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Nell’ambito dell’attività contrattuale del RUP risulta di particolare interesse distinguere la fattispecie della revoca dalla fattispecie del recesso dal contratto.
Le due fattispecie, che consentono di non giungere a contratto nel primo caso, o sciogliere il vincolo contrattuale nel secondo caso, devono essere tenute nettamente distinte considerato che operano in ambiti totalmente differenti. Una non perfetta distinzione determina l’adozione di eventuali provvedimenti, adottati dal RUP, (o più in generale dalla stazione appaltante) scorretti aprendo anche la strada ad eventuali risarcimenti per l’appaltatore.
La revoca
La revoca dell’aggiudicazione si situa nel momento (ancora) pubblicistico del procedimento amministrativo che può portare alla stipula del contratto d’appalto. Un momento, e, conseguentemente, un provvedimento pubblicistico limitato temporalmente fino a quando non viene stipulato il contratto.
Ciò è quanto risulta chiaramente statuito dalla giurisprudenza. In questo senso, in tempi recenti, il TAR Campania Napoli sez. IV 3/8/2020 n. 3495, che, confrontando l’istituto del recesso con quello della revoca, ha rammentato che nella fase contrattuale non trova applicazione l’istituto della revoca, ma quello del recesso (art. 109 d.lgs. 50/2016) che prevede, peraltro, l’obbligo di indennizzare il contraente che patisce lo scioglimento del vincolo contrattuale (in merito, v. C.d.S. Ad. Plen. n. 14/2014 e, più di recente, T.A.R. Firenze, sez. I, 02/02/2018, n.187). Così come previsto, e si dirà più avanti, dall’articolo 21-quinques della legge 241/90.
In pratica, con il contratto d’appalto (una volta stipulato) non si può più parlare di revoca dell’aggiudicazione.
La revoca dell’aggiudicazione, rappresenta uno strumento improprio se usato nella fase civilistica (che prende avvio dalla stipula del contratto o nella fase di esecuzione qualora consentita immediatamente, senza la stipula del contratto (art. 8, comma 1, lett. a) della legge 120/2020).
Nel caso trattato nella sentenza sopra richiamata, inoltre, è apparso assolutamente sproporzionato in rapporto a irregolarità dei documenti contabili finalizzati a consentire il pagamento della prestazione. Simili irregolarità, evidentemente, non incidendo sulla prestazione offerta, avrebbero, casomai, potuto determinare il RUP all’applicazione di penali (dedotte/disciplinate nel contratto) o sospensione dei pagamenti delle prestazioni fatta salva la possibilità, estrema, della risoluzione del contratto e non il recesso che implica, al netto di alcune fattispecie vincolanti previste nell’articolo 109 (come si dirà più avanti), una rivalutazione dell’interesse pubblico sotteso all’appalto che porta la P.A. a sottrarsi, in modo motivato, dai vincoli discendenti dal contratto.
Una volta stipulato il contratto, in sostanza, le problematiche vanno affrontate e risolte considerando un diverso ambito di azione che è quella privatistico, in cui la PA non può più incidere sul rapporto con atti autoritativi che invece possono essere utilizzati nella fase dell’evidenza pubblica.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato.
In questo senso lo stesso giudice di Palazzo Spada (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 1174/2016) secondo un indirizzo consolidato con cui si è ribadita l’illegittimità di un provvedimento di revoca dell’aggiudicazione di una gara, adottato ogni volta in cui risulti già stipulato il contratto di appalto “atteso che in tal caso la revoca verrebbe adottata in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti, non essendo tale l’aggiudicazione della gara in seguito alla stipulazione del contratto; in tal caso, per sciogliersi dal vincolo discendente da quest’ultimo, l’Amministrazione deve ricorrere all’istituto del recesso” che ora trova disciplina nell’articolo 109 del Codice dei contratti.
