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Focus approfondito sulle fonti del diritto nell’ordinamento con riferimento al rapporto intercorrente tra le norme interne che regolano la materia degli appalti e le direttive comunitarie. La risoluzione di alcune antinomie. Le finalità delle disposizioni comunitarie al fine dell’applicazione comune di principi in materia di appalti

1. Il diritto UE: effetti sulle disposizioni legislative dei suoi Stati membri

L’ordinamento giuridico interno opera tenendo conto della peculiarità della presenza delle fonti del diritto dell’Unione europea la quale dispone di personalità giuridica e di un proprio ordinamento giuridico. Il diritto UE ha un effetto diretto ed indiretto sulle disposizioni legislative dei suoi Stati membri, entrando a far parte del sistema giuridico di ciascuno Stato membro e costituendo fonte di diritto. L’ordinamento giuridico dell’Unione Europea è normalmente suddiviso in diritto primario (trattati e principi generali del diritto), diritto derivato (sulla base dei trattati) e diritto complementare.

L’ordinamento giuridico interno opera tenendo conto della peculiarità della presenza delle fonti del diritto dell’Unione europea la quale dispone di personalità giuridica e del proprio ordinamento giuridico. Il diritto UE ha un effetto diretto ed indiretto sulle disposizioni legislative dei suoi Stati membri, entrando a far parte del sistema giuridico di ciascuno Stato membro e costituendo fonte di diritto

Per esercitare le competenze dell’Unione le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da conseguire. La decisione invece è obbligatoria in tutti i suoi elementi e se individua i destinatari è obbligatoria nei confronti di questi. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti. (Articolo 288 del TCE).

La direttiva, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, è una delle fonti del diritto dell’Unione europea dotata di efficacia vincolante, è adottata congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea per il raggiungimento degli scopi previsti dai Trattati, perseguendo un obiettivo di armonizzazione delle normative degli Stati Membri. Obiettivo principale della direttiva non è, come per il regolamento, l’unificazione del diritto, bensì, in individuati settori ed al fine di applicare i medesimi principi, il ravvicinamento delle legislazioni all’interno dell’Unione europea. 

2. Gli appalti pubblici e le finalità delle fonti normative interne e UE

Il diritto dei contratti pubblici è costituito da norme di fonte sovranazionale, statale e infrastatale, da norme di diritto pubblico e di diritto privato. La prima norma che nel nostro ordinamento si è occupata degli appalti risale al R.D n. 2440/1923, recante <<Nuove disposizioni sul l’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato>>, e il relativo regolamento di attuazione, il R.D. n. 827/1924, nonché, con specifico riferimento ai contratti di appalto di opere pubbliche, l’all. F alla l. n. 2248/1865. 

Nei decenni sono intervenute molte altre normative speciali o di settore e la ratio delle fonti ha sempre mirato a garantire la corretta gestione delle risorse pubbliche ed il rispetto dei principi di legalità e di imparzialità della p.a. Le norme europee in materia di appalti pubblici sono state adottate alla fine degli anni Settanta con le prime direttive europee in materia: la ratio delle fonti di origine europea è stata quella di tendere al raggiungimento della promozione e della tutela della concorrenza.

La ratio delle fonti interne ha sempre mirato a garantire la corretta gestione delle risorse pubbliche ed il rispetto dei principi di legalità e di imparzialità della p.a. La ratio delle fonti di origine europea è stata quella di tendere al raggiungimento della promozione e della tutela della concorrenza


Il diritto comunitario è intervenuto a disciplinare la materia dei contratti pubblici a partire dagli anni Settanta tenuto conto che i contratti pubblici impegnano risorse  per un ammontare di oltre il 16% del prodotto interno lordo dell’Unione Europea ed in considerazione del fatto che l’attività negoziale della P.A. incide sulle libertà fondamentali tutelate dal Trattato dell’Unione europea: sulla libertà di circolazione delle merci; sulla libertà delle prestazioni; sulla libertà di circolazione dei servizi; sulla libertà di stabilimento.

