupero degli investimenti, insieme ad una remunerazione del capitale investito o, per converso, laddove ciò determini una durata eccessiva, si potrà prevedere una scadenza anticipata ponendo a base d’asta il valore, al momento della gara, degli investimenti già effettuati dal concessionario. È inoltre auspicabile che le amministrazioni concedenti sfruttino appieno il reale valore del bene demaniale oggetto di concessione. In tal senso, sarebbe opportuno che anche la misura dei canoni concessori formi oggetto della procedura competitiva per la selezione dei concessionari, in modo tale che, all’esito, essa rifletta il reale valore economico e turistico del bene oggetto di affidamento.”.
Questi importanti passaggi sottolineano l’esigenza di integrazione dei concessionari con gli altri servizi turistici e, più in generale, con le infrastrutture già presenti nel territorio – che in qualche modo costituiscono l’indotto della concessione -. Se è vero, infatti, che il concessionario gestisce un bene di grande capacità attrattiva in termini turistici (la spiaggia), è altresì vero che esso necessita di un bouquet di servizi ancillari che ne rendono possibile lo sfruttamento in concreto. Si pensi, ad esempio, ad uno stabilimento balneare che è privo di infrastrutture alberghiere e commerciali in prossimità e – al contempo – soggiace ai limiti urbanistico-edilizi propri delle aree demaniali (che non consentono di edificare strutture alberghiere o commerciali nelle immediate vicinanze del demanio idrico).
Insomma, a differenza delle usuali concessioni, quelle demaniali non sviluppano la loro potenzialità solo per effetto dell’attività del concessionario, ma piuttosto per un insieme di elementi già pre-esistenti nel tessuto urbanistico sui quali la concessione si deve armonicamente innestare e con i quali deve operare in sinergia. Diversamente, l’operato del concessionario si troverebbe a scontrarsi con elementi fuori controllo come, ad esempio, la disponibilità di idonee infrastrutture di supporto o uno sviluppo urbanistico disarmonico (ad esempio, la localizzazione di strutture in senso lato industriali nelle vicinanze) – tale da rendere estremamente volatile la valutazione della sostenibilità economico-finanziaria della concessione -.
A questo punto, ci si potrebbe domandare se – tenuto conto degli elementi indicati dal Consiglio di Stato – vi possano essere altre forme di assegnazione delle concessioni demaniali che – pur nel rispetto degli obblighi di concorrenza – possano tenere conto anche delle esigenze di stabilità dei concessionari e, comunque, dell’evidente ed inscindibile collegamento fra le concessioni balneari e il complessivo settore turistico del territorio.
Per questo si è ipotizzato di valutare una soluzione che “nasce” proprio nel contesto urbanistico: la S.T.U.
- Le “S.T.U.”: cosa sono e a cosa servono
Ma cosa sono le S.T.U.? E, soprattutto, questo modello di partnership pubblico-privata, che applicazioni pratiche ha? Per rispondere alla prima domanda, occorre fare riferimento ed indagare, senza pretese di esaustività, l’applicazione che si è data, nel tempo, all’art. 120 D.Lgs. n. 267/2000 (modificato in materia dalla L. n. 166/2002), che recita: “(1.) Le città metropolitane e i comuni, anche con la partecipazione della provincia e della regione, possono costituire società per azioni per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana, in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti. A tal fine le deliberazioni dovranno in ogni caso prevedere che gli azionisti privati delle società per azioni siano scelti tramite procedura di evidenza pubblica. (2.) Le società di trasformazione urbana provvedono alla preventiva acquisizione degli immobili interessati dall’intervento, alla trasformazione e alla commercializzazione degli stessi. Le acquisizioni possono avvenire consensualmente o tramite ricorso alle procedure di esproprio da parte del comune. (3.) Gli immobili interessati dall’intervento di trasformazione sono individuati con delibera del consiglio comunale. L’individuazione degli immobili equivale a dichiarazione di pubblica utilità, anche per gli immobili non interessati da opere pubbliche. Gli immobili di proprietà degli enti locali interessati dall’intervento possono essere conferiti alla società anche a titolo di concessione. (4.) I rapporti tra gli enti locali azionisti e la società per azioni di trasformazione urbana sono disciplinati da una convenzione contenente, a pena di nullità, gli obblighi e i diritti delle parti.”.