Con il contratto (Cfr., Consiglio di Stato sez. V, sentenza n. 3909/2017) si costituisce tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici. Questa situazione paritetica, come si è detto sopra, ha per conseguenza l’impossibilità di adottare atti “autoritativi” (come può essere il provvedimento di revoca). Eventuali riscontri circa sopravvenuti motivi di inopportunità alla realizzazione del programma negoziale (e di conseguenza una rinnovata valutazione nel merito che compete alla PA) si riconduce all’esercizio del potere contrattuale di recesso previsto dalla normativa sugli appalti pubblici. Ed il recesso, ovviamente a differenza della revoca, non può che riverberarsi sul contratto.
La revoca dell’aggiudicazione si situa nel momento (ancora) pubblicistico del procedimento amministrativo che può portare alla stipula del contratto d’appalto. Un momento, e, conseguentemente, un provvedimento pubblicistico limitato temporalmente fino a quando non viene stipulato il contratto.
L’ambito di applicazione della revoca
L’ambito di applicazione della revoca, quindi, è quello pubblicistico ed incide su atti amministrativi adottati dalla stazione appaltante.
In particolare, per ciò che in questa sede interessa, la revoca riguarda l’aggiudicazione che non viene disposta o, appunto, viene revocata in quanto ottenuta senza il rispetto del quadro di regole (es. il possesso dei requisiti) stabilita con la legge di gara. In quanto tale ha, ovviamente, una possibilità potenziale di esplicarsi limitata temporalmente ovvero fino al momento in cui non sia stato stipulato il contratto d’appalto. Successivamente a questo momento la possibilità di sciogliersi anticipatamente rispetto alla naturale conclusione del contratto è data solo dal recesso (art. 109 del Codice dei contratti) o dalla risoluzione ex art. 108.
A differenza di questi ultimi che sono atti privatistici, la revoca è un provvedimento pubblicistico di revisione della decisione adottata dalla PA.
Incidendo, quindi, su un momento pubblicistico incardina la competenza del giudice amministrativo a differenza dell’atto privatistico del recesso/risoluzione (pur a presupposti differenti) che, incidendo quindi in una fase civilistica che prende avvio con la stipula o con l’esecuzione del contratto, incardina la competenza del diverso giudice ordinario.
Il fondamento della revoca
Un importante chiarimento in tema di revoca (anche negli appalti pubblici) si deve, tra gli altri, al Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 5026/2016 e prima ancora all’A.P. 14/2014.
In via generale, ricorda il giudice, la revoca dei provvedimenti amministrativi è disciplinata dall’art.21- quinquies della legge n.241 del 1990 (e introdotta dall’art.14 della legge n.15 del 2005), configurandosi come strumento di autotutela decisoria “preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc (e, quindi, non retroattiva), di un atto ad efficacia durevole, in esito a una nuova (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico alla conservazione della sua efficacia”. Ovviamente nel caso dell’aggiudicazione si è in presenza di un atto non ad effetti durevoli ma istantanei.
I presupposti per il valido esercizio della revoca, quindi, sono definiti dall’art.21- quinquies (come modificato dall’art.25, comma 1, lett. b-ter, d.l. n.133 del 2014) e consistono – al netto delle situazioni patologiche in cui insiste l’obbligo di ritarare il provvedimento favorevole all’appaltatore – nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto (imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento) e in una rinnovata (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico originario (tranne che per i provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici).
Ovviamente non si tratta di un potere utilizzabile in modo arbitrario anche se “il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’Amministrazione procedente”.
La configurazione normativa del potere di autotutela in esame si presta, quindi, ad essere censurata, nella misura in cui ometta “un’adeguata considerazione e un’appropriata protezione delle esigenze, sempre più avvertite come ineludibili, connesse alla tutela del legittimo affidamento (qualificato come “principio fondamentale” dell’Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE) ingenerato nel privato danneggiato dalla revoca e all’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall’atto originario, nonché, più in generale, alla stabilità dei provvedimenti amministrativi”.