L’obiettivo della politica comunitaria in tema di appalti pubblici è sempre stato quello di predisporre le condizioni di concorrenza necessarie al fine di non creare situazioni di discriminazione, per pervenire ad un utilizzo razionale del denaro pubblico, per rendere accessibile agli operatori economici un mercato unico in condizioni di parità con le altre imprese provenienti dal medesimo Stato cui appartiene la stazione appaltante. L’applicazione dei principi comunitari al mercato interno, secondo un orientamento consolidato dell’UE, garantisce una migliore allocazione delle risorse economiche e un utilizzo più razionale dei fondi pubblici e permette agli enti pubblici di ottenere prodotti e servizi della migliore qualità disponibile al prezzo più vantaggioso, incentivando la competitività delle imprese europee e rafforzando il rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento ed efficienza, riducendo così i rischi di frode e di corruzione.

L’obiettivo della politica comunitaria in tema di appalti pubblici è sempre stato quello di predisporre le condizioni di concorrenza necessarie al fine di non creare situazioni di discriminazione, per pervenire ad un utilizzo razionale del denaro pubblico, per rendere accessibile agli operatori economici un mercato unico in condizioni di parità con le altre imprese provenienti dal medesimo Stato cui appartiene la stazione appaltante.

3. Le norme comunitarie e la disciplina degli appalti, la valutazione dei rapporti tra le norme interne e dell’Unione europea in caso di contrasto. La disapplicazione

L’Unione europea si è dotata di una legislazione volta a coordinare le regole nazionali, imponendo obblighi che riguardano, in primis, la pubblicità dei bandi di gara e criteri imparziali per l’esame delle candidature.

Negli anni l’Unione europea ha deciso di semplificare e coordinare la normativa in materia di appalti pubblici e ha adottato a tal fine quattro direttive. Tre di queste direttive sono state accorpate, a fini di chiarezza e semplificazione, nella direttiva 2004/18/CE relativa agli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi e nella direttiva 2004/17/CE relativa ai settori di acqua, energia, servizi di trasporto e servizi postali. Con la direttiva 2009/81/CE sono state introdotte disposizioni specifiche per gli appalti nel settore della difesa, allo scopo di facilitare l’accesso ai mercati della difesa degli altri Stati membri.

L’introduzione delle norme comunitarie hanno quindi profondamente modificato la configurazione del diritto nazionale e la disciplina degli appalti pubblici è sottoposta quindi alle norme di due ordinamenti differenti.

I rapporti tra norme di fonte comunitaria e norme di fonte nazionale vanno valutati, da parte delle singole amministrazioni, sulla base del principio, costantemente affermato dalla Corte di giustizia, di prevalenza delle prime sulle seconde. Per tale ragione non va tenuto conto della norma nazionale in contrasto con le norme dell’Unione (c.d. Disapplicazione) e delle prime va fornita una lettura costituzionalmente orientata al fine di rendere applicabile in concreto e non solo in teoria il principio o la regola comunitaria (c.d. Effetti utile). A fronte di ciò tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili” con quelle europee direttamente applicabili. Numerosissime sono le sentenze che hanno progressivamente contribuito a definire gli assetti attuali, come descritti.

L’introduzione delle norme comunitarie hanno quindi profondamente modificato la configurazione del diritto nazionale e la disciplina degli appalti pubblici è sottoposta quindi alle norme di due ordinamenti differenti

Inizialmente con la sentenza n. 14 del 1964, la Corte Costituzionale aveva ritenuto che gli atti comunitari immessi nel nostro ordinamento dovevano essere valutati in base al criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo e, quindi, considerati abrogabili da leggi interne posteriori. Successivamente nel caso di conflitto le leggi interne sarebbero dovute essere impugnate davanti alla Corte costituzionale per un vaglio di legittimità (cfr. sent. n. 232 del 1975). La terza fase della giurisprudenza costituzionale ha invece confermato l’impostazione della nostra Corte con quella della Corte di Giustizia ed è tuttora valida. Infatti, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, è stato valorizzato il primato del diritto comunitario, che si afferma attraverso il potere-dovere del giudice comune di disapplicare le norme interne in contrasto con regolamenti comunitari (o con altre norme comunitarie direttamente applicabili), senza bisogno di sollevare questione di costituzionalità sulle prime.