Si nota immediatamente che l’elemento chiave dell’istituto è costituito dalla modalità con la quale deve essere scelto il socio privato: con una procedura competitiva – non tipizzata, ma che si può mutuare per analogia con quelle previste dal D.Lgs. n. 175/2016 per la scelta del socio privato nell’ambito delle Società partecipate -.
I partner privati, in questa ottica, potranno appartenere a diverse categorie: ad esempio, imprenditori (società di costruzioni, società immobiliari, etc.), finanziatori (istituti di credito), proprietari delle aree oggetto dell’intervento di trasformazione e, eventualmente (essendo escluso l’obbligo di rotazione), anche i precedenti concessionari, che potrebbero apportare al progetto anche gli immobili già realizzati e sui quali – si ricorderà – vantano comunque un diritto ad essere indennizzati (non è chiaro, peraltro, con quali criteri tale indennizzo debba essere calcolato – probabilmente con il valore di mercato, alla stregua di un esproprio). Essenzialmente, infatti, il criterio di selezione dei soci privati è inscindibilmente connesso con l’obiettivo di valorizzazione che la S.T.U. si prefigge e, certamente, deve essere connotato da capacità organizzativa ed imprenditoriale, ma anche dalla necessaria conoscenza del territorio e delle sue potenzialità e limiti.
La tipologia e definizione del ruolo dei soci privati della S.T.U., quindi, è strettamente legata al conseguimento degli obiettivi posti indicati nella convenzione e, a seconda delle esigenze, i soci potranno essere imprenditori, appaltatori, gestori o proprietari di aree (aggiuntive rispetto a quelle demaniali) che, ad esempio, vogliono essere parte di un progetto di valorizzazione e ristrutturazione urbanistica più ampio, che coinvolga anche i loro immobili, integrandoli nell’ambito del progetto relativo allo sfruttamento delle aree pubbliche.
Ciò si desume, del resto, proprio dal tenore letterale della norma, che prevede a carico della S.T.U. l’acquisizione degli immobili – il che è del tutto compatibile con forme di partecipazione sub specie di apporto -. Per quanto riguarda il tema della partecipazione dei proprietari/soci, la circolare del Ministero dei LL.PP. Prot. n. 622/Segr. dell’11 dicembre 2000 (interpretativa dell’Istituto, come si dirà meglio infra) ne riconosce l’ammissibilità, precisando: “le modalità di conclusione dei contratti pubblici sono nella sostanza tre: l’asta pubblica (procedura aperta), la licitazione privata (procedura ristretta) e la trattativa privata (procedura eccezionale).Pur non stabilendo l’art.120 le modalità attraverso le quali devono essere selezionati i soci privati, è stata già evidenziata l’applicabilità analogica delle disposizioni in tema di società miste per l’erogazione di servizi pubblici e, in particolare, del Dpr 16 settembre 1996, n.533. E questo deve, dunque, essere considerato il sistema generale di scelta dei soci privati … Occorre, tuttavia, avvertire che il ricorso alla trattativa privata, in luogo della procedura degli incanti e della licitazione, è un mezzo eccezionale; pertanto, il provvedimento con il quale si decide di ricorrere alla procedura della trattativa privata deve tener conto delle speciali ed eccezionali circostanze che hanno consigliato tale procedura, attraverso una esposizione delle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione ad avvalersi di tale strumento, quali ad esempio le richiamate motivazioni economico-finanziarie”.
Essendo, oggi, profondamente mutato il quadro normativo in materia di società pubbliche e di selezione dei soci, un intervento de jure condendo potrebbe allineare i corretti principi enunciati dalla circolare ministeriale con quelli contenuti nel D.Lgs. n. 175/2016 – così ottenendo l’effetto di dare nuova linfa (e maggiore certezza) a questo peculiare strumento di partnership pubblico-privata -.
Va detto che le S.T.U. nascono già prima del T.U.E.L., per effetto dell’art. 17, comma 59 della Legge n. 127/1997 (poi trasfuso nell’art. 120 del T.U.E.L., D.Lgs. n. 267/2000); successivamente, l’istituto è stato ulteriormente delineato per effetto della citata Circolare del Ministero dei LL.PP. Prot. n. 622/Segr. dell’11 dicembre 2000.