La revoca, pertanto, esige una interpretazione ed una applicazione coerente i principi generali dell’ordinamento della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione e del buon andamento dell’azione amministrativa (che ne implica, a sua volta, l’imparzialità e la proporzionalità) imponendo pertanto una lettura e attuazione secondo i canoni stringenti che il Consiglio di Stato, nella pronuncia citata ha ravvisato:
a) nella revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario che dev’essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare;
b) non è sufficiente, ricorda il giudice, per legittimare la revoca, un ripensamento tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione dell’atto originario;
c) le ragioni addotte a sostegno della revoca, che devono essere chiaramente esplicitate, devono rivelare la consistenza e l’intensità dell’interesse pubblico che si intende perseguire con il ritiro dell’atto originario;
d) la motivazione della revoca, sottolinea il giudice, “dev’essere profonda e convincente, nell’esplicitare, non solo i contenuti della nuova valutazione dell’interesse pubblico, ma anche la sua prevalenza su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi dal provvedimento originario a lui favorevole”.
La revoca riguarda l’aggiudicazione che non viene disposta o, appunto, viene revocata in quanto ottenuta senza il rispetto del quadro di regole (es. il possesso dei requisiti) stabilita con la legge di gara. In quanto tale ha, ovviamente, una possibilità potenziale di esplicarsi limitata temporalmente ovvero fino al momento in cui non sia stato stipulato il contratto d’appalto.
La revoca negli appalti pubblici
Un primo punto chiarito dal giudice è che la revoca resta impraticabile dopo la stipula del contratto d’appalto, “dovendo utilizzarsi, in quella fase, il diverso strumento del recesso (come chiarito dall’Adunanza Plenaria con la decisione in data 29 giugno 2014, n.14), prima del perfezionamento del documento contrattuale, al contrario, l’aggiudicazione è pacificamente revocabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 13 aprile 2011, n.2291)”.
La questione, poi, affrontata e risolta dal giudice nella sentenza in commento è quella della definizione della cornice legittimante l’esercizio del potere di revoca da parte della stazione appaltante.
Non v’è dubbio che, al netto della presenza di diritti veri e propri, la definizione del procedimento di aggiudicazione, con l’assegnazione dell’appalto “consolida in capo all’impresa aggiudicataria una posizione particolarmente qualificata ed impone, quindi, all’Amministrazione, nell’esercizio del potere di revoca, l’onere di una ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti”.
Non può sfuggire, e ciò è una ovvietà, che un conto è il ritiro/revoca di una aggiudicazione legittima altro è la revoca di una aggiudicazione oggettivamente illegittima ed in quanto tale “non dovuta”.
Il ritiro di un’aggiudicazione legittima, si legge nella sentenza richiamata, “postula, in particolare, la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenze di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi (cfr. Cons. St., sez. V, 19 maggio 2016, n.2095)”.
Anche per le procedure di aggiudicazione soggette alla disciplina del d.lgs. n.50 del 2016, il paradigma legale di riferimento resta, “l’art.21-quinquies l. n.241 del 1990, e non anche la disciplina speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle concessioni)”.
La revoca per inidoneità della prestazione
Un caso di particolare rilievo che legittima la revoca è rappresentata dalla certificata inidoneità della prestazione a soddisfare le esigenze sottese all’appalto. Nel caso ultimo richiamato, la legittimazione del provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione, nel caso in cui l’aggiudicazione risulti legittima (non viziata) deve fondarsi “sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura”.
Appare chiaro, infatti, che l’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha “diligentemente confezionato la sua offerta in conformità alle prescrizioni della lex specialis può essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa Amministrazione (e, quindi, dovuta dall’aggiudicatario) a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre”.
Al contrario, ovviamente, non può in alcun modo giudicarsi idoneo a giustificare la revoca un ripensamento circa il grado di satisfattività della prestazione messa a gara.
Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle aggiudicazioni sulla sola base di un differente e sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si finirebbe, inammissibilmente, per consentire una “indebita alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza che devono presidiare la corretta amministrazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti”.
La revoca, adeguatamente motivata, dell’aggiudicazione legittima apre quindi (solo) alla possibilità del riconoscimento del c.d. danno emergente. Ovvero alla possibilità di essere ristorati per le spese sostenute per competere.
Prerogativa che riguarda quindi non solo gli atti durevoli ma “istantanei” come l’aggiudicazione visto l’espresso riconoscimento intervenuto con l’articolo 21-quinques, comma 1-bis della legge 241/90.