La Corte è andata poi oltre definendo che non spetta soltanto al giudice disapplicare la normativa interna con tali atti incompatibile, ma anche alla pubblica amministrazione (sent. n. 389 del 1989), con riferimento quindi anche agli organi amministrativi.

In particolare già da alcuni decenni, la Corte ha affermato nella sentenza n. 170 del 1984 e in altre successive, <<il riconoscimento dell’ordinamento comunitario e di quello nazionale come ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti, porta a considerare l’immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata, la cui giustificazione costituzionale va imputata all’art. 11 della Costituzione e al conseguente particolare valore giuridico attribuito al Trattato istitutivo delle Comunità europee e agli atti a questo equiparati. Ciò significa che, mentre gli atti idonei a porre quelle norme conservano il trattamento giuridico o il regime ad essi assicurato dall’ordinamento comunitario – nel senso che sono assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione, di abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di quell’ordinamento-, al contrario le norme da essi prodotte operano direttamente nell’ordinamento interno come norme investite di< forza o valore di legge>, vale a dire come norme che, nei limiti delle competenze e nell’ambito degli scopi propri degli organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario >>.

Da ciò deriva che, nel campo riservato alla loro competenza, le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali, anche se di rango legislativo, senza tuttavia produrre, nel caso che queste ultime siano incompatibili con esse, effetti estintivi. L’eventuale conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno, produce un effetto di disapplicazione delle disposizioni interne, seppure nei limiti di tempo e nell’ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi. Tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli artt. 52 e 59 del Trattato C.E.E. nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea.

La disapplicazione, quale modo di risoluzione delle antinomie normative, presuppone la contemporanea vigenza delle norme reciprocamente contrastanti, non producendo alcun effetto sull’esistenza o meno delle stesse.

Gli Stati membri è necessario che apportino le modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie. Tale esigenza si collega al principio della certezza del diritto, sul piano comunitario, invece, rappresenta una garanzia cosi essenziale al principio della prevalenza del proprio diritto su quelli nazionali da costituire l’oggetto di un preciso obbligo per gli Stati membri (v., in tal senso, Corte di giustizia delle Comunità europee: sent. 25 ottobre 1979, in causa 159/78; sent. 15 ottobre 1986, in causa 168/85; sent. 2 marzo 1988, in causa 104/86).

Tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge)  tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli artt. 52 e 59 del Trattato C.E.E. nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea

La Corte costituzionale ha quindi accettato le conclusioni del giudice europeo sulla diretta applicabilità delle direttive ed estende questa caratteristica alle sentenze interpretative e alle sentenze di condanna della Corte di Giustizia, nonché alle cd. direttive dettagliate o auto-applicative (sent. n. 168/1991) non soltanto rispetto alla legge ordinaria o ad altri atti aventi forza di legge, ma anche rispetto a norme costituzionali (sent. nn. 399/1987; 126/1996), pur rimanendo fermo il limite del rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.

4.  L’adeguamento delle finalità in materia di appalti della normativa comunitaria in funzione dei valori economici, sociali e da tutelare emergenti

La normativa comunitaria in materia di appalti pubblici risale agli anni ’70 ed è stata più volte aggiornata e modificata. Gli ambiti dell’intervento sovranazionale hanno riguardato, come detto, in particolare: la modifica delle vecchie direttive sui lavori e le forniture, allo scopo di agevolare la partecipazione agli appalti e aumentare la trasparenza; l’introduzione di adeguati mezzi di tutela sia amministrativa che giurisdizionale per garantire l’osservanza delle disposizioni vigenti; l’estensione della disciplina agli appalti pubblici di servizi, di lavori e di forniture nei settori in precedenza esclusi (acqua, telecomunicazioni, energia, trasporti); l’equiparazione di imprese comunitarie e imprese dei Paesi terzi firmatari dell’accordo sugli appalti pubblici concluso nell’ambito dell’Uruguay Round. Il primo intervento comunitario avente carattere unificante la disciplina degli appalti pubblici fu effettuato con le direttive 93/36/CEE (relativa alle forniture nei settori ordinari), 93/37/CEE (relativa ai lavori nei settori ordinari) e 93/38/CE (relativa alle procedure di aggiudicazione nei c.d. settori esclusi). Finalità principale di tali direttive era quello di garantire i principi di pubblicità, trasparenza, imparzialità, apertura del mercato e par condicio, mediante la previsione di norme comuni nell’ambito del mercato europeo.