Nei suoi primi anni di vita, l’istituto è stato fortemente incentivato dal Governo, tanto che l’art. 7, comma 8 della Legge n. 21/2001 ha finanziato studi di fattibilità finalizzati proprio a valutare la sostenibilità economico-finanziaria delle S.T.U. per i Comuni e le Città metropolitane e la conseguente progettazione. Poi, le S.T.U. sono state quasi “dimenticate” sia dal legislatore della spending review, sia dalla grande riforma delle società pubbliche operata con il D.Lgs. n. 175/2016, forse perché ritenute uno strumento desueto e scarsamente utilizzato dalle amministrazioni.
Quest’ultima norma, però, non solo ha lasciato tracce che possono ricondurre al “modello S.T.U.” (vds. art. 4, comma1, lett. a), b), c) e soprattutto comma 3), ma ha recepito anche le esigenze di un modello di società pubblica strutturata per la gestione di servizi generali (ad esempio, le aree mercatali, ma anche le aree demaniali marittime), per la valorizzazione degli immobili (intesi anche come aree) di proprietà pubblica tramite conferimento in società che li utilizzino a scopo imprenditoriale ed – non ultima – la necessità di mantenere il collegamento tra immobili e territorio. L’intima connessione con il territorio, infatti, garantisce da un lato lo sviluppo di tutto l’indotto e, dall’altro lato, consente l’armonico sviluppo in senso imprenditoriale dei beni pubblici, evitando un innaturale sfruttamento piegato a mere logiche di sostenibilità economico-finanziaria.
E infatti, là dove le S.T.U. sono tuttora operative (e non solo in Italia, basti pensare alla S.T.U. che gestisce il Porto di Rotterdam), i risultati in termini di sviluppo del territorio sono assai lusinghieri e statisticamente esse raccolgono operatori economici proprio presenti sul territorio o che, comunque, sono interessati a stabilire un legame di lungo termini con l’area di interesse.
Oltre a ciò, ne va’ riconosciuto alle S.T.U. il pregio innegabile della versatilità – sia in termini di oggetto sociale, sia in termini di dimensionamento -, ben potendosi adattare il modello ad un porto turistico, ad un’area mercatale, ad una città di grandi dimensioni (si prenda ad esempio la S.T.U. Bagnoli Futura a Napoli, per la valorizzazione dell’omonimo arenile) oppure ad un piccolo Comune (come nell’esempio delle S.T.U. di Foligno e di Reggio Emilia, per la gestione di spazi mercatali) , adattando di conseguenza lo schema standard all’economia locale, all’indotto di riferimento e – in termini urbanistici – alla tipologia di territorio di riferimento, valorizzandone gli elementi caratterizzanti.
Questo tipo di società vedono generalmente il contributo pubblico sostanziarsi nel conferimento del bene immobile da valorizzare – ovvero, più propriamente (tenuto conto, nell’ipotesi di specie, che si tratta di demanio) di un diritto parziale (di uso o di superficie) -. Il privato (che può essere anche un gruppo di soci, in cui ciascuno effettua un piccolo investimento), propone il progetto di valorizzazione, che verrà gestito sulla base di una “convenzione” (che, effettivamente, ha tutte le caratteristiche della “concessione” – strumento attualmente utilizzato per assegnare gli spazi pubblici ai soggetti privati che vogliono utilizzarli a scopo commerciale -) con il soggetto pubblico.
Quanto alle finalità perseguibili con questo strumento, la citata Circolare del Ministero LL.PP. dell’11 dicembre 2000 mostra quanto l’istituto in esame possa essere duttile, infatti l’oggetto delle Società può essere il più vario ed ampio: dalla ristrutturazione urbanistica, agli “interventi di particolare complessità e valore economico, per i quali l’amministrazione pubblica intende associare alla propria iniziativa partner privati non solo allo scopo di apportare capitali integrativi a quelli pubblici, ma anche per giovarsi di provate e qualificate esperienze per la gestione economica dell’iniziativa”.