La revoca, adeguatamente motivata, dell’aggiudicazione legittima apre quindi (solo) alla possibilità del riconoscimento del c.d. danno emergente. Ovvero alla possibilità di essere ristorati per le spese sostenute per competere.
Il recesso
Il recesso trova una specifica disciplina già nella pregressa legge di contabilità n. 2248/1865, art. 345 (poi abrogato dall’articolo 256 del decreto legislativo 163/2006) in cui si chiariva come risultasse “facoltativo all’Amministrazione di risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importare delle opere non eseguite”.
La norma trova(va) il suo omologo nel codice civile nell’articolo 1671 (Recesso unilaterale dal contratto) per l’appalto privato in cui si puntualizza che “il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”. E la dottrina ha evidenziato come non esistano differenze tra la prerogativa della stazione appaltante di recedere dal contratto e tra il recesso “civilistico” del committente privato.
Il potere di recesso trova oggi una compiuta disciplina nell’articolo 109 del codice dei contratti. Articolo che, accanto a delle ipotesi vincolate ovvero ai sensi dell’articolo 88 (“termini per il rilascio della comunicazione antimafia”), comma 4 – ter “quando la sussistenza delle cause di decadenza, di sospensione” o di divieto di partecipazione in caso di collegamento tra imprese “è accertata successivamente alla stipula del contratto, alla concessione di lavori o all’autorizzazione al subcontratto” nonché nel caso in cui “gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto” (art. 92, comma 4 del Codice dei contratti).
Negli altri casi, prosegue il comma 1 dell’articolo 109 del Codice, “la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque momento previo il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell’importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite”.
L’esercizio del potere di recesso si pone in termini simili a quanto previsto per il procedimento amministrativo in generale (ex art. 6 e art. 10-bis della legge 241/90) esigendo una previa comunicazione (di competenza del RUP) dei motivi con un preavviso di non meno di 20 giorni “decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori, servizi o forniture ed effettua il collaudo definitivo e verifica la regolarità dei servizi e delle forniture”.
I commi 2 e 4 dell’articolo 109 si occupano deli aspetti economici relativi al pagamento delle prestazioni svolte e dei materiali di cantiere che devono essere accettati dal direttore dei lavori o, nel contratto di beni/servizi, dal direttore dell’esecuzione se nominato o, in difetto, dal RUP.
Il comma di chiusura dell’articolo 109 prevede lo sgombero obbligatorio dei materiali non accettati dal direttore dei lavori/direttore dell’esecuzione che viene imposto d’ufficio a pena di intervento sostitutivo della stazione appaltante con spese a carico dell’appaltatore.
Il recesso incontra una ipotesi simmetrica che riguarda l’esecutore come previsto nell’articolo 5, comma 5 del DM 49/2018 (dedicato alla disciplina dei poteri/prerogative del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione) in cui si puntualizza che nel caso in cui “la consegna avvenga in ritardo per causa imputabile alla stazione appaltante, l’esecutore può chiedere di recedere dal contratto. Nel caso di accoglimento dell’istanza di recesso l’esecutore ha diritto al rimborso delle spese contrattuali effettivamente sostenute e documentate” (sempre entro precisi limiti quantitativi fissati dai successivi commi 12 e 13). Un riscontro negativo apre le porte alla possibilità di ottenere il risarcimento danni (sempre art. 5, comma 14 del DM citato).
Non a caso, il DM 49/2018 chiarisce che l’istanza di recesso dell’appaltatore deve avere adeguata disciplina, quanto a casi in cui può essere ammesso, nel capitolato d’appalto. In questo senso l’articolo 5, comma 5 del DM citato precisa che “La stazione appaltante indica nel capitolato di appalto gli eventuali casi in cui è facoltà della stessa non accogliere l’istanza di recesso dell’esecutore”.
Il DM 49/2018 chiarisce che l’istanza di recesso dell’appaltatore deve avere adeguata disciplina, quanto a casi in cui può essere ammesso, nel capitolato d’appalto. In questo senso l’articolo 5, comma 5 del DM citato precisa che “La stazione appaltante indica nel capitolato di appalto gli eventuali casi in cui è facoltà della stessa non accogliere l’istanza di recesso dell’esecutore”