L’Unione europea ha sviluppato nel tempo una politica economica più organica, consentendo di qualificare il settore dei contratti pubblici come mercato unitario, disciplinato in modo armonico. La Comunità, in tale contesto, ha spostato l’interesse sulla tutela della concorrenza, ritenendo che le stazioni appaltanti dovessero perseguire anche l’interesse del mercato che si pone come corollario della corretta esplicazione delle regole di gara.

La Commissione europea, pur confermando la validità degli obiettivi generali della politica UE in materia di appalti (promozione di una concorrenza non discriminatoria e lotta alla corruzione), ha inteso perseguire ulteriori obiettivi al fine di semplificare una serie di aspetti della disciplina vigente in materia di appalti pubblici, in particolare per quanto riguarda il campo di applicazione, le procedure, il valore delle soglie, la selezione dei candidati, la produzione dei documenti relativi alle gare di appalto. Ulteriori interventi sono stati mirati a favorire la creazione di un vero e proprio mercato europeo degli appalti mediante il ricorso obbligatorio agli appalti elettronici; un migliore accesso delle PMI al mercato degli appalti pubblici mediante la riduzione degli oneri e la suddivisione degli appalti in lotti; la previsione di un regime speciale per i servizi sociali; il calcolo del costo del ciclo di vita dei prodotti o dei servizi oggetto dell’appalto ai fini della sua aggiudicazione; le modifiche dell’appalto in corso di esecuzione; l’uso strategico degli appalti, prestando maggiore attenzione ai vincoli sociali ed ambientali, al tema della tutela della sicurezza e del lavoro.

5. Alcune sentenze della Corte di Giustizia che evidenziano l’orientamento recente della Unione Europea a rafforzare il buon funzionamento del mercato a tutela dell’operatore economico. Sentenza 29 gennaio 2020 – lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Sentenza 30 gennaio 2020 nella causa C-395/18 in tema di esclusione automatica dell’operatore in caso di carenza di requisiti in capo al subappaltatore

Le differenze tra le norme dell’Unione in tema di pagamento, ad esempio, e le prassi seguite negli Stati membri costituiscono un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno.

L’orientamento della Corte di Giustizia è volta ad evidenziare che tali situazioni limitano notevolmente le transazioni commerciali tra gli Stati membri, ciò contrasta con l’articolo 18 del trattato secondo il quale gli operatori economici dovrebbero essere in grado di svolgere le proprie attività in tutto il mercato interno in condizioni che garantiscano che le operazioni transfrontaliere non comportino rischi maggiori di quelle interne. L’applicazione di norme sostanzialmente diverse alle operazioni interne e a quelle transfrontaliere comporterebbe la creazione di distorsioni della concorrenza. (…).

La Commissione europea ha chiesto alla Corte di Giustizia di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo omesso e omettendo tuttora di assicurare che le sue pubbliche amministrazioni evitino di oltrepassare i termini di 30 o 60 giorni di calendario per il pagamento dei loro debiti commerciali, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (GU 2011, L 48, pag. 1), e, in particolare, a quelli di cui all’articolo 4 di tale direttiva.

La direttiva 2011/7 è stata recepita nell’ordinamento giuridico italiano dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 – Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180 (GURI n. 267, del 15 novembre 2012). Il decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, a sua volta, aveva recepito nell’ordinamento giuridico italiano la direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (GU 2000, L 200, pag. 35).