Il modello operativo di questo tipo di società è talmente schematico, da potersi adattare a qualsiasi realtà economica e territoriale ed a qualsiasi dimensionamento – addirittura riuscendo a risultare convincente in termini di raccolta di capitale -, anche modellandosi in forma di “S.T.U. holding”, che agisce come valorizzatore di più realtà locali e, perciò, mantiene un legame con il territorio che si protrae per un lungo arco temporale.
A questo proposito, si deve osservare che la citata Circolare interpretativa n. 622/2000 amplia anche il senso della “finalità di attuazione degli strumenti urbanistici”, spiegando: “le STU hanno … i caratteri per divenire strumento ordinario di intervento per operazioni di rilevante interesse urbanistico e, di conseguenza, la loro applicazione è ancillare rispetto all’evoluzione, anche in atto, della strumentazione urbanistica sia a livello generale che attuativa”.
Quindi, il riferimento dello scopo sociale alla “attuazione degli strumenti urbanistici vigenti” va’ letto come riferito non solo al Piano Regolatore Generale, ma anche a specifici piani attuativi, poiché “l’uso del termine ‘in attuazione’ invece di ‘in conformità’ allo strumento urbanistico, dizione che normalmente si rinviene nelle leggi di settore e che trova motivazione nella volontà del legislatore di sottolineare pregiudizialmente che con gli interventi della società si devono conseguire gli obiettivi generali fissati dal piano … in sede di piani attuativi possono essere contestualmente approvate varianti allo strumento urbanistico generale che riguardino una diversa allocazione di previsioni di dettaglio del piano regolatore, aventi cioè carattere prevalentemente edilizio, ovvero riguardanti la dotazione di opere pubbliche, ovvero di interesse generale. In altri termini, si riconosce la possibilità di un adeguamento in fase attuativa delle scelte puntuali operate – alcune volte in modo inutilmente rigido – a livello di strumento urbanistico generale. In presenza, perciò, di piani di natura strutturale, ovvero di normative che consentano adeguamenti edilizi in fase esecutiva, è possibile ricondurre il termine ‘in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti’ entro i confini interpretativi dei principi che sovrintendono alle finalità che perseguono una maggiore continuità tra le scelte di pianificazione territoriale e la componente attuativa conseguente all’attivazione delle trasformazioni urbanistiche, anche con riferimento agli aspetti gestionali” (sic, sempre la Circolare interpretativa n. 622/2000).
In questo contesto, non sembra costituire un ostacolo dedicare una S.T.U. alla gestione delle aree balneabili, o delle aree mercatali, magari divise per Comuni e riunendo un gruppo di più soci (o, magari, piccoli soci), che possano efficacemente occuparsi della gestione.
Infatti, la “valorizzazione” degli immobili non coincide necessariamente con la loro “commercializzazione”, essendo invece l’obiettivo delle S.T.U. più ampio (e, comunque, puntualmente indicato nella “convenzione”) e, cioè, quello di creare un ritorno economico grazie allo “sfruttamento” di alcuni immobili pubblici: obiettivo che ben può essere compatibile con la gestione degli immobili stessi, in luogo della loro alienazione.
Nel caso della S.T.U. votata alla gestione, quindi, non si porrà il tema della durata della convenzione (vds., ad esempio, ancora una volta la convenzione regolante la S.T.U. Reggiana), ben potendosi prevedere un’attività da svilupparsi nel corso tempo, soprattutto nel caso in cui la “trasformazione urbana” abbia dato luogo a strutture qualificabili come servizi generali o addirittura servizi pubblici locali (si pensi, ad esempio, alle aree mercatali, ma anche agli stabilimenti balneari che offrono, magari, servizi di piccolo rimessaggio/diporto).
E, in ogni caso, come già sopra evocato, un intervento chiarificatore da parte del legislatore, potrebbe costituire un “volano di rilancio” di questo strumento che, attraverso un restylyng dell’istituto, ne mantenga le caratteristiche e la natura e ne chiarisca o aggiorni magari le modalità operative.
Insomma, una sorta di delicata chirurgia estetica che ringiovanisca l’istituto, conservandone al contempo la naturalezza e la sua potenzialità espressiva.