Tra i provvedimenti adottati dalla Repubblica italiana per garantire la puntualità dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni rientrano il decreto legge 8 aprile 2013, n. 35 – Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali (GURI n. 82, dell’8 aprile 2013), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2013, n. 64 (GURI n. 132, del 7 giugno 2013), nonché il decreto legge 24 aprile 2014, n. 66 – Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale (GURI n. 95, del 24 aprile 2014), convertito in legge, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 (GURI n. 143, del 23 giugno 2014). Tali decreti legge prevedono in particolare lo stanziamento di risorse finanziarie aggiuntive per il pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

A seguito di una serie di denunce presentate da operatori economici e associazioni di operatori economici italiani, la Commissione ha inviato alla Repubblica italiana, il 19 giugno 2014, una lettera di messa in mora, contestandole l’inadempimento degli obblighi ad essa incombenti, segnatamente, ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 2011/7.

La Commissione fa valere che i dati comunicati dalla Repubblica italiana stessa dimostrano che le pubbliche amministrazioni italiane hanno superato i termini di pagamento di 30 o 60 giorni stabiliti dall’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7. Un superamento siffatto, la cui esistenza non sarebbe espressamente contestata da tale Stato membro, riguarderebbe l’insieme delle pubbliche amministrazioni e si estenderebbe su un periodo di diversi anni.

Secondo la Commissione, un siffatto superamento continuato e sistematico, da parte delle pubbliche amministrazioni italiane, dei termini di pagamento previsti dall’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7 costituisce di per sé una violazione di quest’ultima, imputabile alla Repubblica italiana. Infatti, dopo l’entrata in vigore di tale direttiva, gli Stati membri, in forza del suo articolo 4, paragrafi 3 e 4, sarebbero tenuti non solo a prevedere, nella loro normativa di recepimento di detta direttiva e nei contratti relativi a transazioni commerciali in cui il debitore è una delle loro pubbliche amministrazioni, termini massimi di pagamento conformi a tali disposizioni, ma anche ad assicurare il rispetto effettivo di questi termini da parte delle suddette pubbliche amministrazioni.

La circostanza, quand’anche accertata, che la situazione relativa ai ritardi di pagamento delle pubbliche amministrazioni italiane nelle transazioni commerciali contemplate dalla direttiva 2011/7 sia in via di miglioramento non può ostare a che la Corte dichiari che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell’Unione [v., per analogia, sentenza del 24 ottobre 2019, Commissione/Francia (Superamento dei valori limite per il biossido di azoto), C-636/18, EU:C:2019:900, punto 49].

La Corte (Grande Sezione) ha dichiarato che l’Italia non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni.

La circostanza, quand’anche accertata, che la situazione relativa ai ritardi di pagamento delle pubbliche amministrazioni italiane nelle transazioni commerciali contemplate dalla direttiva 2011/7 sia in via di miglioramento non può ostare a che la Corte dichiari che la Repubblica italiana ad oggi è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell’Unione.

La Corte di Giustizia 30 gennaio 2020 nella causa C-395/18 si è pronunciata sulla previsione del Codice Appalti, che allo stato è sospesa dallo “Sblocca Cantieri”, che prevede l’esclusione automatica del concorrente che ha indicato in gara un subappaltatore poi risultato privo di requisiti.  <<L’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata. Per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l’articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione>>..

La normativa nazionale in discussione che prevede in modo generale e astratto l’esclusione automatica dell’operatore economico qualora nei confronti di uno dei subappaltatori indicati nell’offerta di tale operatore venga constatata una violazione degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, indipendentemente dalle circostanze in cui si è verificata tale violazione, viola il principio di proporzionalità, imponendo alle amministrazioni aggiudicatrici di procedere automaticamente a tale esclusione a causa della violazione commessa da un subappaltatore, ed eccedendo così il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri, a norma dell’articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24, in ordine alla precisazione delle condizioni di applicazione del motivo di esclusione previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva nel rispetto del diritto dell’Unione.

La normativa nazionale che prevede in modo generale e astratto l’esclusione automatica dell’operatore economico qualora nei confronti di uno dei subappaltatori indicati nell’offerta di tale operatore venga constatata una violazione degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, indipendentemente dalle circostanze in cui si è verificata tale violazione, eccede il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri.

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Beatrice Corradi
Dott.ssa Beatrice Corradi
Dirigente del Servizio Provveditorato, Affari generali e Gruppi Consiliari del Consiglio regionale della Liguria
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